La lezione di Hawking

La lezione di Hawking:
quando la mente ha la meglio sul corpo

La lezione di Hawking:
quando la mente ha la meglio sul corpo

Mi chiedo cosa pensino all’interno dell’associazione Luca Coscioni della vicenda umana di Stephen Hawking. Per tenerlo in vita e consentirgli di comunicare col mondo esterno sono state necessarie apparecchiature appositamente costruite per lui, costretto per anni ad una assoluta immobilità e totalmente dipendente da macchine e assistenti. Una non vita la sua? Un costo per la società e una sofferenza per lui? Staccarlo dalla macchina sarebbe stato un doveroso atto di civiltà?


Fortunatamente per lui, ma io dico per tutti noi,  nei lontani anni Settanta ci aveva pensato la moglie a impedire che quel gesto di civiltà si compisse, consentendogli di continuare un’esistenza con risvolti di una normalità che le anime belle orbitanti in quella associazione forse non riescono a concepire: tre figli, due matrimoni, crisi coniugali, sofferenze, umiliazioni ma anche gioie, amore, soddisfazioni e soprattutto impegno e un vitalismo capace di sfidare e vincere una battaglia continua contro le limitazioni del corpo e le sentenze della medicina. Non voglio essere frainteso. Hawking era un fisico, fra i più celebri e celebrati del nostro tempo e la sua lotta per la vita gli ha consentito di  proseguire la sua attività di studioso e di partecipare attivamente al dibattito interno alla sua disciplina. Altri direbbero che preservare la sua vita è stato un bene per la scienza, come dire che il suo era un cervello portentoso ed è valso la pena mantenerlo in attività perché ci ha fatto comodo. A me degli studi di Hawking non importa assolutamente nulla. Se devo entrare nel merito confesso un certo scetticismo nei confronti di speculazioni matematiche che al massimo possono disegnare scenari di mondi leibnizianamente possibili ma non necessariamente reali, stante l’assenza di verifiche sperimentali. Non è questo il punto. Il valore della persona non si misura con parametri esterni: l’utilità sociale o l’avvenenza, l’intelligenza, la cultura, la popolarità, il lignaggio o il denaro. Il valore della persona è intrinseco, è riposto nell’umanità che si esprime in ogni individuo in modo del tutto indipendente dagli strumenti di cui dispone per intervenire sul mondo esterno. È un valore squisitamente spirituale, non riducibile a merce ed è come tale un valore assoluto. Sono più i due matrimoni, i tre figli, lo slancio per il suo lavoro – non il contenuto o i risultati del suo lavoro – che mi rendono idealmente partecipe della sua battaglia per la vita, per l’affermazione del senso della vita in condizioni di terribile difficoltà. E voglio credere che sia questa capacità di dare senso alla sua vita che gli ha consentito di smentire clamorosamente le prognosi dei medici, che quando la sua malattia si mostrò in tutta la sua evidenza pronunciarono la loro sentenza: due anni di sofferenza e poi la fine inevitabile. Ci sono state e ci sono sterili elucubrazioni sull’esattezza della diagnosi, se la sua fosse veramente Sla o una sua variante meno aggressiva, se fosse compromesso del tutto o solo parzialmente il primo motoneurone, se la malattia riguardasse non il primo ma il secondo motoneurone; quali fossero le sue condizioni fisiche tutti l’hanno potuto vedere:  sta il fatto che vi si è adattato per trenta anni senza che la sua sia stata una lunga agonia ma un’esistenza ricca, gratificante, per certi aspetti felice.


Intendiamoci. So benissimo che Cappato e compagni non sono invasati predicatori di morte, che il loro intento è di garantire il diritto del malato a decidere di non vivere più una vita insopportabile. Ma è innegabile che nella loro posizione è implicita l’idea che la vita sia una variabile dipendente dal tasso di felicità o, meglio, dalla percezione, spesso socialmente indotta, del proprio tasso di felicità. Ed è innegabile che la loro posizione suggerisce che sia comunque insopportabile una vita che non corrisponde ai parametri di sopportabilità pensati da un uomo in buona salute. Ed è una posizione che rischia di scivolare verso l’atteggiamento disumano di Nietzsche verso i fehlgeschlagen, i malriusciti, quelli che fanno distogliere lo sguardo o sussurrare “meglio morto”. Il nazismo aveva fatto suo, spacciandolo per un ritorno dell’ethos classico, il mito salutista e il culto della bellezza e della forza: lo stesso antisemitismo poggiava su canoni estetici, bene evidenti nello stereotipo fisico dell’ebreo.

Libertà di scegliere. Il suicidio può essere un gesto libero e liberatorio dinanzi al quale inchinarsi ma può essere indotto dalla pressione sociale, dall’emarginazione, dalla perdita di autonomia; il rifiuto degli altri può essere incorporato e diventare rifiuto di sé e non vorrei che la “dolce morte” dovesse ricadere in questa categoria. Non mi si dica che il legislatore si è semplicemente preoccupato di impedire che un improbabile accanimento terapeutico mantenga artificialmente in vita un organismo ormai clinicamente morto: non mi risulta che i  protocolli presenti nei reparti di rianimazione si ispirino alla prassi di certi regimi totalitari del passato, quando non si poteva dichiarare morto il dittatore prima di aver deciso chi doveva succedergli.


