La democrazia riservata ai democratici

La democrazia riservata ai democratici
A chi e a che cosa servono l’antifascismo e il sacro fuoco della resistenza

La democrazia riservata ai democratici
A chi e a che cosa servono l’antifascismo e il sacro fuoco della resistenza

 Se non ricordo male ho già scritto una volta su questi Trucioli che preso alla lettera l’antifascismo sarebbe un problema psichiatrico: se il fascismo è quello violento che si contrapponeva ai bolscevichi, è stato liquidato da Mussolini subito dopo la sua ascesa alla Presidenza del Consiglio; se il fascismo è il regime diarchico affermatosi dopo il 1922 e consolidato nel ‘25 col partito unico istituzionalizzato, questo ha cessato di esistere il 25 luglio del 1943; se il fascismo sono i seicento giorni della repubblica sociale, a Giulino di Mezzegra ce ne fu il tragico epilogo.

 Aveva sicuramente senso schierarsi da una parte o dall’altra negli anni che precedettero e seguirono la Grande Guerra: interventisti e neutralisti; rivoluzionari rossi e rivoluzionari neri; anarchici e nazionalisti. Aveva sicuramente senso opporsi al conformismo e alla retorica monarco-fascista del ventennio e aveva sicuramente senso nei lunghi mesi della disfatta volersi sottrarre al tallone delle SS rifugiandosi in montagna o combattere per impedire che comunisti e slavi si impadronissero del sacro suolo della Patria. Ma dopo? Cosa diavolo è, in questi 73 anni dalla fine della guerra, il fascismo tenuto a bada dagli antifascisti?


Io non sono ossessionato dall’antifascismo: sono preoccupato perché non mi illudo che gli antifascisti e le vestali che tengono acceso il sacro fuoco della resistenza siano dei visionari prigionieri di un passato che non è neppure loro. Sono preoccupato perché so che l’antifascismo è un pretesto per isolare, ammutolire, demonizzare il dissenso, per difendere le proprie rendite di potere. Chi dette fuoco ai fratelli Mattei non difendeva la democrazia minacciata dal fantasma di Farinacci ma voleva impedire che venisse insidiato il monopolio rosso della rappresentanza delle borgate proletarie.

Provo un’istintiva simpatia per il collega, non solo per spirito di corpo ma perché ne apprezzo la sensibilità e la cultura e non ho alcuna intenzione di polemizzare con lui. Ma quando afferma che, sempre riferendosi al passato mussoliniano, chi ha avuto la ventura di vivere in quei tempi, che io a suo parere rimpiangerei, non avrebbe goduto della mia libertà di esprimere quello che mi passa per la mente, gli devo far notare  che in questa repubblica nata dalla resistenza (falso: nata da un referendum grazie ai voti dei repubblicani del nord) quella libertà non è per niente garantita se è vero, com’è vero, che lo Stato consente  a gruppi organizzati di canaglie – antagonisti, centri sociali, collettivi studenteschi – di impedire di parlare, di ascoltare, di riunirsi, di manifestare a chi recita fuori del coro. Chieda un po’ alla signora Meloni come ci si trova circondati da energumeni che ti sputano in faccia e ti invitano a lasciare la protezione dei poliziotti per darti la lezione che meriti. Per quello che mi riguarda non trovo per niente normale né divertente aver dovuto passare attraverso due cordoni di agenti in tenuta antisommossa per poter raggiungere il locale blindatissimo in cui parlava Salvini mentre a poche decine di metri i compagni alternavano minacce nel megafono allo stucchevole ritornello di Bella Ciao.

Insomma: per quanto trovo ridicolo o pretestuoso l’antifascismo avverto il pericolo reale di quella che viene eufemisticamente indicata come contestazione, sempre a senso unico, che è un vero e proprio bavaglio alle opposizioni non addomesticate. E non vorrei che, una volta insediato un governo sgradito alla sinistra, si ripetesse lo spettacolo sconcio delle vetrine spaccate, dei blocchi stradali, delle città devastate dai facinorosi contro qualunque provvedimento dei tre governi di centrodestra, in particolare le timide, timidissime riforme della Moratti prima e della Gelmini dopo. Se l’opposizione non si fa in parlamento ma nelle piazze, se è questo che si intende per democrazia, lo si dica ma alla fine succederà che una legge elementare della fisica farà sentire i suoi effetti: ad una azione corrisponde una reazione uguale e contraria. È questo che si vuole?


