La vittoria di Pirro della sedicente destra e il de profundis della democrazia rappresentativa

Le elezioni regionali in Lazio e Lombardia avevano un chiaro e forte significato politico. Su questo bisogna dare ragione alla maggioranza e alla (non al, per carità) presidente del Consiglio, che lo hanno definito di volta in volta un tagliando, un test, un voto per i primi cento giorni, addirittura un referendum (copyright Berlusconi) per il governo; sarebbe però azzardato pensare che il risultato lo incoraggi a proseguire sulla sua strada.  Infatti, nonostante il trionfalismo della Meloni e dei suoi accoliti, il governo non è uscito per niente bene dalla prova elettorale.

Rocca e Fontana

Se fosse vero, come dicono in coro vecchi e nuovi pennivendoli di regime, che  FdI viaggia col vento in poppa, se  tout va très bien madame la marquise, se ha ragione il Cognato a compiacersi perché “gli elettori vedono un progetto” e lo premiano con una vittoria da lui  prevista “ma non di queste dimensioni”, com’è che due elettori su tre non sono andati a votare e di quel terzo che ha votato poco più della metà si è espresso a favore della coalizione di governo? Ma che vittoria è?  Se nel Lazio, dove tradizionalmente la destra è più forte,  su cinque milioni di elettori il partito più votato prende poco più di cinquecentomila voti, un decimo dell’elettorato, significa inequivocabilmente che il governo ha ricevuto uno schiaffo in faccia dal corpo elettorale, altro che conferma o incoraggiamento. Con l’aggravante – non l’attenuante – che quello schiaffo non l’hanno preso solo il governo, la Meloni e i partiti tutti ma la politica nel suo complesso, vale a dire la democrazia. È vero: queste elezioni sono state sì un test, ma non semplicemente per il governo: lo sono state per lo stato della nostra democrazia.

  E il  risultato è la conferma della assoluta assenza di rappresentatività dei rappresentanti del popolo e non vedo quale motivo per rallegrarsene abbiano i vari Lollobrigida se non quello squisitamente personale di rimanere saldamente in sella.  Ma non è così che funziona una democrazia. La democrazia, intendiamoci, non è solo consenso, altrimenti dovremmo riconoscere che l’Italia negli anni Trenta dello scorso secolo l’aveva realizzata in massimo grado: la democrazia si misura sul rispetto delle minoranze, sulla tolleranza e la libertà di espressione, sull’indipendenza dei giudici e sull’insieme di guarentigie di uno Stato di diritto. Il consenso, la rappresentatività che dà corpo alla sovranità popolare non sono la condizione sufficiente ma sono la condizione necessaria, senza la quale  lo Stato è privo di legittimità. Il consenso non basta ma senza consenso c’e la peggiore delle tirannidi;  questa non è un’opinione ma un’incontestabile verità. Un regime formalmente liberale ma privo di consenso popolare è peggiore, molto peggiore, di un’autocrazia che opera per il bene dei sudditi ne interpreta le istanze e si identifica con la nazione. Un governo senza consenso è una tirannia anche se il tiranno è una macchietta e chi lo circonda una compagnia da avanspettacolo.

Letta e Conte

Di sciocchezze ne ho sentite e lette tante in questi giorni. Non insisto su Letta tutto contento perché Conte non ha fagocitato il suo partito, che secondo lui può contare su una maggioranza virtuale: infatti gli astenuti sarebbero il  bacino elettorale per una sinistra che si ricomponga sotto l’ala del Pd. D’altronde cosa ti puoi aspettare da uno che nasce nell’ovatta del potere e del privilegio e non si è mai sporcato le scarpe nel fango della realtà.  Qualcuno dovrebbe spiegargli che il vecchio trucco di trascinare l’elettore sull’alternativa destra vs sinistra non funziona più.

