Smonta la casta

 SMONTA LA CASTA, RIMONTA LA POLITICA 
Un programma moderato e di buon senso per riformare la politica

 SMONTA LA CASTA, RIMONTA LA POLITICA 
Un programma moderato e di buon senso per riformare la politica 

I fatti di queste ultime settimane hanno ravvivato e rafforzato in tutti noi una crescente distanza dal “Palazzo” e dalla sua classe politica, sempre più autoreferenziale ed ogni giorno più lontana dalle istanze della collettività.

Il termine “casta” si riferisce alla società indiana, stando a configurare un gruppo sociale chiuso dove, per un individuo che ne fa parte, è molto difficile se non impossibile entrare a far parte di una casta diversa, specialmente se di grado più elevato. 

Questo termine, volutamente fatto cadere un po’ in disuso nella nostra società moderna,  globale, mobile e tesa solo ad esaltare la possibilità di farsi da sè sul modello del self made man borghese, diventa improvvisamente attuale grazie ad un libro – inchiesta di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, uscito nel 2007: “ La Casta 

Il testo, che ha avuto un riscontro di lettori notevole,  descrive in maniera analitica sprechi e privilegi ingiustificati della politica italiana. E per difendersi dalle solite accuse di demagogia e qualunquismo gli autori spesso citano, accanto ai vari scandali, esempi positivi, ovviamente tutti riferiti, nella stragrande maggioranza dei casi, alla classe politica estera.

Lo straordinario successo dello scritto, presentato da Rizzo e Stella nel corso di quell anno un po’ in tutta Italia, ha acceso nel Paese un forte dibattito sul come tamponare le situazioni più paradossali descritte. 

Diversi sostengono che “La Casta” possa essere definito come una sorta di “manifesto ufficiale dell’antipolitica”.

 Nel senso più comune, il termine “antipolitica” definisce l’atteggiamento di coloro che si oppongono alla politica, giudicandola mera pratica di potere e, quindi, ai partiti e agli esponenti politici, ritenendoli  dediti esclusivamente ad interessi personali e, solo in forma residuale e risibile, orientati alla ricerca del bene comune. 

Vale la pena soffermarsi su alcuni dei passaggi più eclatanti e significativi, arricchendoli, tuttavia, anche dei contributi del dibattito sviluppatosi in queste ultime settimane e, sottolineando sin da subito che, dall’anno della sua uscita (2007) ad oggi (2011), le spese per il funzionamento della Camera, nonostante le promesse seguite al boom del libro, sono aumentate di ben 60 milioni, sfiorando la stratosferica cifra di 1.071 milioni di euro. Denaro speso per far funzionare ben 22 palazzi ed una popolazione di neppure tremila persone, fra deputati, assistenti, questori e personale vario.

In particolare: 

–   Tra i grandi paesi occidentali l’Italia è quello col numero più alto di parlamentari eletti. Senza contare i senatori a vita, abbiamo un parlamentare ogni 60.371 abitanti contro uno ogni 91.824 in Gran Bretagna, uno ogni 112.502 in Germania e, addirittura, uno ogni 560.747 negli Stati Uniti. 

–   Lo stipendio di un deputato è cresciuto dal 1948 ad oggi, in termini reali, e cioè tolta l’inflazione, di quasi sei volte: era di 1.964 euro allora ed è di 11.704 oggi. Contro i 7.177 euro dell’Olanda, i 7.009 della Germania, i 6.892 della Francia, i 5.715 della Grecia, i 3.449 del Portogallo, i 2.921 della Spagna. 

–   Va peraltro sottolineata la crescente insofferenza di molti parlamentari verso chi calcola nel loro stipendio anche i soldi per il collaboratore. Sembrerà impossibile, ma pur percependo ogni mese 3.690 euro a titolo di rimborso spese rapporto eletti/elettori, molti deputati, visto che le spese non vanno documentate, preferiscono intascarsi la quota mensile e fare tutto da soli. Altri colleghi per risparmiare si mettono insieme e ne pagano uno che fa il triplo lavoro. Ecco così svelata la sproporzione tra il numero dei deputati e i contratti in corso per i segretari. Difficile, tuttavia, pensare e convincersi che non ci sia del nero….. Ad oggi i collaboratori sono figure indefinite, prive di un vero riconoscimento ed inesistenti dal punto di vista dell’inquadramento professionale. E pertanto soggetti spesso ad abusi ed angherie.

–  Altro aspetto scandaloso è la vicenda dei vitalizi. Ad oggi esistono ben 2.308 ex deputati ed ex senatori che lo incassano ed ogni mese si mettono in tasca da 1.700 a 7.000 euro netti.