Buscaroli, nostalgico di un fascismo idealizzato e mai conosciuto (nel ’22 non era nemmeno in lista di attesa, nel ’43 aveva tredici anni) schifava la resistenza e questa democrazia farlocca, prima seconda o terza repubblica che fosse, e il mio collega se ne sorprende e se ne adonta. C’è, c’è stato, un antifascista vero, molto più vero e coerente di Nenni o Togliatti: Randolfo Pacciardi, combattente per la Spagna repubblicana ma intransigente anticomunista, che verso questa repubblica “nata dalla resistenza” ebbe a usare parole di fuoco, a confronto delle quali gli anatemi di Buscaroli sono complimenti. 

Il sovranismo. Francamente mi sfugge non solo l’utilità ma proprio il senso di questa espressione. Siccome il termine ha una connotazione negativa devo concluderne che chi lo usa vorrebbe privare il popolo della sovranità? O, in alternativa, abolire lo Stato per sostituirlo con un’entità sovranazionale? Ma davvero qualcuno crede che esista una nazione europea? Non scherziamo. L’Europa può non essere semplicemente un’espressione geografica se si bada alla condivisione di una tradizione letteraria fittamente intrecciata, ad una comune elaborazione filosofica che nei secoli ha coinvolto tutto il continente,  all’amalgama di una religione che anche dopo lo strappo della Riforma è rimasta sostanzialmente la stessa nei simboli e nei significati essenziali; ma intanto, così intesa, comprende a pieno titolo la Russia di Tolstoi, di Pushkin, di Berdiaeff  e, in secondo luogo, questa Europa culturale non ha intaccato la differenziazione linguistica diventata irreversibile dopo il diciassettesimo secolo né ha impedito il prevalere delle forze centrifughe che hanno fatto del continente la terra di tutti contro tutti con una storia di guerre intestine interrotte da periodi di delicati e instabili equilibri diplomatici.


Quale, al di là della retorica e della facciata, quello che stiamo vivendo, nel quale l’alternativa alla sottomissione al potere della finanza globalizzata è l’esplosione delle mai sopite rivalità commerciali e produttive. La Germania che pretende di tenere aperte le frontiere per potersi scegliere la manodopera di cui ha bisogno lasciando gli scarti ai greci o ai Paesi slavi, la Francia che intende far pagare all’Italia il conto del suo dissennato colonialismo e chiude ermeticamente i suoi confini dopo aver fatto del Maghreb un ponte verso il nord, l’Inghilterra che vista la mala parata se ne va sbattendo la porta, l’Italia che strizza l’occhio ai secessionisti catalani per poi piangere se le è mancato l’appoggio spagnolo per arraffare la commissione sul farmaco, l’Ungheria isolata e minacciata perché semplicemente vuol sopravvivere: è questa l’Europa? L’Europa delle patrie ha un senso e un’utilità, l’Europa di una comune difesa militare, di una libera circolazione di merci e persone, di un fronte commerciale comune ha un senso e un’utilità; l’Europa di Ventotene è un’idiozia, più che un sogno di anime nobili un incubo. Berlusconi, forte di un rapporto privilegiato con Gran Bretagna e Stati Uniti, aveva rotto le uova nel paniere franco-tedesco e gliel’hanno fatta pagare. Quando il Paese, rimasto al riparo dagli effetti della bolla immobiliare americana,  avrebbe potuto raccogliere i frutti di una ritrovata presenza in campo internazionale e di una posizione di forza nel mediterraneo si sono sguinzagliati i nemici storici della Patria, gli eredi del Franza o Spagna purché se magna, i compagni asserviti a Bruxelles e al nuovo inquilino della Casa Bianca, l’amico italiano del ridicolo napoleoncino francese e, fatto fuori Gheddafi, l’Italia è stata messa nel cantino fino a diventare la pattumiera dell’Europa. Le ragioni della geopolitica non si azzerano con un tratto di penna: dall’Unità ad oggi l’Italia è una spina nel fianco della Francia, che non si rassegna alla perdita dell’egemonia nel mediterraneo di cui un tempo godeva in combutta con gli inglesi. Quella stessa Francia che non si è mai rassegnata alla perdita delle terre d’oltre mare, è responsabile della tragedia indocinese, non voleva mollare l’Algeria quando il colonialismo era ormai tramontato, ha provocato il caos in Libia per soffiarci il petrolio, continua a fare danni in Niger e cerca in tutti i modi di succhiare le nostre risorse. Ma, si sa, noblesse oblige, è la grandeur, non scherziamo.