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Fa un po’ ridere il gioco delle parti per cui i menestrelli di regime e i portavoce dei salotti radical chic hanno adottato Giorgia, la prendono per mano, la mettono in guardia contro quel Salvini, che è sì un po’ rintronato ma rimane pericoloso o quel Berlusconi troppo ricco per mettersi al soldo di qualcuno e libero di uscire fuori dal seminato, si compiacciono del suo zelo nel rispettare il copione che le è stato assegnato ma sono preoccupati.
Però stai attenta, vai bene con Biden e con Ursula, ma non te ne avere a male se Zelensky ti ha preferito Macron, e per avere un posticino in Europa non  pestare i piedi al francese,  che conta più di te:  piuttosto vedi di non farti estromettere dal boccone della  ricostruzione ucraina.  Perché la scolaretta è diligente, si applica ma studia un po’ a memoria e qualche sottigliezza le può sfuggire: recitare la professione di fede alla Nato, all’Europa e ai camerati (pardon agli amici) ucraini  non basta.
Nell’Italia che conta, o si illude di contare, quella che gira intorno alle case editrici, alle redazioni dei giornali, è di casa nelle televisioni pubbliche e private e si è annidata nei palazzi del potere, se cambiano governi e maggioranze parlamentari fanno presto a cambiare casacca ma nell’anima “so’ tutti de sinistra” e in effetti il sinistrame come una melma maleodorante ha coperto tutto, maggioranza e opposizione. Stessi  atteggiamenti, stessa crassa ignoranza, stessa ipocrisia e soprattutto identico disprezzo per il popolo bue, per le intelligenze vere che tengono a galla il Paese, per il lavoro che, purtroppo, contribuisce a mantenerli lautamente. Ma ora l’insula felix del privilegio si sta allontanando dalla terraferma e se ne va alla deriva: senza collegamenti è desinata  a diventare uno scoglio deserto mentre a terra cominciano a scorrazzare bande di guastatori e i dormienti aspettano l’angelo vendicatore. Chi, come me, diffida delle fiammate rivoluzionarie ed è refrattario al carisma del capo si trova di fronte a un dilemma con un corno peggio dell’altro: che la banda che ha preso nelle sue mani il timone dopo qualche sbandamento riesca a tenerselo stretto per portare la barca ad affondare chissà dove o che l’equipaggio si ammutini e butti tutti in mare comprese le carte nautiche. Il futuro, per come oggi possiamo immaginarlo, è quello di una casa che brucia: chi c’è dentro può scegliere se morire soffocato o buttarsi nel vuoto.
Nella vita degli Stati come in quella delle persone bisogna saper cogliere le occasioni che ci si presentano: l’Italia ha avuto la sua quando si è rotto il fronte dei partiti grazie all’asse fra la Lega e i Cinquestelle: la gelosia, l’invidia, la pochezza degli uomini che avrebbero dovuto sfruttarla per restituire al Paese la sua sovranità e farne il perno del mediterraneo hanno finito per sprecarla proprio quando gli italiani si stavano riappropriando della politica. Prendersela coi maneggi del Custode, le trame di Renzi, l’ingenuità di Salvini e il tradimento di Conte è un esercizio di pura accademia: la piovra nazionale e sovranazionale della grande finanza, degli interessi consolidati, di un sistema arroccato nella difesa dello statu quo ha soffocato ogni anelito di cambiamento,  ha risucchiato l’Italia nella gabbia dell’Europa e ha strappato la politica dalle mani dei cittadini per riportarla all’interno dei palazzi del potere.  Abbiamo assistito alla farsa indecorosa dell’attacco di Conte a Salvini,  dell’incredibile voltafaccia grillino, delle goffe capriole di Di Maio. Ma ora, con i colpi di coda dell’imperialismo americano e la guerra per procura in Ucraina,  la farsa rischia di trasformarsi in tragedia.

Nella corsa verso la guerra totale non c’è nessuno, salvo il reprobo Orbán messo in castigo,  intenzionato a tirare il freno a mano ed è proprio  sull’Italia, e sulla  Germania,  che –  per ragioni economiche, storiche geopolitiche –  incombe la responsabilità di farlo ma i rispettivi governi  se ne guardano bene. Verdi con torbide inclinazioni da una parte, servilismo e interessi privati dall’altra lo impediscono. E quando Berlusconi se n’è uscito snocciolando delle semplici ovvietà e con una presa di distanza verso l’ex comico che spinge il suo Paese e il mondo verso l’apocalisse tutti gli saltano addosso,  invocano il crucifige o gli danno sottosotto del rimbambito, come fa la Ronzulli che si è affrettata a smentire il suo datore di lavoro e ad esercitarsi in una appassionata dichiarazione di fede bellicista e di fedeltà al bulimico Zelensky, insaziabile divoratore di armamenti. Un’ottima spalla per Giorgia, che pure tanto l’aveva schifata. Non so come facciano quelli che votarono per la von der Leyen alla guida dell’Ue o per la rielezione di Mattarella a guardarsi allo specchio (e su questo il riferimento a Salvini è voluto); ma so che se l’esperienza di governo gialloverde fosse proseguita non solo si sarebbe ricomposta la frattura fra il Paese legale e il Paese reale ma la guerra in Ucraina non sarebbe mai iniziata. È una fortuna per chi fa politica non avere una coscienza: se l’avesse ne sarebbe schiacciato.

Pierfranco Lisorini

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One thought on “La vittoria di Pirro della sedicente destra e il de profundis della democrazia rappresentativa”

  1. Certo non lisci il pelo, come le fanfare trasversali, alla (!) nostra presidenta del Consiglio! Riporto qui il pezzo del tuo articolo che più fa da eco a quanto espresso in una mia sceneggiatura, rimasta in un cassetto per mancanza di coraggiosi produttori: “Un regime formalmente liberale, ma privo di consenso popolare, è peggiore, molto peggiore, di un’autocrazia che opera per il bene dei sudditi, ne interpreta le istanze e si identifica con la nazione. Un governo senza consenso è una tirannia anche se il tiranno è una macchietta e chi lo circonda una compagnia da avanspettacolo.” L’entusiastico abbraccio della Meloni a tutti quelli che vengono passati per valori dalla stessa sinistra che lei è stata eletta per contrastare, è una triste conferma di quanto tu (ed io) affermi da tempo. Questi scriteriati al governo, più realisti del re, ci stanno trascinando in una zona in cui il ricorso al nucleare della Russia sarà una scelta obbligata. E ciò mentre gran parte degli italiani se ne dissocia e concorda in cuor suo con l’esternazione di Berlusconi, subito smentita da una “indefessa aderenza al Patto Atlantico e alla NATO”, che finalmente ha trovato lo scopo di esistere, tanto a lungo atteso. Il solito “qui lo dico e qui lo nego” di Berlusconi. P. S. Leggi anche il mio commento all’articolo odierno di Sguerso, sullo stesso tema

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