La crescita

UN’ODIERNA  FATA  MORGANA: 
LA  CRESCITA

UN’ODIERNA  FATA  MORGANA: 
LA  CRESCITA
  
Torniamo ancora una volta sul tema della crescita, tanto caro a Confindustria, sindacati e parti sociali varie (tirandoci per il collo anche il governo).
Cominciamo con un paragone fisiologico: ogni organismo vivente nasce, si sviluppa, rimane stazionario durante la sua maturità e poi inizia il suo declino.
Non diversamente accade alle civiltà.
La durata della loro crescita varia a seconda delle capacità di sfruttamento delle risorse naturali. Normalmente la popolazione cresce in parallelo a questo sfruttamento, finché l’aumento demografico non eccede la capacità dell’ambiente di fornire le risorse necessarie. A quel punto la crescita si arresta e si assesta in uno stato di equilibrio stazionario. Se invece un certo popolo pretende di crescere ancora ha come opzioni: o l’espansione territoriale, a scapito dei popoli confinanti, ovvero la rottura dell’equilibrio stazionario consumando risorse a un ritmo superiore a quello della loro rigenerazione (nel caso di risorse rinnovabili) o con rendimenti decrescenti se si tratta di risorse finite, come petrolio, carbone, gas. Da tener presente che equilibrio stazionario è un termine che si adatta non solo ai consumi ma anche ai prodotti di rifiuto, nel senso che devono venire di pari passo riassorbiti nei cicli naturali, pena una loro crescente, disordinata diffusione.

 

Alla luce di quanto sopra –che ritengo sfidi qualunque smentita- a che punto della sua parabola si trova la civiltà occidentale nel suo insieme? Non v’è dubbio che essa è riuscita a crescere sfruttando dapprima le sue risorse e poi quelle del resto del mondo. La svolta è stata molto netta nel caso degli USA, che l’hanno effettuata a cavallo degli anni ’60 e ’70: se fino allora, scacciando gli insediamenti locali autoctoni, erano stati un paese auto-sufficiente, di poi, grazie ad una valuta accettata come riserva dal resto del mondo, divennero una nazione sempre più dipendente da risorse altrui, con l’esplosione di un consumismo che finì per considerarsi normale. Questa stessa svolta l’Europa l’aveva compiuta a partire dal XVI secolo, con le scoperte geografiche e le successive colonizzazioni.

La crescita delle nazioni occidentali è stata quindi una crescita protratta ben oltre i limiti delle proprie risorse: una crescita forzata. Nessuna nazione dell’Occidente ha mai voluto riconoscere di aver raggiunto lo stadio di maturità, quello in cui non si cresce più e ci si assesta su uno stato stazionario, ossia con una popolazione oscillante intorno ad una media costante (la denatalità è stata più che compensata dai flussi immigratori), che consuma risorse e produce rifiuti riciclabili a un tasso altrettanto costante. Al contrario, e con una tendenza che oggi si attaglia anche ai singoli individui, queste nazioni si sono illuse di poter rimanere indefinitamente nello stadio della crescita: sono delle perenni adolescenti, che si rifiutano di accettare la fisiologica transizione alla maturità, il che significa anche e soprattutto assumersi delle responsabilità, verso la società e verso l’ambiente. (1)

La spinta all’irresponsabilità ha avuto il suo acme dopo le facili illusioni del 1968 (altro che “formidabili quegli anni!”), che hanno dato la stura ad ogni sorta di pretesa, infantilmente invocata. In quegli anni il sottoscritto militava a Milano in sparute avanguardie ecologiste, che le sinistre bollavano come reazionarie, proprio perché propugnavano lo stato stazionario e la moderazione salariale, pensionistica e dei consumi. Umberto Eco, su Il Manifesto, titolava “L’ecologia? Là in fondo a destra”.

E i meno giovani ricordano cosa significava in quegli anni essere considerati di destra. Anche se non eravamo né di destra né di sinistra, ma solo consapevoli della posta in gioco. Le carte si sono scoperte solo decenni più tardi, con il prezzo di quelle follie addebitato alle classi meno abbienti.

 

Prendiamo l’esempio delle pensioni, generosamente distribuite, assieme ad altre regalie (come le false invalidità), dopo una manciata di anni lavorativi, ai dipendenti pubblici e a tutto il complesso di persone che ruotano attorno alla politica (oggi si calcola siano sul milione e mezzo).

 

Mentre eserciti di lavoratori, o pseudo-tali, passavano beatamente nelle file dei pensionati, sempre meno giovani venivano reclutati nei posti di lavoro, anche grazie all’outsourcing, ossia alla dislocazione di aziende in nazioni più accomodanti sia sindacalmente che ambientalmente. Si assisteva insomma ad una massiccia industrializzazione delle campagne (quindi taglio parallelo degli addetti e loro sostituzione con macchine ad elevato consumo energetico e sostanze chimiche energivore e tossiche), mentre si deindustrializzava, esportandola, la produzione di beni non alimentari; e, in compenso, si allargava la platea di dipendenti (o precari) dello Stato ed enti pubblici vari, parassitaria del sempre più esiguo mondo produttivo.

 

Ogni tentativo di innalzare almeno l’età pensionabile per bilanciare questo squilibrio tra contributi versati e pensioni percepite si è sempre scontrato con gli strenui e postumi difensori dello spirito del ’68, negando l’evidenza pur di mantenere lo status quo. Risultato: i contributi pensionistici chiesti ai pochi che oggi lavorano sono schiaccianti e soffocano ogni palpito di imprenditorialità.

