La figura del “passante” negli ossi brevi degli “Ossi di seppia” di Eugenio Montale.

Non più di alcuni cenni che mostrano come la figura del “passante”, nelle evenienze in cui compare nei cosiddetti “ossi brevi” della raccolta “Ossi di seppia”, assuma significati diversi, o multipli, e a volte persino contrastanti.
Oltre alle citazioni dei versi in cui essa compare, dichiarata o implicita, sono riportati anche quelle necessarie a contestualizzarla all’interno della poesia.
Si sarebbe potuto corredare ogni commento con il testo dell’intera lirica, ma avrebbe appesantito l’articolo di per sé già piuttosto corposo.
Si dà pertanto per scontato che per adeguatamente intendere i vari riferimenti, i quali altrimenti andrebbero pedantemente richiamati, ci si faccia carico di leggere in autonomia l’intero testo delle liriche.

da “Epigramma”

Sii preveggente per lui, tu galantuomo che passi [:]

Qui il passante è colui che dimostra la sua qualità di “galantuomo” garantendo la sopravvivenza della poesia nel riconoscerla e nel preservala perché anche da altri sia riconosciuta e fruita e non finisca come un dono perduto.
E’ un individuo attento.
Un individuo presente e attivo, che con accortezza, gratuità e autorità, responsabilmente e consapevolmente si fa parte in causa.

da “Dove se ne vanno le ricciute donzelle”

Mondo che dorme o mondo che si gloria
d’immutata esistenza, chi può dire?,
uomo che passi, e tu dagli
il meglio ramicello del tuo orto.

Brano la cui interpretazione è complicata da un dettaglio apparentemente banale, ma che, presentandosi nella assolutamente inusuale doppia e consecutiva presenza dei segni di punteggiatura, riesce a stordire di riflesso anche la sequela concettuale e logica dei versi.
Bisogna avere a mente che il poeta sta ragionando sulle figure di un bassorilievo funerario bronzeo (“Sarcofaghi” è il titolo della sezione di quattro poesie cui appartiene anche questa), altrimenti diventa davvero difficile comprendere il testo, già di per sé reso ambiguo dal fatto che non è chiaro (e forse non lo vuole essere) il grado di passività o di partecipazione dell’uomo cui è indirizzato il vocativo.
Se da un lato pare essere d’autorità l’io lirico ad esortarlo a dare “il meglio ramicello del tuo orto”, dall’altro i versi possono anche indurre a pensare che tale esortazione venga fatta a seguito di una sottintesa domanda del passante sulla natura del mondo dei morti, alla quale già era seguita una risposta: “chi può dire?”.
“Ramicello”, comunque. Non come nella terza poesia di “Sarcofaghi”, dove ad essere donato è un ramo. Ma non è caso d’importanza.
E’ invece la levità dell’incedere delle giovani donne che a un ramicello meglio che a un ramo s’addice, e invoglia a pensare, nonostante le anfore ricolme, ad un sincrono passo di danza.

a “Il fuoco che scoppietta”

[…!] E tu camminante
procedi piano; ma prima
un ramo aggiungi alla fiamma
del focolare e una pigna
matura alla cesta gettata
nel canto [:]

Esortazione simile ma non uguale a quella di “Epigramma”. Infatti se anche in questo caso si tratta di rendersi disponibile ad un aiuto, esso deve essere offerto (e proprio all’offerta rituale ai defunti perché possano nutrirsi durante il loro viaggio nell’al di là si sente il richiamo) alla persona del vecchio stanco ormai rassegnato alla morte, non alla conservazione e trasmissione di ciò che testimonia quello che di bello la poesia ha prodotto in vita.
E comunque le esortazioni sono due: la seconda in funzione del vecchio a cui sarà più grato essere accudito nella morte che essere riportato in vita da questa sua condizione di sonno in bilico tra i due regni della luce e del buio; la prima diretta al camminante, affinché proceda piano, considerando il percorso, e preparandosi a giungere al termine di esso pronto ad addormentarsi senza cadere nel “sonno dell’abbandonato”, nel sonno del suo alter ego improvvido proiettato nel futuro.
Durante il suo cammino deve saper far provvigione “pel viaggio finale”.
Di questa provvigione fa parte pure un ramo da aggiungere alla fiamma per ravvivarla; da tenere in serbo per l’al di qua, questa volta, perché del vecchio resti acceso il ricordo.

da “Non chiederci la parola….”