 Arturo Guatelli

 E si arriva a quota 3.356, se alle pensioni dirette aggiungiamo le reversibilità. Precisazione non secondaria.

Ad esempio, dall’autunno del 2000, incassa il “vitalizio di reversibilità” la vedova di un uomo che non mise mai piede a Palazzo Madama.

Neppure un giorno, neppure un’ora, neppure un minuto.

Si chiamava Arturo Guatelli ed era un famoso giornalista. Trombato alle elezioni del 1979 nelle quali si era candidato nelle fila della DC, il 29 aprile 1983, dopo mesi di tira e molla, il quinto governo Fanfani cadde. Quattro giorni dopo, il Presidente Pertini sciolse le Camere. Due giorni dopo, a Camere sciolte, il Presidente del Senato Tommaso Morlino morì. La prefettura di Milano telefonò quindi a Guatelli, primo dei non eletti, comunicandogli la nomina a Senatore. Un fatto più formale che sostanziale, egli pensò. Fino a quando, pochi giorni dopo, al giornalista arrivarono un pezzetto dello stipendio e della liquidazione e la comunicazione che aveva maturato un vitalizio da riscuotere dai 60 anni, previo pagamento di cinque anni di contributi figurativi previsti come minimo. Versò qualche migliaio di euro e, festeggiato il sessantesimo compleanno, iniziò a riscuotere…….

Forse è superfluo sottolineare come il vitalizio sia altresì cumulabile con due, tre o quattro pensioni o stipendi: celebre è il caso di Antonio Di Pietro, che cumulò allo stipendio da ministro, l’indennità parlamentare ed anche la pensione da magistrato di cui gode (mettendo insieme il riscatto della laurea, i contributi da poliziotto e quelli da pm) da quando gettò la toga alla verde età di 44 anni. Egli è un baby pensionato il cui assegno mensile ammonta a 2.644 euro, 1.956 netti e che l’INPDAP gli versa da ormai 16 anni. Più che organizzare manifestazioni contro la casta, ce ne sarebbe abbastanza per tirarsi le monetine da solo……

Oggi i parlamentari acquisiscono il diritto appena dopo cinque anni di pagamento di una quota mensile dell’8,6 per cento dell’indennità lorda (1.006 euro); si tratta, con ogni evidenza, di una delle principali ragioni dell’attuale prolungarsi di una legislatura e di un governo agonizzanti. Inoltre il vitalizio, anziché essere calcolato sulla base dei contributi versati (come succede dalla metà degli anni ’90 a qualsiasi povero cristo, per altro prossimo alla pensione esclusivamente dopo quarant’anni o giù di lì di lavoro), per deputati e senatori è calcolato sulla scorta dell’indennità lorda e della percentuale legata agli anni di presenza in Parlamento. Con cinque anni di mandato si riscuote una pensione pari al 25 per cento dell’indennità, cioè 2.926 euro. Raggiungendo invece i 30 anni di presenza si tocca il massimo, l’80 per cento dell’indennità, vale a dire 9362 euro. Inoltre, con la cosiddetta “clausola d’oro”, i vitalizi si rivalutano automaticamente grazie all’ancoraggio al valore dell’indennità lorda del parlamentare ancora in servizio. 

  Sui bilanci del Palazzo non può metterci il naso nessuno. Neppure la Corte dei Conti. Il Parlamento, infatti, se la suona e se la canta e, sensato o spendaccione che sia, esso è sovrano. Al punto che ogni anno comunica al Tesoro quanto vuole ed il Tesoro, anche se la cifra è spropositata, non può far altro che chiedere amichevolmente un po’ di sobrietà. Non migliore la situazione del Quirinale, che costa circa il quadruplo di Buckingam Palace (dati relativi al 2006). 

  Spostandosi da Roma alle Regioni, proprio il tema dei vitalizi rappresenta la cartina al tornasole della totale mancanza di superiorità morale di una fazione politica sull’altra. Prendiamo, ad esempio, la nostra Regione, la Liguria, dove il centrosinistra è in maggioranza; c’è chi, sull’abolizione del vitalizio, ci ha fatto la campagna elettorale sopra; eppure, una volta eletto, le priorità sono state altre, dalla revisione in chiave cementificatrice del piano casa al, per restare in ambito locale, potenziamento degli impianti di produzione elettrica alimentati a carbone.