Tutto quanto sinora detto si riferisce a grandi linee al contesto sociale. Ma non ho preso in considerazione un’ulteriore voragine dentro cui finiscono i frutti del sudato lavoro di tutti.

Questa voragine si chiama interesse sul debito pubblico. C’è un coro di voci che ci vorrebbero fuori dal guado, sempre grazie alla “crescita”, arrivando già nel 2013 al pareggio di bilancio. Vediamo qualche dato.

Debito pubblico: € 1.911 miliardi (ca. 123% del PIL)

Interesse attuale sul debito: 6% = € 115 miliardi l’anno

Crescita prevista: 0,5% su un PIL di ca. € 1.550 = ca. € 8 miliardi

La disparità è colossale e, per azzerarla, cioè equiparare entrate e uscite, senza diminuire il debito di un solo euro, bisognerebbe rastrellare sui € 107 miliardi l’anno. A tale scopo si punta: a) al recupero di soldi evasi; b) all’aumento delle tasse; c) al taglio delle spese (massime i servizi sociali); d) all’aumento della produzione: la mitica crescita del PIL, cioè dei consumi, alla faccia dell’ambiente. Altre misure, come l’innalzamento dell’età pensionabile, è fortemente auspicabile; mentre la riduzione del contante a € 500 per transazione è risibile e favorisce solo le banche: per il riciclo in grande stile esistono ampi canali privilegiati e segreti.

Ricordiamo la composizione del PIL: Consumi + Investimenti + Spesa pubblica + Esportazioni nette. Si tratta di cifre lorde, quindi inclusive di tasse. Tagliando la spesa pubblica il PIL decresce, ma aumenta al crescere delle tasse: due voci che si elidono a vicenda, tra quelle sopra elencate.

Di più, si dà il fatto che moltissime attività, se non eludessero almeno un po’ il gravoso carico fiscale, dovrebbero chiudere, creando disoccupazione, sia tra le partite Iva che tra i loro dipendenti. Processo già ampiamente in atto (sono questi gli evasori da abbattere?). Ciò toglie denaro dal circuito mentre porta i titolari di molte PMI, alla pari di tantissimi privati, ad intaccare quanto risparmiato o ereditato dalle generazioni precedenti, impoverendo la nazione nel suo insieme. Anche questo fenomeno è ampiamente in atto e trova un suo riscontro in natura nella legge dei rendimenti decrescenti: quanto più devi scavare per raggiungere un giacimento minerario o petrolifero, tanto più salgono i costi; finché costi e ricavi si equiparano e non vale più la pena di scavare.

Idem in campo sociale. Se i costi, in particolare tasse e contributi, salgono oltre il livello minimo di redditività, non è più conveniente tenere in piedi un’azienda, fino al punto, già raggiunto in Grecia, che sono più i disoccupati degli occupati. O come alla General Motors, che fallì 3 anni fa sotto il peso di un esercito di suoi pensionati gravanti sul quarto di lavoratori rimasti.

E qui da noi, quanta gente deve –o dovrebbe- lavorare per mantenere un esercito di ex impiegati, specie del settore pubblico, andati in pensione coi criteri sessantotteschi? E quanta gente vive attaccata alla politica a spese di chi produce?

Il governo cosa fa? La montagna che partorisce il topolino, e in ritardo cronico (ma forse non è una disgrazia). Adesso parla di 27 misure per la crescita. Senza che nessuno si renda conto che si tratta di una novella fata morgana e che crescere ancora significa solo accelerare la corsa verso il disastro ecologico. Già oggi l’impronta ecologica di oltre 6 miliardi di umani in crescita necessiterebbe di un altro pianeta dove attingere nuove risorse e spedirci gli scarti. Ma quel pianeta non c’è; e qualora anche ci fosse, i costi del trasporto di materie prime e scorie sarebbe proibitivo. L’umanità si trova, insomma, a fare i conti col suo singolare status sul pianeta: quello di un genere che si ritrova senza predatori, che per millenni ne hanno regolato il numero, e quindi può essere -di fatto è- solo preda di se stessa. Chi legge ne tragga le conseguenze e ne tenga conto ogniqualvolta sente pronunciare la parola crescita in tono enfatico e risolutivo dei nostri problemi. (2)

  

P. S. Apprendo dopo aver scritto questo articolo dell’esistenza di un movimento unitario di studenti, disoccupati, precari, cittadini tutti (www.occupywallstreet.org) che oggi daranno particolare enfasi all'”occupazione” di Wall Street, tempio della finanza internazionale, in corso da qualche giorno. Dicono di rappresentare il 99% della nazione, al servizio di un 1% che prospera sul loro lavoro, e sul non-lavoro di quanti l’hanno perduto. Vedi foto. Finalmente una manifestazione in stile Twitter, senza capi né partiti, che va alla radice dei problemi di tutti.


 
1) Non a caso escono libri con titoli impensabili solo 30 anni fa: B. R. Barber, Comsumed. How Markets Corrupt Children, Infantilize Adults and Swallow Citizens Whole. Uscito presso Einaudi nel 2010 col titolo “Consumati. Da cittadini a clienti”.

 

2) I costruttori edili (tipica attività irreversibile) hanno fischiato il ministro Matteoli per l’inerzia del governo. Dovremo dunque sperare solo nella burocrazia statale per vedere uno stop alla progressiva cementificazione della Penisola? 

 

 

Marco Giacinto Pellifroni                 2 ottobre 2011   

 
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