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

In questo caso il passante non è richiamato, non è ammonito a farsi parte della vicenda.
E’ invece constatato e poi previsto.
E’ “l’uomo che se ne va sicuro”, non tanto di sé, quanto del mondo che gli sta attorno; anche perché è convinto che sia solo quello e solo così, perciò non si mette in dubbio e non instilla dubbi, e il prossimo gliene è grato facendogli da specchio. Ma il muro no, non gli rimanda l’immagine che egli ha di sé, ma la sua ombra.
Se se ne curasse, capirebbe che è quel che la luce lascia se non la si lascia passare. Definitivamente.

da “Meriggiare pallido e assorto”

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

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La poesia che dall’ incipit enantiosemico (spiace usare un tecnicismo così spinto, ma è perché davvero riesce a centrare perfettamente il concetto, visto che si meriggia all’ombra, per cui il muro non dovrebbe essere rovente) dato da quel “Meriggiare pallido e assorto / presso un rovente muro d’orto”, si presenta in bilico tra l’impersonale e il soggettivo, per poi passare ad uno sguardo di un io disincarnato, e per giungere nella strofa conclusiva a rivelare un io personale il quale finalmente si mostra tale col dichiarare l’unico sentimento, inevitabilmente di un umano, che in tutta la lirica viene espresso: la “triste meraviglia”.
L’impressione che non il poeta, ma il solo suo sguardo, dopo aver documentato la natura attorno dalla sua postazione fissa di indagatore, si muova. Prima, nella sua staticità, era come parte di quello che accadeva: meriggiando, ascoltando, spiando, osservando. Poi, come per voler constatare se anche oltre lo stato del suo “qui e ora” la vicenda delle cose del mondo sia un caso particolare o un destino, va. Diventa uno dei passanti montaliani. E si configura, esploratore-scienziato che medita su ciò che scopre; di conseguenza anche filosofo il quale nel trarre le conclusioni della sua spietata presa visione, si riconosce rabdomante sconfortato ed Ecclesiaste arreso non tanto dalla ripetitività dell’essere, ma dall’essere dell’essere.
Presso il suo orto, un muro. Poi, facendosi turista delle piccole entità del mistero e viandante nel seguitare e nell’insistere ad andare, sfidando e sopportando il sole che abbaglia, trova una muraglia (termine più aggressivo e massimale) che saprà punire chi osasse tentarla.
Sarebbe Ulisse se il suo procedere fosse la presunzione della conoscenza; ma è il bisogno di libertà, e non sarà la montagna del Purgatorio a punirlo per quello che sta per commettere, ma cocci aguzzi di bottiglia i quali, come sbarre di una prigione, sono lì perché qualcosa è già (o è come se fosse già) stato commesso.

da “So l’ora in cui la faccia più impassibile”

So l’ora in cui la faccia più impassibile
è traversata da una cruda smorfia:
s’è svelata per poco una pena invisibile.
Ciò non vede la gente nell’affollato corso

Il passante è ogni componente della folla; fa parte del via-vai. Il corso è il luogo deputato all’andirivieni di quelle particolari persone che passano con l’unico scopo di ripassare e di perdersi e ritrovarsi al prossimo giro per rinforzare mutamente e mutualmente, nel flusso della corrente, la loro sostanzialità superficiale.
Non è questo il passante che è diretto altrove; non il girovago che non ha come la gente del corso tanti estranei compagni di strada ma quasi sempre è e quasi sempre va solo.
Sul corso è essenziale la presenza della gente. Se non c’è nessuno, è inutile andarvi. Mancherebbe il piacere di sentirsi inclusi, cioè accettati nell’uniformità senza però essere meri numeri. Il corso dà sicurezza.
Ma quando la prepotenza di un pensiero non riesce ad essere contenuta o rimandata, vuole riconoscimento.
La pena altrimenti potrebbe essere nascosta per poco; poi si trasformerebbe in una smorfia, in un volto disdicevole al vocìo della folla.
Dissimularla a lungo, comprimerla, non sarebbe possibile, e solo resterebbe la ricerca della solitudine, come già un poeta settecent’anni fa ammoniva:
“Solo et pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi et lenti, / et gli occhi porto per fuggire intenti / ove vestigio human l’arena stampi.