 Ma la vicenda umana di Hawking  va oltre il problema contingente della Sla, della legittimazione dell’eutanasia, dell’accanimento; riguarda piuttosto il senso dell’essere uomo e l’essenza della civiltà: non mi interessa tanto la questione, pur fondamentale, del diritto alla vita quanto quella di cosa ne sia dell’umanità e del rapporto fra lo spirito e la materia. Con la vicenda umana di Hawking è come se qualcuno, intervenendo sul dibattito millenario intorno al rapporto fra nous e soma  abbia voluto ricordarci che il corpo non è lo specchio dell’anima, che il corpo è lo strumento con cui la mente deve fare i conti, in uno sforzo continuo di asservirlo per non esserne asservita. Il mito dell’armonia corpo-anima, come il sinolo aristotelico, è  il tentativo di sfuggire ad una contraddizione di fondo, la stessa in cui si imbatte l’artista quando tenta di infondere lo spirito nella materia. Il corpo non è il carcere dell’anima ma non è nemmeno l’anima esteriorizzata né la bellezza si risolve nei canoni estetici della corporeità. La bellezza del corpo è riposta nella sua trasparenza, nella possibilità di vedere oltre la sua materialità, nel superamento del suo essere corpo. Non ci incanta l’esteriorità di un corpo bello ma la rappresentazione significativa, spirituale, intellegibile, del corpo, bello o brutto che sia secondo le scelte culturali del momento. La bellezza interiore, quella di Socrate, il Sileno che, aperto in due, contiene al suo interno l’immagine del dio, è l’alternativa al corpo oggetto, il corpo ostentato, il corpo alienato, contenitore vuoto,  sottomesso ai valori dell’efficienza, della salute,  della forza, della giovinezza che diventa giovanilismo. L’essere per gli altri si sostituisce all’essere per sé, il pubblico invade il privato e lo snatura e il significato della propria esistenza si attende dal giudizio esterno. 


Il razzismo orribile delle anime belle, dei sociologi d’accatto, degli opinionisti dalla sentenza facile, che in tutti questi anni hanno sostenuto che l’Italia ha bisogno di essere rinvigorita dall’innesto di sangue giovane, con un occhio di riguardo ai giovani africani – i disperati fuggiti da guerre inesistenti e da una fame che evidentemente giova alla massa muscolare –, sono un “rigurgito” – come direbbero loro – di antropologia positivistica e di eugenica, le stesse che, sulla scia di Galton, agli inizi degli anni Trenta condussero  alle aberrazioni delle leggi tedesche (tedesche, non naziste) di igiene razziale. 

L’Italia e il mondo non hanno bisogno di eugenetica e il nostro Paese, lo dice uno che da quando ha l’età della ragione pratica attivamente sport, si avvantaggerebbe se i giovani frequentassero di più teatri, gallerie d’arte e sale di lettura e meno palestre o campi di calcio. Il Paese ha un disperato bisogno di intelligenze, di senso critico, di creatività, non di bei corpi.

L’uomo è animale culturale, essere spirituale, intelligenza incarnata; non è integrato nella natura: è un portento estraneo alla natura, che le leggi della natura non riescono né a spiegare né a capire. E Hawking di questo portento è il paradigma. Lo è per non essersi piegato all’evolversi della malattia, lo è per non essersi lasciato vincere dall’impotenza e dalla diversità, lo è per la luce della sua intelligenza.


Il mito dell’armonia con la natura è seducente ed ha sedotto grandi scrittori come Leopardi e Carducci, per non dire di D’Annunzio; ma è per l’appunto un mito, semplicemente un mito letterario. Quando gli uomini non si sono scrollati di dosso la natura, sono diventati parti di essa, hanno vissuto in perfetta armonia con l’ambiente, la luce dell’umanità, dell’intelligenza, dello spirito si è affievolita fino a spengersi del tutto. Quel che ne è rimasto si trova nelle capanne degli ottentotti o nell’arte jivaro di rimpicciolire i crani. L’acquedotto romano o il viadotto che turba il sonno dell’ecologista piegano la natura al disegno dell’intelligenza umana, imprimono sull’ambiente il marchio della civiltà, la cerbottana o il tsatsa si sottomettono all’ombra umida della foresta tropicale, fanno dell’uomo un animale un po’ più ingegnoso e molto più stupidamente crudele.

Certo l’intelligenza ha un suo risvolto negativo e sollevarsi sopra la natura può portare  alla violenza sulla natura e all’opacità del brutto,  può portare distruzione e morte ma è un rischio che deve comunque essere corso. La bomba su Hiroshima o il bombardamento di Montecassino sono due esempi di stupidità e di barbarie, di perdita del senso dell’uomo.  È il rischio di perdersi della civiltà, che nessuna provvidenza garantisce a priori ma deve essere continuamente conquistata e riconquistata. Il progresso è un’illusione illuminista e positivista: la luce dello spirito si accende e si spenge nel corso della storia umana. Hawking nella fragilità della sua carne questa luce l’ha tenuta accesa.

     Pier Franco Lisorini

 Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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