L’amicizia fra filosofia e politica e il suo rapporto con l’amore

L’amicizia e l’amore nel Simposio platonico rinviano alle  due facce dell’eros, attrazione sessuale e tensione intellettuale, duplice tramite fra l’umano e il divino.

Anche Cicerone nel suo trattatello in forma di dialogo accomuna l’amicizia con l’amore, depurati l’una dall’interesse l’altro dal piacere e risolti entrambi in una blanda affettività. L’amico sfuma nell’amato come nella tradizione filosofica greca, alla quale però Cicerone guarda con un certo distacco, per non dire diffidenza, preferendo spostare il tema sul piano degli affetti per declinarlo poi su quello etico e politico. Benevolenza, concordia, bene comune, probità sono i suoi riferimenti valoriali e insieme le doti che spingono verso l’altro come se l’ammirazione fosse la precondizione dell’amicizia. Che, pertanto, investe persone simili fra di loro finendo per delimitare l’area dei  probi viri, i politici onesti e i benemeriti della patria come furono le grandi personalità del passato, delle quali ci si considera idealmente amici. L’amicizia insomma nasce dal reciproco riconoscimento e si nutre della condivisione degli stessi valori che accomunano anche l’avversario politico, se persona in buona fede e animata da nobili principi.

Non c’è traccia di una dimensione cognitiva, di una ricerca comune, non si parla di affinità intellettuale, tantomeno di uno scavo interiore quale quello prescritto dal gnothi sautòn scolpito sul frontale del tempio di Apollo a Delfi, che è insieme invito al ripiegamento e all’apertura.  Un paradosso, un’apparente  contraddizione che si ricompone nel dialogo, nel quale l’altro è la chiave per aprire la propria anima. Astratti filosofemi per Cicerone, che  da buon romano riporta il tema  sul terreno della concretezza  e implicitamente considera quanto esula dalla prassi come inutile sottigliezza e perdita di tempo e anche nella sua distinzione fra  usus e ratio, teoria e pratica, la teoria coincide con la morale, niente a che vedere con l’alétheia, la verità da attingere oltre il mondo sensibile.

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In un contesto storico come quello della romanità la posizione di Cicerone non fa una grinza ma se è vero che tutto il suo ragionamento poggia  sulla patria  come valore supremo ne consegue che non è trasferibile ai giorni nostri, a meno di ridursi a stucchevole ipocrisia. La patria per noi è un topos letterario,  un’aspirazione ideale di chi riesce ad estraniarsi dalla realtà e da ciò che è oggi la politica, ridotta a malaffare;  e parlare di probi viri oggi in Italia sarebbe una provocazione, come la disgustosa sceneggiata dell’esibizione del tricolore e l’inno nazionale intonato dai banchi dell’opposizione. Ma se il patriottismo dei compagni è un ossimoro il sovranismo della maggioranza suona come una moneta falsa. Insomma  in questi anni orribili non c’è né patria né politica né senso dello Stato né concordia e cura del bene comune. Il ritorno ad una prospettiva platonica, quella per la quale Cicerone provava un malcelato fastidio, è pertanto una scelta obbligata o, se vogliamo, una fuga dalle miserie del presente. Che però  comporta anche l’abbandono del continuum semantico presente nel Simposio fra l’amico e l’amante, fra l’amicizia e l’amore e il riconoscimento di una soluzione di continuità, di una vera e propria contrapposizione: lo spirito da un lato e la carne dall’altro, una contrapposizione sul piano dei significati  non della connotazione come accade in ambito religioso. Una contrapposizione che consente di cogliere nell’una e nell’altro il senso e il valore  dell’esistenza, a patto che si resista al canto delle sirene: l’ambizione, la carriera, il denaro, gli oggetti, che impediscono di dare il giusto valore alla persona, che è il presupposto dell’amicizia.

Fra le tante cose che non ho capito e le tante opportunità che mi sono lasciato sfuggire nel corso della mia esistenza quella che mi pesa di più è proprio l’amicizia. L’ho confusa con la complicità, col reciproco sostegno, con la condivisione di attività, con la continuità della frequentazione per rendermi tardivamente conto  di aver semplicemente soddisfatto il bisogno di compagnia, di aver sottratto tempo  a me stesso, di aver ceduto alla tentazione della distrazione. Ed è stata una fortuna per me che le vicende della mia famiglia mi abbiano costretto all’isolamento almeno fino alla prima adolescenza e che successivamente molti di quei compagni di strada abbiano preso direzioni diverse lasciandomi lunghi periodi di solitudine nutriti di letture, introspezione e osservazione,

