La mancata educazione emotiva

Il recente caso di femminicidio a Senago, come quello precedente che ha visto vittima Pierpaola Romano, diventa talk show, titolone su testate giornalistiche, apertura dei telegiornali e via elencando.
Ma  quali sono gli errori che ancora dilagano negli articoli di giornale in cui si parla di femminicidi

Qualche giorno fa, su tutti i giornali nazionali e non, è uscita la notizia del femminicidio di Giulia Tramontano da parte del suo compagno, Alessandro Impagnatiello.
Altro caso di femminicidio, come quello precedente che ha visto vittima Pierpaola Romano, che diventa talk show, titolone su testate giornalistiche, edizione  dei telegiornali e via elencando.
Ma  quali sono gli errori che ancora dilagano negli articoli di giornale in cui si parla di femminicidi?
Difatti sono molteplici le scelte linguistiche che una testata giornalistica di riferimento può fare per raccontare il femminicidio. E non si può escludere che la narrazione di un evento così delicato possa  celare un’involontaria valutazione di merito da parte del giornalista.
La mia riflessione nasce da una domanda scaturita dalla lettura giornaliera dei numerosi casi di femminicidio che caratterizzano ormai da anni la cronaca italiana: è possibile che la stampa di qualità e il discorso giornalistico possano veicolare in modo implicito un’immagine sessista e stereotipata della donna vittima di violenza, dell’atto violento e dell’uomo che lo commette?
E se sì, in che modo?

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Nelle pagine di cronaca, infatti, il gesto violento o omicida dell’uomo è solitamente motivato in molteplici modi: il troppo amore può far stare talmente male da portare alla violenza; il dolore e la sofferenza possono essere talmente forti da “infettare” il sentimento amoroso e portare alla violenza; la pulsione sessuale maschile può essere talmente forte da sfociare nella violenza fisica nei confronti della donna.
Ho altresì notato che pochi mezzi di informazione sostengono la tesi secondo cui violenza di genere e femminicidio non sono frutto dell’amore, bensì di una cultura che assegna alla donna un ruolo sociale subordinato che prevede anche la sottomissione o la soppressione fisica quando se ne discosta.
Lo stereotipo dell’uomo che ama troppo e uccide per il troppo amore o quello dell’uomo che agisce  in preda ad un raptus irrefrenabile sono due chiavi di lettura dei fatti ampiamente usate e  abusate dai giornalisti.
È interessante capire se si tratta della visione di alcuni giornalisti che decidono di stare dalla parte dell’omicida e dell’abusante e di esprimere questo punto di vista nella propria narrazione, o se invece la parola e il racconto giornalistico riflettono e mettono nero su bianco quell’antica consuetudine culturale che giustifica la reazione violenta degli uomini davanti al cambiamento degli equilibri sociali tra i generi.
Si pensi, infatti, che  fino al 1996 lo stupro è stato considerato un reato contro la morale e non la persona e questo è significativo per capire quanto sia radicata la concezione patriarcale della donna come proprietà degli uomini della famiglia .
Spesso e volentieri infatti le violenze partono da affetti molto vicini per poi arrivare ai fidanzati e i compagni..
Il problema che non esce mai fuori è che la violenza è una questione strutturale e non emergenziale.
I femminicidi sono solo la punta dell’iceberg, ma prima di arrivare a queste morti c’è tutta una serie di forme di violenza molto diffuse che riguarda tantissime donne. Non c’è mai un ragionamento collettivo che inchiodi la politica alle proprie responsabilità, ovvero la mancanza dei fondi ai centri antiviolenza o alle associazioni che vorrebbero lavorare nelle scuole.Perchè è dalle scuole che bisognerebbe partire ,dalla radice di come siamo, e dunque dalla mancata educazione sentimentale ed emotiva.
Ancora oggi, un numero allarmante di donne è bersaglio di violenze fisiche e psicologiche per mano della controparte maschile. Violenze dirette, spesso fatali, a cui si affianca una violenza linguistica, più nascosta, diffusa in modo implicito a più livelli.
Partire da tali considerazioni aiuta a comprendere lo scopo di questo mio pensare che, si incentra sulle modalità con cui idee e stereotipi sessisti possano passare, in modo indiretto, attraverso il linguaggio giornalistico.
La scelta dell’argomento e’ partita da un interesse personale nei confronti del femminicidio, un tema molto attuale nella stampa, ma che ritengo dibattuto in modo discutibile.
Sfogliando le pagine dei quotidiani nazionali , infatti, ho notato che molte testate di qualità raccontano la violenza contro le donne attraverso una struttura lessicale e discorsiva che giustifica, indirettamente, il carnefice e il suo gesto, e che colpevolizza la vittima, in uno schema che si basa sul concorso di colpe e che stravolge la reale natura del crimine.
Più nello specifico, partendo dal presupposto che «la discriminazione sessista e gli stereotipi di “genere” pervadono la lingua nella sua interezza e sono rinforzati da essa» (Lepschy, 1989: 62), vorrei stigmatizzare il discorso giornalistico sui casi di femminicidio, per capire se e in che modo la lingua possa, nel caso specifico, favorire un immaginario simbolico fortemente discriminatorio.
Che percezione ha la stampa italiana del tema della violenza contro le donne?
Un rapido sguardo alla letteratura storica di stampo femminista ci consegna come dato di fatto che la «deliberata e sistematica subordinazione delle donne da parte degli uomini in un dato contesto culturale» (Offen 2000:20) è sempre esistita, e questo allo scopo di mantenere saldo il controllo del più forte sul più debole, dell’uomo sulla donna.
All’interno di questo meccanismo di controllo, l’atto violento contro una donna (dal femminicidio, passando per lo stupro, arrivando allo stalking e al sessismo linguistico) ha origine da un improvviso riposizionamento delle parti nel rapporto di potere uomo-donna; rapporto che, come accennato, è storicamente fondato sulle forzate «condizioni di inferiorità e di subordinazione della donna» (Ribero 2007:177) rispetto all’uomo, all’interno di una determinata società.
Si potrebbe affermare, quindi, che ogni tentativo da parte della donna di staccarsi dal ruolo sociale prestabilito di controparte inferiore e funzionale all’uomo è passibile di una punizione che, nel caso specifico, si esplicita nel femminicidio, usato come metodo per ripristinare quell’ordine di ruoli sedimentato a livello sociale.
A mio avviso due punti imprescindibili per attivare una modificazione virtuosa a livello sociale e culturale sono costituiti da:

– riconoscimento giuridico su scala internazionale del femminicidio come violenza specifica contro le donne;

– definizione della violenza come reato contro i diritti umani della popolazione femminile.

Vorrei chiudere questa analisi, ribadendo la necessità per il panorama mediatico italiano di invertire la rotta e dimostrarsi più attento al rapporto intrinseco fra giornalismo, lingua, società e alle conseguenze che ne derivano.
Difatti anche in seno alle testate di qualità, il controllo sulle scelte lessicali e discorsive può essere carente, in particolare nei casi di femminicidio.
Mi auguro  che questo argomento possa essere approfondito attraverso ricerche future, che lo integrino e aprano nuove prospettive.

 Daniela Piesco  da PENSALIBERO

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