da “Forse un mattino andando”

Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

Il passante qui è uno che in realtà ha per un poco interrotto il suo cammino per voltarsi e fare il bilancio della sua vita, guardando che cosa ha lasciato, che cosa ha raccolto e in che cosa ha creduto.
E’ uno che è stato sfiorato dal sospetto e dall’ansia se sente il bisogno di fermarsi e rivolgersi. Attenzione! Non semplicemente volgersi, ma, appunto, rivolgersi; per chiedere all’essere se è, se “alberi, case, colli” che gli si presentano davanti abbiano sostanza anche quando sono lasciati alle spalle, e non sia il suo volerli vedere che dà loro una realtà fittizia.
E’ uno che riprende il cammino piegato e piagato da quella scoperta che decide sarà il suo segreto affinché non pieghi e non piaghi. Non porterebbe nulla di buono agli “uomini che non si voltano”, ai passanti votatisi, senza domande e senza riserve, ad avere una meta condivisa e riconosciuta.

da “La farandola dei fanciulli sul greto”

Il passante sentiva come un supplizio
il suo distacco dalle antiche radici.

Qui il passante è chiaramente il poeta stesso. E’ Montale che riferisce di una scena che ha realmente vissuto o che ha immaginato come più valida espressione del suo sentimento per l’infanzia lontana nel tempo e nel modo di percepire il reale.
E’ un passante che si confessa, senza niente di ermetico e senza infingimenti: vorrebbe ancora essere là, uno della farandola. Ma il suo status di passante è anche ontologico e non glielo permette. Lo obbliga ad essere allegoria del tempo: lui è il tempo che passa, che non si ferma; quello stesso tempo che nell’infanzia, per essere “l’età d’oro florida” rendeva felici le sponde piene di sterpi. Il supplizio è non essere più là anche se di là passa (trascorre), perché non è più lui, sicché la vicinanza fisica si muta in una incolmabile lontananza del cuore, in una diversità irriducibile creata più che dal passare degli anni, da quella che per un poeta molto caro a Montale è il sentire di colui il quale troppo “chiuso in se stesso, medita, s’accresce, esplora, intende / la vita dello Spirito che non intese prima.”

da “Fine dell’infanzia”

[…] un uomo
che là passasse ritto s’un muletto
nell’azzurro lavato era stampato
per sempre – e nel ricordo.

Il passante è a dorso di mulo. Non si sa se il poeta l’abbia davvero visto un qualche giorno della sua infanzia. Comunque Montale non si stupirebbe se fosse solo il ricordo nitido di un’ipotesi, visto che usa il congiuntivo imperfetto.
Il poeta non se ne preoccupa: all’interno del quadro impressionista che ci offre, quel contadino sulla sua umile cavalcatura reclama un suo posto nell’elenco delle cose descritte. Ipotetico o no.
Montale nella impostazione verbale in cui lo inserisce, a tal fine scardina la consecutio temporum logica lasciando prevalere quella psicologica, come appunto ci mostra l’inconsueto legame tra “passasse” ed “era stampato”.
Senza il contadino che in lontananza passa col suo mulo, qualcosa mancherebbe. Ciò determina che compaia, e così netto da rimanere “stampato per sempre – e”, aggiunge l’io lirico, “nel ricordo”.
Il quale è vero in ogni caso; e di più se lo si fa esistere per riparare ad una eventuale dimenticanza del naturale comporsi delle cose.

FULVIO BALDOINO

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