Una fortuna  che mi ha messo al riparo dal perdermi del tutto nella chiacchiera, nell’estroversione, nella socialità e mi ha fatto affrontare la serietà, le paure, gli interrogativi della vita. Ma tardi, sempre troppo tardi, mi si sono ripresentati i volti e le anime che mi hanno sfiorato con la promessa di un dialogo, di una ricerca comune, di una reciproca maieutica; mi hanno sfiorato, mi sono soffermato e mi sono ritratto. E tardi, troppo tardi, mi sono voltato con l’amara consapevolezza di aver buttato il dono dell’amicizia per quello della compagnia, del gioco, dello sport, del cameratismo: battute, pettegolezzi, banalità. Di tutto questo mi resta un ricordo nauseabondo che coinvolge anche  lo sport, che avrei potuto praticare in modo più appartato e riflessivo. Può sembrare sociofobia senile ma in realtà è il rimpianto di un dialogo rimasto interrotto o mai iniziato, il bisogno insoddisfatto di uscire dalla banalità, di non fuggire dall’autenticità dell’essere, dalla paura di non reggere il confronto.

Ho scelto le persone sbagliate, ho avuto la fortuna di incontrare quelle giuste e l’ho sprecata. E quando mi sono trovato a fare i conti col senso della vita l’ho dovuto fare da solo.  Non mi si dica che si dialoga con ciò che si legge: leggendo ci si può anche illudere di dialogare con chi scrive, che ci fornisce strumenti, ci apre orizzonti, ci incuriosisce,  smonta certezze e insinua dubbi. Ma è un confronto solo apparente: quel che si legge nel momento in cui si recepisce fa parte di noi, non ci può essere dialettica perché non ci sono né dialettica né confronto senza alterità, senza ciò che Fichte indica come non-io,  l’Altro percepito come tale anche se non  fisicamente presente, nel quale non si scopre semplicemente se stesso, che sarebbe un mero esercizio narcisistico di conferma rassicurante, ma  si svela qualcosa di noi che era rimasto latente e che tale era destinato a rimanere.  In altri termini: il gnoti sautòn degli antichi non è l’onanismo dell’anima ma un processo di crescita – o di disvelamento – che solo il confronto rende possibile. La maieutica, a differenza di ciò che sembra suggerire Platone, non è a senso unico ma bidirezionale: tu mi fai uscire da me stesso io ti faccio uscire da te. Insieme si cresce, si diventa più critici, più consapevoli e insieme più corazzati nei confronti  del già pronto, delle risposte che anticipano le domande, dei significati già dispiegati nel linguaggio, nell’educazione parentale, nell’istruzione scolastica e, ahimè, nel gruppo che tutto appiattisce e riduce in rumore.

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L’amicizia è un sodalizio spirituale, incorporeo, che può anche prescindere dalla presenza fisica. La fisicità del resto non favorisce il dialogo ma lo disturba. Esattamente il contrario dell’amore, che non è confronto con l’altro  ma un incontro folgorante,  fusione, simbiosi o possesso ma sempre sul piano della fisicità e l’esclusione del controllo razionale. Il dialogo, quando c’è, è solo un pretesto, si riduce alla sonorità,  la prosodia prevale sui contenuti e le strutture logiche e semantiche cedono di fronte alle suggestioni e al non detto. E se lei dice delle terribili sciocchezze che importa, se ha delle convinzioni incompatibili con le tue che importa:  quando parla le sue parole sono dolci e vellutate come la sua pelle, i suoi occhi si illuminano  e ci si perde nell’armonia del suo corpo, nell’odore che emana, nella voluttà del contatto. Mentre l’amicizia è uno scambio di idee lungo un percorso di chiarificazione, l’amore rimane al di qua o va oltre secondo i punti di vista: è insieme trascendimento e regressione, smarrimento  e  esaltazione dell’io.  Non a caso le religioni, e il cristianesimo in particolare, hanno mutuato dall’amore fra esseri umani il rapporto con Dio e, in modo anche più carnale, con Cristo. L’estasi mistica, infatti, è una condizione di grazia che trasferisce  su un’entità superiore il trasporto e lo smarrimento di un atto d’amore.
Nella loro opposta natura l’amore e l’amicizia sono opportunità di cui si deve essere grati alla sorte e che spesso ci lasciamo  sfuggire. Ma non solo: sono beni che quando posseduti in ogni momento rischiamo di perdere. L’amicizia è continuamente minacciata dalle contingenze della vita, l’amore dalla gelosia e dall’illusione di un possesso definitivo; e se si scambia per amicizia  l’interesse reciproco l’amore si confonde con la scarica ormonale. E  l’uno e l’altra è difficile viverli in situazione  perché scivolano inesorabilmente nel ricordo e nel rimpianto.

Pierfranco Lisorini

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