Ma noi, scrive il collega, siamo diversi, noi guardiamo oltre, noi abbiamo una visione globale, noi non vogliamo pestare i piedi a nessuno; che diamine, non ci metteremo mica a litigare con i nostri clienti: siamo un popolo di albergatori, di ristoratori, di bagnini, di guide turistiche. Siamo fieri del nostro patrimonio artistico, dei nostri ruderi, delle nostre spiagge, non di essere italiani, ci mancherebbe.  E, anche se non ce ne rendiamo conto, siamo fieri di essere caritatevoli e accoglienti e non stiamo a sottilizzare se quelli che sbarcano sono profughi o uomini in cerca di fortuna, se scappano dalla guerra o dal lavoro, se sono soldati del califfato o trafficanti di droga, se mandano qui le loro donne – e bambine – per farle prostituire. Qualcuno ha deciso che noi siamo più buoni degli altri, amen. E, del resto, di questa bontà molti vengono lautamente ricompensati.

Che i giovani africani tirati a lucido con cuffie stereo e smartphone d’ordinanza, gli spacciatori tunisini o la mafia nigeriana siano “i più deboli e colpiti dalla sventura” e come tali meritevoli della nostra cristiana solidarietà mi permetto di dubitare. Ma soprattutto mi permetto di rimarcare la distanza anche semantica che c’è fra nazionalismo e patriottismo. E trovo sgradevole che il collega, che in altre circostanze ho avuto modo di apprezzare, parli di “sovranismo e ritrovato e anacronistico nazionalismo di massa” a proposito di chi vuol rivendicare il ruolo e la presenza dell’Italia nel mondo non per Wille zur Macht ma per la difesa degli interessi nazionali, che poi sono quelli dei lavoratori italiani.  Un patriottismo di massa, anzi, di popolo, c’è stato eccome e continua a vivere nella memoria dei caduti di tutte le guerre, compresi quelli che combatterono contro tedeschi non per il comunismo ma per la patria italiana. E non erano l’espressione di una élite ma figli di tutta la nostra gente, il cui lascito, in tempi migliori di quelli che stiamo attraversando, veniva custodito con orgoglio anche da una parte della cultura di sinistra.  A questo proposito, a parte il ricordo cinematografico della Grande Guerra di Monicelli, che non era certo un neofascista, mi permetto di ricorrere ai miei ricordi personali di due miei concittadini, dai quali mi separavano, oltre l’età, posizioni politiche e scelte culturali, Ciampi e Badaloni, custode appassionato il primo della tradizione risorgimentale, fiero del suo Paese il secondo. Che, da sindaco, tradendo la sua severa usuale compostezza, interruppe al grido di “Viva l’Italia!”  la gazzarra inscenata in consiglio comunale dai suoi stessi compagni della sinistra. Altri tempi e altra cultura.

E, a proposito di cultura, mi trovo perfettamente d’accordo con Sguerso quando lamenta l’ignoranza dei nostri governanti o aspiranti tali, laureati o no, e, io aggiungo, di tutta la cosiddetta classe politica. Continuiamo a pagare il prezzo della distruzione del sistema formativo iniziato negli anni Settanta e se il governo che deve nascere continuerà nella prassi di affidare il governo della pubblica istruzione all’ultimo/a degli scalzacani e non si adopererà per coinvolgere e mobilitare quel che di buono resta dell’Accademia senza badare alle tessere di partito diventerà poi veramente impossibile riportare a galla una barca già mezzo affondata.  

      Pier Franco Lisorini

 Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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