Le colpe dei governi e la responsabilità dei popoli. La democrazia non è solo diritti.

Verso gli stereotipi nazionali si ripartiscono equamente due atteggiamenti opposti, entrambi sbagliati: ritenerli infondati e prenderli per oro colato. Vale per ogni generalizzazione e spiega come in ambito scientifico siano compresenti un approccio basato sul gruppo e un approccio basato sull’individuo. Entrambi efficaci, entrambi capaci di rivelare e spiegare aspetti importanti del comportamento umano purché nessuno di essi sia considerato l’unico valido. Per lo stesso morivo mi guardo bene dall’imputare ai popoli le colpe dei loro governanti o di quanti in qualche modo li rappresentano ma non me la sento di sostenere che il rapporto fra rappresentante e rappresentato sia del tutto casuale. Insomma, detto brutalmente: qualche ombra su tedeschi, cechi o polacchi lo sterminio degli ebrei la getta  così come croati e sloveni qualche tratto culturale poco commendevole l’hanno dimostrato nel corso della caccia all’italiano.

 Le mappe con gli stereotipi degli stranieri sui paesi del mondo (grafico diYanko Tsvetkov)

E se gli inglesi non hanno fatto una piega per il bombardamento di Dresda o gli americani hanno considerato normale aver usato come cavie i giapponesi per testare il nucleare in corpore vili dopo averlo sperimentato sull’atollo di Bikini, qualche responsabilità collettiva ce l’hanno.  La crudeltà, il cinismo, la stupidità, il razzismo sono tratti della personalità individuale e sono all’origine di comportamenti di singoli di cui i singoli portano i peso della responsabilità ma i singoli non nascono dal nulla, sono l’espressione, distorta quanto si vuole, di una cultura, di atteggiamenti collettivi, di caratteri nazionali.  Non dirò quindi che gli americani sono stupidi, che i polacchi sono razzisti o che gli ucraini sono bugiardi e crudeli ma se fossi americano o polacco o ucraino mi sentirei a disagio. Perché è vero che sotto la scorza dell’educazione è possibile trovare l’umanità che ci accomuna ma è  anche vero che quella scorza può anche rivelarsi impenetrabile.

Bomba a grappolo (immagine da IARI)

Ora che il governo di Kiev preme perché gli vengano fornite bombe a grappolo e l’amministrazione americana, dopo averci un po’ riflettuto, si è impegnata a elargirgliele col convinto sostegno, per quel che se ne sa, dei dem da una parte e degli ucraini dall’altra, mi tornano alla mente la campagna di Etiopia e la polemica sui proiettili a espansione, conosciuti come dum dum, in dotazione alle nostre forze armate. I proiettili a espansione sono una cosa infame, studiata per  eliminare l’avversario colpito in modo non letale facendolo morire dissanguato dopo una lunga agonia. Usati da tutti gli eserciti fino alla seconda guerra mondiale, secondo la nostra manualistica sono stati un’esclusiva dell’esercito fascista nella guerra di Etiopia.  Bisognava fare un bel lavaggio del cervello agli adolescenti e non bastavano i Matteotti o i fratelli Rosselli moltiplicati per mille, bisognava criminalizzare il colonialismo italiano, guardarlo con gli occhi di inglesi e francesi. Perché poco importa se c’è voluto il Mahatma Gandhi con la sua invincibile fragilità per allentare il morso  di Albione, non importa se venti anni dopo le sanzioni all’Italia guai a toccare l’Algérie française e se un arcipelago davanti all’Argentina rimane tuttora “territorio d’oltremare” della corona inglese. Insomma il colonialismo, oltre che criminale, è anacronistico solo se riguarda l’Italia. E i proiettili Dum Dum si ricordano solo perché usati contro le milizie di Hailé Selassié, quelle specializzate in mutilazioni sui soldati del regio esercito finiti nelle loro mani o morti sul campo, dimenticando che, come dice il nome, si trattava di un’invenzione inglese collaudata in India.

