LA BANALITA’ DEL MALE?

Dai giornali: “Ho ucciso Giulia ero stressato”; “La morte è diventata banale e l’amore è una forma di consumo”. Lo psichiatra Vittorino Andreoli: “La società deve insegnare ad affrontare le emozioni. Bisogna ripartire dall’educazione, si preferisce riempirci di agenti invece che investire sulla scuola”; “Prof accoltellata in classe, lo studente che l’ha colpita in arresto per tentato omicidio”; “Ucciso e bruciato dai parenti dell’ex fidanzata: ‘Voleva riavere la figlia’. Pavia, arrestati tre italiani: un’esecuzione, incastrati dai telefoni”; “Pesaro. Imprenditore accoltellato in casa. E’ stato a cena con il killer”; “Verona. L’inferno del tunisino Mohamed: preso a calci in Questura. ‘Sono stato buttato a terra dagli agenti e sono caduto nella mia stessa orina”; “ Trans brasiliana pestata da quattro vigili urbani a Milano”…E si potrebbe continuare.

Ora la domanda è: che cosa sta succedendo? O anche: “Sentinella, a che punto siamo della notte?” (Isaia 21, 11). Che fine ha fatto il concetto di persona umana nella società contemporanea? Certamente è del tutto assente nel freddo assassino di Giulia e del bambino che portava in grembo come è assente in quei poliziotti indegni che hanno infierito su detenuti inermi e su emarginati innocui.

Già, ma siamo poi così sicuri che questo concetto sia presente in tutti noi come, secondo Immanuel Kant, la nozione innata di che cosa è bene e di che cosa è male? Se ci guardiamo attorno quali “valori” sono dominanti? Quali “beni” prevalgono, in generale? Quelli privati e individuali o quelli pubblici e collettivi (come se si potessero distinguere nettamente gli uni dagli altri)? Si pensi soltanto alla condizione del proletario nel sistema capitalistico-borghese delineata da Marx  nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 e al concetto di lavoro alienato e alla riduzione del lavoratore a mero ingranaggio della macchina della produzione e del profitto di pochi. Questo per dire che siamo ancora lontani dalla riappropriazione del lavoro da parte di chi lavora per vivere e per mantenere i propri figli, non per aumentare  il capitale altrui.

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Ci troviamo dunque in una situazione di ingiustizia sociale caratterizzata dalla concorrenza cioè dalla conflittualità economica e politica interna ai singoli paesi ed esterna sul piano geopolitico, come vediamo tutti i giorni sui nostri schermi televisivi e come leggiamo (per chi li legge) sui giornali. Dunque che cosa possiamo fare per diminuire il tasso di violenza pubblica e privata che serpeggia in questa società del fu benessere e delle “passioni tristi” di cui parlava Spinoza, citato dagli psichiatri Miguel Benesayag e Gérard Schit nel loro libro (Feltrinelli, 2018) sul disagio giovanile?
Tutti gli esperti di scienze umane, pedagogisti, psichiatri, psicologi, psicoanalisti, filosofi concordano sulla necessità di ripartire dall’educazione e soprattutto dall’educazione dell’emotività, come insiste Umberto Galimberti nel suo Il libro delle emozioni (Feltrinelli, 2021), a fronte della quale la scuola appare del tutto inadeguata e così la politica in tutt’altre faccende affaccendata.  Non c’è dubbio che la nostra epoca sia caratterizzata da un’espansione senza precedenti della razionalità tecnica e da una conseguente rimozione della cura dell’affettività. A questo proposito Martin Heidegger ha scritto: “Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo.
Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca” (L’abbandono , il Melangolo, 1983). E ciò che emerge lo vediamo ogni giorno di più con sgomento e con spavento, a cominciare dai crimini orrendi  che si susseguono con sempre maggior frequenza  in guerra come in pace, e poi con la tragedia (che qualche anima candida ha potuto chiamare “affare”) dell’immigrazione, e poi con le catastrofi climatiche sempre più frequenti e devastanti, e poi con il rischio crescente di una apocalisse nucleare o di nuove pandemie e di tremende carestie con conseguenti migrazioni di massa…
No, il futuro non è per niente roseo e dobbiamo tutti prenderne atto se non vogliamo farci trovare una volta di più impreparati di fronte a eventi che ci sovrastano fin da ora. Il problema consiste nel fatto che noi oggi, ci ricorda Galimberti commentando il passo di Heidegger sopra citato, “disponiamo unicamente di quel tipo di pensiero che Heidegger chiama ‘calcolante (Denken als rechnen)’, in grado solo di far di conto, di rispondere al richiamo dell’utile e del vantaggioso, di operare unicamente in quel breve tratto che connette i mezzi ai fini in modo da ottimizzare l’impiego al minor costo possibile”.

Se non che la conseguenza del pensiero ridotto a puro calcolo ha un nome: si chiama nichilismo, infatti “Anche la bellezza rientra in questo meccanismo, perché persino l’opera d’arte diventa tale quando entra nel mercato, che è calcolo, valutazione. Sembra infatti che anche l’arte non abbia valore in sé, se a sua volta non entra nel mercato diventando quindi ‘calcolabile’. In questo modo non sappiamo più cos’è ‘il bello’, cos’è ‘il buono’, cos’è ‘il vero’ “. Ed è per questo che oggi si può affermare o negare qualunque cosa perché il fine non è la verità o la giustizia ma il quale che sia interesse o vantaggio personale, economico, politico, mediatico o semplicemente per posa  anticonformista, insomma per spocchia contrabbandata per libertà di pensiero.  Tant’è che nel circo mediatico trovano spazio negazionisti d’ogni risma e d’ogni colore, tutti fieri di distinguersi dal gregge affermando o negando quello che nega o afferma la maggior parte dei loro concittadini. Siamo o non siamo in una liberaldemocrazia? Con tanti saluti alla verità.

Fulvio Sguerso

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