Debito pubblico e politici discutibili

Cose banali, ma che nessuno scrive…

 
Alla ricerca di un’eccellenza che ci sfugge e debito pubblico
Con domande sempre senza risposta. La differenza tra politico e statista

Cose banali, ma che nessuno scrive…
Alla ricerca di un’eccellenza che ci sfugge e debito pubblico
Con domande sempre senza risposta. La differenza tra politico e statista

L’aspetto più curioso della manovra economica varata un paio di settimane fa è che, da allora, nessun politico sembra interessato a un tema fondamentale: quello del debito pubblico. Forse perché la manovra, con i suoi quarantacinque miliardi (o sessanta, o settanta), ha solo lo scopo di raggiungere il “pareggio di bilancio” entro il 2013 anziché entro il 2014. Ma questo non basta, perché il debito pubblico c’è, ed è inevitabile affrontarlo.

Il debito pubblico sembra dimenticato da tutti, salvo che dal Presidente Napolitano. Nessuno che abbia detto, mai: “Facendo in questo modo, il debito si ridurrà del 10% (oppure del 2%, oppure dello 0,2%)”. Sul debito non si riesce a capire cosa si debba fare, cosa si possa e si voglia fare. E neppure cosa si rischi. Va ridotto o va lasciato così com’è? E, se va ridotto, a quanto va ridotto? A mille miliardi, a ottocento, a milleduecento? E in quanto tempo: in un anno, in dieci, in venti? E se non si fa nulla, cosa succederà? E’ vero che presto o tardi andremo a fondo. Magari al modo della Germania anni Venti? Ma quando? E cosa significa “andare a fondo”?

A meno che il problema sia un “non problema”: ma allora tanto vale dirlo una volta per tutte, senza poi tirarlo fuori due volte al mese, come uno spauracchio, come si fa per il global warming del quale tutti parlano, sul quale molti guadagnano e speculano, e contro il quale nessuno fa nulla. Di serio.

Nei mesi scorsi qualcuno ha dichiarato che lo Stato, per ridurre il debito, potrebbe e dovrebbe vendere le sue proprietà immobiliari, e quindi ha esposto cifre. Qualche politico ha affermato che queste proprietà immobiliari valgono 500 miliardi e che il 40% (ossia 200 miliardi ) è vendibile. Ma nessuno ha detto cosa si farà con questi quattrini. Nessuno ha detto se andranno a diminuire il debito pubblico oppure no.

La faccenda è tanto più critica perché già vent’anni fa, quando il debito pubblico era molto inferiore all’attuale, certi politici sostenevano che lo Stato avrebbe dovuto ridurlo e, per farlo, avrebbe dovuto privatizzare (ossia, vendere le sue proprietà). Infatti, ne privatizzò. Tuttavia il debito pubblico non diminuì, anzi continuò a crescere. Perché il denaro incassato, evidentemente, servì ad altro.

Se qualcuno di noi si comportasse così nel suo privato, se avendo un grosso debito vendesse ciò che possiede, non per estinguere il debito ma per continuare a vivere al disopra dei propri mezzi, allora finirebbe sul lastrico e sarebbe considerato uno sciocco. Se si comportasse così un industriale, allora fallirebbe.  

Intanto, esperti e potenti vanno dicendo che l’unico rimedio possibile al debito pubblico sarebbe la crescita economica (che peraltro non c’è), tutti con l’aria di dire una cosa importante: e nessuno ribatte che potrebbe essere una sciocchezza. Perché la crescita economica sembra fuori della nostra portata, anche più della riduzione del debito pubblico. Perché la crescita economica, più che da noi, dipende dal mercato. Perché i Paesi in maggior crescita (Cina, India, Brasile, per non parlare di quelli del cosiddetto Terzo Mondo), hanno alcune caratteristiche che noi non abbiamo: hanno spazio per crescere (come succedeva in Italia ai tempi del “miracolo”) perché sono meno industrializzati di noi, invadono i nostri mercati mentre noi abbiamo poco da vendere sui loro, producono e vendono a prezzi più bassi dei nostri perché hanno costi e vincoli minori. E, per giunta, molte nostre imprese (non solo italiane ma europee), salvo errori, hanno creato stabilimenti in casa loro per produrre a costi bassi e importano i loro prodotti in Italia lasciando laggiù guadagni e crescita, a spese di quella italiana.

E’ la globalizzazione, e la conferma viene dalla crescita modesta degli altri Stati Europei e degli Stati Uniti.  

Se in Italia qualcuno (nel Ministero del Tesoro? Nella Banca d’Italia) ha la struttura, la cultura e il potere per fare calcoli seri, costui dovrebbe almeno dirci in che misura un punto (o due punti, oppure tre punti) in più di crescita economica possa servire a ridurre il debito pubblico: di quanto, e in quanto tempo. E dovrebbe dirci come si possa/debba fare per arrivarci. Altrimenti il concetto di “crescita economica” resta una frase a effetto. Così come lo è stata la retorica sulle colonie e sull’impero, concetti sui quali l’Italia ha speso fiumi di parole per anni mentre, alla fine, oltre ad riceverne una gloria effimera e fasulla, ne ha ottenuto solo uno spreco denaro e guai inutili.