 È assolutamente immorale e inaccettabile, dove si è in minoranza, fare della lotta alla casta la madre di tutte le battaglie e, dove si è in maggioranza, derubricare l’argomento, tirandolo fuori solo a seguito di mille sollecitazioni esterne, e per giunta in colpevole ritardo.

L’abolizione del vitalizio: un provvedimento che, dai banchi della maggioranza, se ci fosse stata la volontà politica di farlo, avrebbe potuto essere positivamente archiviato entro i primi trenta giorni della legislatura regionale vigente, cioè già un anno e mezzo fa. 

   Dalle Regioni alle Province. Quest’ultime sono una dimensione politica che non ha paragoni in nessun altro Paese simile all’Italia. In Francia i Dipartimenti hanno dimensione analoga, ma al di sopra c’è poi solo lo Stato. E in Germania non c’è nulla tra i Comuni e i Lànder. In Gran Bretagna ci sono le Contee, ma non hanno carattere politico, bensì solo tecnico-amministrativo. Discorso analogo per le Contee statunitensi, dove comanda lo sceriffo.

 Le Province andrebbero quindi abolite tramite la revisione dell’articolo della Costituzione che le prevede e, sincronicamente, attraverso un processo di accentramento e decentramento delle loro competenze, rispettivamente verso Regioni e Comuni. Si tenta invece demagogicamente di ridurle, dopo averle per anni moltiplicate come i pani e i pesci (caso limite: la provincia sarda dell’Ogliastra, 58.000 abitanti, meno di un quartiere di Milano, con capoluogo Tortolì, 10.000 anime).

E non si può non sorridere quando il governo fissa la tagliola a 300.000 abitanti mentre, nel cuore della notte, spunta all’improvviso anche il requisito dei 3.000 kilometri quadrati e viene così messa in salvo Sondrio, la Provincia del Ministro Tremonti.

In ogni caso, questa “furia iconoclasta” crescente nel paese nei confronti della casta andrebbe canalizzata dalla classe politica stessa in modo positivo, costruttivo e producente. Ma ciò non sta in alcun modo verificandosi.

 L’unica soluzione che lorsignori ci propinano è quella dei “tagli”, ma fatti sempre sacrificando spazi di partecipazione, espressione e rappresentatività democratica, non benefits, stipendi e meccanismi di elezione (si pensi alle circoscrizioni ed ora ai Comuni sotto i mille abitanti, importantissimi presidi sul territorio, dove il costo complessivo annuale di Sindaco, Vice – Sindaco, Assessori e intero consiglio comunale è complessivamente inferiore alla mensilità di un deputato!).

La stessa riduzione dei parlamentari periodicamente proclamata, mantenendo le condizioni di privilegio attuali, si tradurrebbe esclusivamente in un ulteriore restringimento nel rapporto tra società e politica ed in una  crescente lontananza dalla realtà di una vera e propria oligarchia di intoccabili e irraggiungibili, oltretutto e per lo più “nominati” a seguito di un sistema di liste bloccate che, in questi ultimi anni, ha prodotto danni sociali e morali enormi.

Senza mai mancare di sottolineare, e più e più volte, il concetto che non sarebbe certo il ripristino del sistema maggioritario con i collegi uninominali la panacea di tutti i mali. Ma, al più, lo sarebbe la correzione dell’attuale legge elettorale, con l’introduzione della preferenza, una soglia uniforme di sbarramento al 3-4% (uguale per chi è coalizzato e per chi va da solo) ed un premio di maggioranza che scatti solo qualora la coalizione vincente superi almeno il 40% – 45% dei suffragi. 

Con il varo del decreto governativo di agosto, invece, si tagliano poltrone il cui costo totale è poco incisivo, producendo un effetto grave quale l’eliminazione dei presidi territoriali, mentre la strada maestra per effettuare risparmi, al di là di ogni altra sparata demagogica, deve restare la gestione associata delle funzioni e dei servizi. 

Smontare la casta e rimontare la politica, partendo proprio dalla valorizzazione dei Comuni e dei loro consessi elettivi, che, come succede in Germania ed anche altrove, dovrebbero direttamente raccordarsi con le Regioni e con il Governo centrale.

E tagliare i costi della politica, ma, prima di tutto, in termini di benefits, stipendi e riduzione delle storture del sistema. 

Ecco alcuni “suggerimenti”: 

–  Equiparare lo stipendio dei nostri parlamentari alla media di quello degli altri “onorevoli” europei: una cifra intorno ai 6.000 euro mensili

– Non erogare direttamente nella busta paga del parlamentare la cifra di 3.690 euro corrispondente alla voce “fondo spese rapporto eletto-elettore”, ma farlo solo se intercorre un regolare contratto di lavoro tra il collaboratore e l’onorevole e se esiste un contratto di locazione della segreteria sul territorio correttamente registrato. A Strasburgo si fa già così da tempo. 