Una trovata disumana, indubbiamente, che fu giustamente quanto vanamente condannata dalle istituzioni internazionali fin dal 1899, ma che rimaneva comunque circoscritta nell’ambito militare. Inglesi e americani andarono oltre riprendendo le pratiche barbariche del terrorismo sulle popolazioni civili – rinfrescate durante la guerra dei Trenta anni –  con gli strumenti devastanti delle guerre moderne. E, per carità, per giustificare le stragi di civili non si invochino gli effetti secondari ma inevitabili di un conflitto: tanto per rimanere a casa mia se bombardieri americani distrussero il porto di Livorno questo va messo in conto alla guerra perché si trattava di un obbiettivo strategico, ma l’aver raso al suolo tutto il centro storico, cattedrale compresa, non aveva alcun senso sotto il profilo militare, era puro e semplice terrorismo.  Acqua passata, si dirà, mettiamoci una pietra sopra e guardiamo avanti, ora siamo cambiati, siamo migliori. No, loro non sono cambiati, non sono diventati migliori. Sono gli stessi di Dresda, di Hiroshima e son gli stessi che i proiettili dum dum li avevano ideati. E se in Italia, seppure in maniera scomposta, interessata, faziosa i conti col passato si sono fatti  e ci siamo caricati il peso delle nostre responsabilità storiche, americani, inglesi, francesi e, perché non dirlo, ucraini i conti col loro passato non li hanno mai fatti e se ne vedono le conseguenze.

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Da Kiev arriva la richiesta di strumenti destinati esplicitamente al massacro di civili, di nessuna valenza tattica o strategica, assolutamente inutili contro postazioni mezzi o  edifici militari ma micidiali per la popolazione civile. Sono le bombe a grappolo, uno strumento terroristico di cui la convenzione dell’Aia ha condannato la fabbricazione, la commercializzazione e naturalmente l’impiego.  Il proietto, come una sorta di gigantesca cartuccia a pallettoni usata nella caccia al cinghiale, esplodendo rilascia le decine di proiettili contenuti al suo interno che si indirizzano in tutte le direzioni per un raggio di centinaia di metri colpendo a casaccio come una mitraglia impazzita. Il suo impiego di elezione, diciamo pure la sua efficacia, è pressoché esclusivamente contro gli abitanti delle città che non solo ne sono vittime al momento dell’attacco ma successivamente si trovano a dover camminare su strade disseminate di ordigni esplosivi.  Un ottimo modo per costringerli a lasciare le loro case, rifugiarsi oltre il confine  e permettere la riconquista dei territori “occupati dai russi” ormai desertificati, che sono in realtà quelli su cui per otto anni si sono accaniti gli ultranazionalisti impegnati a ripulire le regioni russofone.  Zelensky chiede, Biden risponde dopo un attimo di reticenza che dovrebbe salvargli la faccia. Un gioco che non funziona più come non funzionano più le spudorate menzogne della cricca di Kiev. Che prima incolpa i russi dell’attentato all’oleodotto poi dopo un anno se ne fa un vanto, prima nega ogni responsabilità sul crollo del ponte di Kerch poi lo annovera fra i propri successi, fa saltare per aria – le autobomba sono una specialità ucraina –  una ragazza colpevole di essere figlia di un saggista e conferenziere russo e per settimane insiste con la tesi di un complotto interno alla cerchia di Putin salvo poi minacciare di riservare lo stesso trattamento ai nemici della causa ucraina (e qualche sinistro avvertimento per il murale a Mariupol il nostro artista di strada l’ha ricevuto) fino alla grottesca vicenda della centrale nucleare controllata dai russi che a detta degli ucraini gli stessi russi quotidianamente bombarderebbero, farebbero di tutto per farla esplodere da un momento all’altro dopo aver disseminato  di mine il territorio circostante tanto per precludere a se stessi ogni via di fuga. E ora sulle bombe a grappolo l’argomento decisivo per superare le obiezioni: i russi le stanno già usando. Non è vero ma se viene detto l’opinione pubblica si confonde e gli alleati della Nato possono tranquillamente lavarsi la coscienza ed esprimere il loro placet. Il problema non si pone per la Meloni, fedele fino alla morte o, se si preferisce, docile perinde ac cadaver di fronte al dominus americano. La Meloni che non perde occasione per dichiararsi in perfetta e totale sintonia con la Polonia e i Paesi baltici ansiosi di marciare su Mosca.