In attesa che queste risposte ci arrivino, l’unico modo razionale per guardare all’Italia sembra quello di considerarla come se fosse un’azienda. Facendo qualche considerazione gestionale, elementare per le aziende il cui conto economico, su una certa riga, mostra un numero importante: il Margine Operativo Lordo. Ossia, il numero che indica la differenza fra ciò che si è incassato e ciò che si è speso in un certo periodo: ossia il guadagno (o la perdita) di cui sono responsabili i dirigenti operativi, dal direttore generale in giù. Se questo numero è positivo e se supera una certa percentuale della cifra d’affari, allora sono tutti contenti. Altrimenti sono tutti infelici e si danno da fare sui tre soli fronti su cui possono agire: aumentare il volume delle vendite, aumentare i prezzi (anche se questo, spesso, impedisce di aumentare il volume) e diminuire i costi. Ma aumentare le vendite e i prezzi (la crescita!) non dipende tanto dalla loro volontà e dalla loro abilità, quanto dal mercato. Mentre, per ridurre i costi, bisogna fare i conti (tra gli altri) con innumerevoli vincoli esterni, fuori del loro controllo: per esempio, ancora con il mercato e con le leggi sociali. Ne sa qualcosa l’Italia, come Stato.

 

Dunque non sempre le vendite si possano aumentare, dunque non sempre si può crescere, dunque non sempre i costi si possano ridurre come si vorrebbe. E quindi può darsi che l’azienda continui a non guadagnare. Allora, per non affondare, si può solo prendere denaro in prestito in attesa di tempi migliori. Però, quando ci si indebita, ai soliti costi si aggiungono gli interessi da pagare sulle somme prese in prestito. E se la gestione corrente, nel tempo, non riesce a guadagnare abbastanza, allora la situazione presto o tardi precipita. A volte succede che l’azienda abbia qualche proprietà da vendere, per eliminare una parte del debito. Ma se usa i quattrini incassati soltanto per fingere di aver migliorato il risultato economico corrente, allora è anche peggio. Perché, alla fine, le resta il debito senza più proprietà da vendere. Lo stesso può capitare all’Italia.

 

Banale? Certamente, purché lo si capisca. Mentre purtroppo l’esperienza insegna che i grandi capi, nei momenti di crisi, capiscono poco (o fingono di non capire, che è anche peggio). E la situazione dell’Italia rassomiglia a quella di ogni azienda in difficoltà, gestita da qualcuno che non capisce o finge di non capire. Mentre le strade possibili per rimediare, se si eliminano errori, imbrogli e pii desideri, sono poche:

1) Decidere una volta per tutte quale sia il massimo livello accettabile del debito e spiegare al popolo (nelle aziende si spiega agli azionisti) come si possa fare per raggiungerlo, in quanto tempo e con quale spesa. Una manovra del genere, nelle aziende si chiamerebbe “piano strategico di rientro del debito”. In politica qualcuno la chiamerebbe “trasparenza”.

2) Attuare questo piano strategico con un’inevitabile patrimoniale, prima che il livello del debito – insieme con quello dell’impoverimento del Paese – diventi tale da renderlo davvero impossibile. E riducendo tutti i costi possibili, inclusi quelli resi difficili dalle “resistenze corporative” o dalla paura del voto.

3) Approfittare delle elezioni per dare il potere a politici seri, colti e responsabili, che non trattino a pernacchie le opinioni altrui. Magari imponendo che nessuno si possa candidare a nessuna carica se non ha almeno due prerequisiti indispensabili: un minimo di cultura specifica e una specchiata onestà. Questo terzo punto sembra oggettivamente il più difficile da mettere in pratica

 

L’Italia non è un Paese ingovernabile, non più di ogni altro. Quello dell’ingovernabilità è una fandonia, un luogo comune comodo per tutti quelli che l’hanno governata senza possedere la statura necessaria. Se l’Italia fosse davvero un Paese ingovernabile, nessun politico sarebbe mai riuscito a intruppare milioni in eserciti, per farli ammazzare in guerre assurde; e neppure a imporre ai civili gli incredibili sacrifici che ne sono derivati.

Invece, deve essere chiaro a tutti che i politici hanno responsabilità infinitamente maggiori di quelle dei cittadini. I cittadini sono loro i proprietari dell’Italia e hanno perfino il diritto di essere ingovernabili mentre i politici sono solo i loro amministratori e, come tali, devono rendere conto di tutto ciò che fanno. Senza speculare sul fatto che la maggioranza degli  italiani, come tutti i piccoli azionisti privi di cultura specifica, possono essere imbrogliati approfittando della loro ignoranza, della loro ingenuità e della loro credulità.

Lo spreco del denaro va perseguito e condannato perché può provocare un danno irrimediabile, per l’Italia come per ogni azienda. Un danno che ricade sempre sui proprietari di azioni e di obbligazioni e sui creditori delle aziende, mentre spesso se la cavano meglio proprio gli amministratori.

L’Italia, non può essere mandata a fondo dalle conseguenze del suo debito pubblico, questo è fuori discussione. Siamo in tempo per evitarlo e, fortunatamente, l’Europa prima di espellerci farà di tutto per impedire errori e imbrogli: non per bontà, ma per interesse. Anche se è evidente che i nostri politici, di qualunque area siano, col debito non si sentono a loro agio, per paura che le misure da prendere abbiano conseguenze elettorali catastrofiche.

 

Forse ci occorre uno statista fornito di una vera cultura economica e, insieme, del coraggio occorrente per affrontare davvero il problema: Alcide De Gasperi una volta disse che la differenza tra l’uomo politico e lo statista sta nel fatto che il primo pensa alle prossime elezioni e il secondo pensa ai prossimi trent’anni. Noi, di questo tipo di statista e delle  sue qualità, abbiamo perso la memoria. Per fortuna però abbiamo una cultura maggiore di quella del passato, abbiamo mezzi di comunicazioni sufficienti a capirci molto meglio e non abbiamo censure. Ma dobbiamo capire, sapere, e agire prima che sia troppo tardi. 

Filippo Bonfiglietti           2 settembre

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