–  Divieto di assunzione di collaboratori se parenti entro il terzo grado del parlamentare (come negli altri paesi europei)

–  Abolizione di qualsiasi vitalizio di parlamentari e consiglieri regionali, inserendo il loro rapporto di lavoro all’interno della gestione INPS, con calcolo basato sul sistema contributivo e regolare conseguimento di pensione di anzianità o di vecchiaia. 

–  No all’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, ma diversa modalità di erogazione.

Certo, il referendum del 18 aprile del ’93 lo aveva abolito, per poi rinascere pochi mesi dopo cambiando dicitura in “rimborso elettorale”, con l’aggravante di essere calcolato sul numero degli elettori, anziché sui voti realmente conseguiti, e con l’assurdità di non interrompersi neppure a Camere sciolte, proseguendo regolarmente e a prescindere. Per 5 anni.

 

Queste storture andrebbero ovviamente eliminate, ma ci vuole una legge radicalmente nuova sul finanziamento della politica, così come proposta dal direttore di Micromega Paolo Flores D’Arcais, che abroghi il finanziamento in denaro e lo garantisca altrettanto eguale e amplio, ma solo in risorse comunicative, spazi televisivi, sale, palchi nelle piazze, carta per i manifesti e i volantini, tutto ciò che davvero metta in stato di eguaglianza le varie forze, senza però premiare in nessun modo gli apparati burocratici, vera e propria protesi della politica degenerata a professione. 

–   Va in tal senso profondamente rivista la legge 659/1981, la quale garantisce la possibilità di versamenti liberali di aziende, lobby di potere e cittadini a partiti politici e a candidati e, per lo più, godendo di un regime fiscale favorevole, giacchè i contributi hanno diritto alla detrazione del 19%. Giungendo al paradossale e all’infame: le erogazioni alle associazioni onlus (cioè non lucrative di utilità sociale) si possono detrarre dalle imposte per il 19% fino a un tetto massimo di 2.065 euro. Tetto che per i finanziamenti politici è ben 50 volte più alto: 103.000 euro. Tradotto: ci sono più sconti fiscali per le donazioni ai partiti, che per quelle ai bimbi lebbrosi o malati di leucemia. 

Ingraziarsi le simpatie di una segreteria di partito può quindi venire utile sia per gli affari che per risparmiare qualche quattrino, diversamente polverizzato dalle tasse.

La detrazione al 19% per le erogazioni alla politica va in ogni modo azzerata e, nel contempo, questo tipo di finanziamento, anche se non più detraibile, deve essere in ogni caso  reso pubblico, con cadenza prefissata, su televisioni, quotidiani, settimanali, appositi siti internet e, durante le campagna elettorale, all’inizio e alla fine degli spot televisivi e radiofonici e sui manifesti, accanto al nome del committente responsabile.

 Non si tratta, per l’amor del cielo, di tornare all’applicazione dell’articolo 50 dello Statuto Albertino, in base al quale la politica doveva essere esclusivamente un servizio da rendere gratuitamente. Ma, semplicemente,  è più che mai necessario sanare gli eccessi vergognosi elencati, così come quelli meno incisivi economicamente ma con forte valenza simbolica come, ad esempio, il prezzo di un piatto di ravioli al ragù a Palazzo Madama, servito su piatti in porcellana da impeccabili camerieri in livrea a 84 centesimi, cifra di gran lunga inferiore a quella sostenuta dai netturbini con piatti di plastica in una mensa operaia….. 

Si è levato in questi ultimi mesi un messaggio importante che chiede innanzitutto una nuova etica pubblica e pretende un nuovo modo di fare politica, esclusivamente finalizzato al bene comune. 

La concretizzazione di provvedimenti come quelli appena elencati riuscirebbe senz altro a trasformare l’antipolitica nel senso deteriore del termine – quella del “tanto non cambia nulla, sono tutti uguali” – in energia costruttiva per il cambiamento. 

Con coraggio, preparando l’alternativa non solo a Berlusconi, ma soprattutto al berlusconismo, al tessuto elettorale inquinato della società e a tutti i “berluschini” del centrosinistra. 

Una sfida culturale ancor prima che politica. 

Bisogna mettersi in cammino, come in quella bellissima immagine del Quarto Stato, raffigurante proprio il popolo che si mette in movimento, avanzando verso la luce.

 

      Federico Gozzi    3 settembre

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