Il malanno è che non parla per sé ma in nome dell’Italia ed è in nome dell’Italia  che dichiara il suo sostegno “a 360 gradi”, “senza se e senza ma”, “fino alla vittoria finale”, fino alla riconsegna della Crimea e del Donbass nelle fauci dei nuovi nazisti. È chiaro a tutti, ma non alla banda degli improbabili fascistelli  – uno dei quali qualche giorno fa ha avuto l’impudenza di arruolare Pisanò – che non accadrà mai ed è anche chiaro a tutti che a casa sua allo stesso Biden verrà impedito di passare il limite.  E se sulle bombe a grappolo qualche resistenza c’è stata da parte francese, tedesca e perfino inglese, ai quali la piaggeria dei nostri media hanno sommessamente aggiunto la Meloni. La quale, di suo, in realtà non aveva avvertito alcun problema perché nei suo “sostegno a 360°” c’entrano comodamente non solo le bombe a grappolo ma il gas nervino, le armi batteriologiche e le mazze da baseball: “che diamine” come disse il suo tutore Draghi “non si pretenderà che gli ucraini si difendano a mani nude!”. E, furbetta com’è, nella sua vacanza a Vilnius ha sollecitato la Nato a darsi da fare per cacciare dall’Africa russi e cinesi mentre in Italia  ha fatto credere di averli convinti  a farsi carico del problema dei migranti che l’Africa ci riversa addosso. Fantastico.

La faccenda delle bombe a grappolo è ripugnante ma non fa che esasperare una vicenda che lo è già di suo e pesa come un macigno sui popoli europei che lasciano che i loro governanti si adoperino per prolungare un conflitto che esige quotidianamente  un tributo di corpi straziati e di vite spezzate,  e non importa che siano russi o ucraini. La democrazia, al di là della stucchevole retorica che ne fa un valore assoluto, comporta delle precise responsabilità e non consente di nascondere la testa nella sabbia. Nell’Europa delle monarchie assolute, dell’ordine precostituito e immutabile, dei popoli spettatori e ridotti al silenzio i singoli individui erano legittimati a vivere la loro vita chiusi nella cerchia del quartiere, del villaggio, delle relazioni familiari. In una democrazia no; in una democrazia non ci sono sudditi ma cittadini portatori di una sovranità che non si risolve nei diritti ma implica partecipazione e responsabilità. E se ieri l’americano medio, l’uomo della strada, era complice, connivente, corresponsabile del crimine di Hiroshima e Nagasaki  e se l’impiegato, l’operaio, l’insegnante tedesco il male dell’olocausto non lo possono scaricare tutto su una decina di persone ma lo devono riconoscere ed espiare dentro di sé, oggi ogni cittadino europeo è responsabile delle menzogne, dello stravolgimento della realtà, delle decisioni inconsulte prese dall’Ue e  avallate dai Paesi che ne fanno parte. Negli anni aurorali della democrazia i popoli europei, e quello italiano in particolare, mostrarono,  anche violentemente e su fronti opposti, la loro capacità e la loro volontà di partecipazione: si pensi allo scontro in Italia fra neutralisti e interventisti alla vigilia della Grande Guerra. Oggi si pensa che la condanna a morte di tanti giovani, la devastazione di città e campagne, la paura e l’angoscia che condiziona la vita di intere comunità di cui sono direttamente e attivamente responsabili politici, governanti, giornalisti non coinvolga la coscienza della gente comune, alla quale non resta che stare a guardare. Non è così. Quei politici, governanti, opinionisti ci rappresentano e se si lasciano fare le loro colpe sono le nostre colpe.

Pierfranco Lisorini

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