L’ineluttabile banalità del male
Riesco ancora a sorprendermi quando vedo ugualmente risucchiate nel buco nero della chiacchiera persone diverse per età, formazione, ruolo sociale, collocazione politica. Mi è capitato l’altra sera quando, tradendo l’impegno che mi sono assunto di usare il televisore solo per rivedere vecchi film, l’ho lasciato acceso sulla trasmissione condotta da Monica Gentili, ospiti la figlia di Dalla Chiesa approdata in Forza Italia, il prestigioso editorialista del Corriere folgorato dalla Meloni sulla via di Damasco (o di Wall Street?), una petulante grillina, un new entry e poco orientato piddino e a completare il poker il simpatico Buttafuoco che continua a vivere di rendita sulle Uova del Drago.
Li sentivo parlare dell’omicidio che da diversi giorni occupa le cronache di stampa e televisioni, rimbalza dal barbiere ai circolini fino ai talk show, mobilita schiere di maîtres à penser, delle quali il sullodato quartetto rappresenta un campione. Premesso che i processi si fanno nei tribunali trovo del tutto legittimo, anzi doveroso, che all’interno della società civile ci si interroghi sui crimini che la scuotono e c’è da rallegrarsi se l’opinione pubblica è ancora capace di commuoversi e di indignarsi. Ma quando intervengono intellettuali e tuttologi commozione e indignazione perdono ogni autenticità e diventano paccottiglia, occasione per sociologismi di risulta, ovvietà, luoghi comuni e, quel che è peggio, un modo per veicolare ideologie snervanti e sistemi valoriali stantii che fìniscono nello stagno maleodorante del pensiero unico.
Ora che il vento è girato – si fa per dire: resta sempre bonaccia e calma piatta – e la destra ha perso l’afrore mussoliniano anche il radical chic prova nostalgia per la tradizione e scopre che al sud la donna era “trattata come una rosa”. Ma che si girino di qua o di là le teste son sempre quelle, non si distinguono per un particolare acume e mescolano piani e prospettive.
I comportamenti criminali che sono direttamente o indirettamente espressione di culture o subculture non hanno molto a che vedere con quelli che originano dalla natura umana o sono imputabili ad aspetti deviati della personalità individuale. Al primo gruppo appartengono il delitto d’onore, una vera piaga che ha afflitto per secoli il mezzogiorno d’Italia, la vendetta privata, lo stupro e il furto – tollerati o incoraggiati all’interno di gruppi etnici o sociali marginali – al secondo i crimini che rinviano a “menti criminali”, all’acting out in soggetti psicologicamente fragili o affetti da sindromi psichiatriche come il delirio paranoide.
Va poi detto che non esiste correlazione fra maschilismo, inteso come pretesa superiorità sociale, culturale o intellettiva del maschio, e violenza: il maschio violento è un soggetto nevrotico, frustrato, insicuro, spesso in una posizione one down rispetto alla compagna; né esiste un continuum violenza-omicidio: il violento non ha alcuna motivazione a uccidere l’oggetto della sua violenza. E va anche riconosciuto che le persone formate al rispetto delle leggi e addestrate al controllo delle emozioni e quelle che per mestiere garantiscono la sicurezza sociale, all’interno delle loro mura domestiche delinquono come e più degli altri e la stessa familiarità con l’uso delle armi le rende più pericolose. Detto questo è comunque ovvio che educare al rispetto e alla tolleranza, promuovere l’amicizia, la solidarietà, la disponibilità è non solo importante ma fondamentale, ci mancherebbe; ma non ci si illuda che una società di bene educati, socialmente pacificata e ben integrata metta al riparo dai crimini più orrendi, come appunto quello di Senago.
Quindi sgombriamo il campo dal pattume sociologico e non scomodiamo Cesare Beccaria: la relazione fra pene e delitti in questo caso non c’è. Per i crimini che originano nella mente perversa di singoli individui non esiste deterrente: c’è solo, come giusta riparazione sociale, la punizione, che non ha un fine riabilitativo ma è semplicemente castigo: delitto e, appunto, castigo. E se al castigo corrisponde pentimento tanto meglio per la coscienza del colpevole ma il castigo rimane, almeno in uno stato di diritto.
E ora vengo all’omicida di Senago su cui si sono sbizzarriti i magnifici quattro. Per quello che è dato sapere non è stato un delitto d’impeto, non c’è stata rabbia, efferatezza, crudeltà: solo volontà di uccidere, di eliminare, con l’arma a disposizione. Niente che faccia pensare ad una lite, ad una perdita di controllo né ad un rancore covato a lungo e al bisogno di sfogarlo. E niente che faccia pensare ad una situazione vissuta come insopportabile, quale quella di chi si è infilato in un cul de sac, pensa di non avere via di uscita, teme che il suo matrimonio vada in pezzi e di trovarsi in mezzo a una strada oppure non intende rinunciare ad una nuova vita o non regge all’idea di essere scoperto. Niente di tutto questo: le due donne dell’assassino si erano chiarite, la compagna aveva manifestato la volontà di liberarsi del fedifrago, l’altra forse pensava di fare altrettanto. Pertanto non c’è traccia di passione, di amore malato, di crollo emotivo, di mancanza di vie di fuga.
C’è invece qualcosa di più sordido o, se vogliamo, di stupido.
Non c’è traccia di sadismo nella mente criminale del barman dell’Armani Bamboo e non mi sentirei nemmeno di sottoscrivere una diagnosi di delirio narcisistico. Sicuramente si tratta di uno psicopatico incapace di empatia ma quello che più mi colpisce è la fatuità, la leggerezza, la stupidità. Il soggetto quando la sua relazione parallela è stata scoperta non è andato incontro ad alcuna tempesta emotiva; anzi, la convivente è sembrata lieta di scaricarlo. Ma questo non lo esimeva dal fronteggiare la reazione dei suoceri, il peso della responsabilità di un figlio da mantenere, l’inattesa solidarietà fra le sue , si fa per dire, due donne e, quello che per lui era forse più grave, la perdita dell’affetto della madre rimasta legata alla nuora. E sicuramente il figlio che stava per nascere avrebbe definitivamente rafforzato quel legame col risultato che lui con la madre avrebbe perso il principale e forse unico sostegno psicologico. Ed ecco che balena la soluzione: se la sua compagna si fosse allontanata volontariamente con la sua creatura avrebbe confermato il sospetto di un altro uomo, sarebbe stata lei la reproba agli occhi di tutti, della nuova fidanzata, dei suoi familiari e, quel che più conta, di sua madre, che non avrebbe più avuto motivo di prenderne le difese. Ecco come uscirne: la elimino e dopo averla eliminata faccio sparire il corpo, comincio a chiamarla, a mandarle messaggi, a supplicarla di tornare a casa e col suo cellulare mando messaggi del tipo non mi cercate, sono felice, ho una nuova vita, vi voglio bene ma è meglio così.
Di fronte a questo quadro quale contributo chiarificatore può venire dalle chiacchiere sul maschilismo, sul patriarcato (ma questa non era la società senza padre?), sul ruolo della scuola, della famiglia, del gruppo dei pari? che aiuto ci possono dare la psicologia sociale o la sociologia? La risposta è semplice e secca: nessuno. Rimane la domanda: è possibile prevenire? Ci sono figli che vivono nell’attesa che i genitori tolgano il disturbo per appropriarsi della casa e dei, pochi o molti che siano, beni della famiglia. Di norma aspettano, qualche volta non sopportano l’attesa. È possibile prevenire? Ci si illude che a tutto ci sia una risposta, che per qualunque male esista un rimedio. Non è così. La condizione umana comprende il non senso, l’irrazionale, l’aumento dell’entropia nelle interazioni, a livello micro e macrosociale. Noi ci auguriamo che lo spirito, il logos di cui l’universo è espressione, l’ordine e l’armonia nelle galassie, nelle volute di una conchiglia e nei colori di una farfalla accompagnino la crescita dell’umanità ma in realtà camminiamo sull’orlo di un abisso, quello del disordine, del caos, della stupidità, con la terribile certezza che finiremo per caderci dentro.
FRA SCEPSI E MATHESIS Il libro di Pierfranco Lisorini acquistalo su… AMAZON