Il tramonto del mito delle Potenze

Non mi capita mai di commentare quel che leggo su questi Trucioli savonesi, un po’ per discrezione, poiché anche se son passati diversi anni mi sento ancora ospite in casa d’altri, un po’ perché con le polemiche anche aspre ho già dato in tutto il corso della mia vita. Questa volta però mi sento di rifarmi all’acuta e sconsolata analisi che ho appena letto su questo sito, il cui autore – dati macroeconomici, storici e politici alla mano – celebra il de profundis per il nostro Paese, che esce dalla ribalta internazionale senza alcuna probabilità di tornarci.  Niente da eccepire: potrei solo, se ne avessi voglia, mettere altra carne al fuoco e dilungarmi sull’ignoranza di massa, il conformismo, la mancanza di reattività, il provincialismo italici ma sarebbe come infierire su un cadavere. Quello che invece mi preme è tentare di cambiare prospettiva. C’è stato un tempo, prima della temperie romantica, quando uno Stato italiano non esisteva, in cui gli Stati e le nazioni non coincidevano affatto; gli Stati si identificavano con le dinastie, le attività economiche si risolvevano all’interno della società civile e le istituzioni, salvo il caso che fossero le stesse teste coronate a condurre i propri privati affari, si limitavano a farsi carico, in modi diversi, di garantirne lo svolgimento e di salvaguardarle dalla concorrenza esterna. Conflitti dinastici da un lato e relazioni fra nazioni dall’altro; scambi culturali, transazioni commerciali, viaggi e soggiorni per affari, studio o diletto si svolgevano su piani diversi e con differenti quadri di riferimento rispetto ai rapporti fra Stati; curiosità, rivalità, pregiudizi, canzonature senza rapporto alcuno con quei conflitti o con la potenza militare a disposizione del principe, coincidente con lo Stato. Una delle prime testimonianze scritte del volgare sono le contumelie di un monaco tedesco contro i latini, id est, italiani: rivalità culturali, niente a che vedere con rapporti di forza in un mondo in cui la frammentazione fiscale e amministrativa rendeva indistinto il passaggio da una realtà politica a un’altra. Civiltà e culture si incontrano, si intrecciano, si fondono e le nazioni si esprimono con l’arte, la letteratura, il sapere e la tecnica. La civiltà latina ha sublimato e fissato in una dimensione metatemporale guerre e conquiste territoriali, quella rinascimentale sgorga dalla medesima sorgente proprio in un momento in cui mancano del tutto un’organizzazione e un potere centrale e l’Italia è solo, solo si fa per dire, una realtà culturale. Una realtà culturale che però sovrasta tutte le realtà politiche.

Se le nazioni coincidono con la cultura che esprimono, nel loro incontro la diffidenza iniziale, quando c’è, è destinata a smorzarsi e a tradursi in reciproco arricchimento: un processo questo bloccato dallo Stato-nazione  prima, dallo Stato-strumento di interessi economico finanziari dopo, come correttamente aveva denunciato Marx, al quale però era sfuggito un altro fattore di irrigidimento  e di aggressività non riconducibile a rivalità economiche o alla volontà delle nazioni di farsi Stato: il fanatismo religioso di derivazione semitica, incarnato dal cristianesimo e dall’ islamismo.  È un po’ come quando due sconosciuti si incontrano:  se a incontrarsi sono due persone con le loro idee esperienze e conoscenze le diversità non sono un ostacolo: sono due persone, due anime, se vogliamo, due umani; altro è il caso se alle persone si soprappongono e si sostituiscono affari e interessi: non più persone ma rivali, contendenti, risolti nei rapporti di forza, che sono di per sé grandezze misurabili, più forte, più ricco, etc. Ma l’umanità non ha futuro se non ci sono rapporti fra persone e la natura stessa provvede a far crollare la sovrastruttura della ricchezza  o della forza per ricondurre all’incontro, al reciproco riconoscimento e al mutuo arricchimento: è questo il senso della civiltà ed è questo il vero cammino dell’umanità: vale per i singoli come per i gruppi, per gli individui e per gli stati.

E vengo al punto: il pianeta è un sistema di vasi comunicanti che tende all’equilibrio. Ci sono momenti in cui le disuguaglianze provocano pressioni, invasioni e guerre di conquista finalizzate a prevenirle ma il tempo porta inevitabilmente ad un livellamento e a un rimescolamento. Tutto sta vedere che cosa in questo momento storico è congiunturale e qual è invece la tendenza strutturale: di sicuro lo stato-nazione com’è nato è destinato a scomparire per la naturale tendenza delle nazioni a mescolarsi fra di loro e delle diverse culture a fondersi in un’unica cultura;  lo stato strumento di interessi economico finanziari urta contro la natura stessa dell’economia  che alla lunga si ribella alla politica: l’imperialismo americano, inarrestabile dopo che i Paesi europei sono riusciti nell’impresa di distruggersi reciprocamente, ha dovuto fare i conti con l’emergere di nuovi soggetti che hanno messo in crisi la sua stessa base monetaria e dopo  i colpi di coda dei quali in questo momento siamo spettatori e vittime dovrà  arrendersi alle leggi stesse del mercato. Leggi che non possono essere forzate all’infinito: è grottesco e innaturale, per esempio, che si compri lo stesso prodotto dove costa di più e se a costringerti a farlo è una pressione esterna prima o poi te la scrollerai di dosso, e non ci sono Draghi, Biden o von der Leyen che tengano.

Regan e Craxi ai tempi dei fatti di Sigonella

Quindi in sintesi la mia opinione è che si debbano distinguere piani e scale temporali. Se si guarda ai Paesi come insieme di potentati e non di individui ha senso parlare di Grandi Potenze, di egemonie e di rapporti di forza. Sotto questo aspetto l’Italia, che nel passato ha avuto un grande peso politico mondiale culminato col regime mussoliniano e in parte recuperato con Craxi e la breve stagione BBB – Bush Blair, Berlusconi – e una rilevante posizione economica e industriale, oggi politicamente è al livello della repubblica di San Marino e economicamente in una quindicina d’anni è scivolata dalla quarta o quinta posizione alla ventesima e il suo declino appare inarrestabile. Tuttavia sarebbe un errore  confondere il potenziale militare con la reale capacità strategica – non c’è bisogno di evocare il miserevole esito della force de frappe francese: è sufficiente ricordare che gli Usa hanno subito sonore batoste in Corea e in Vietnam, sono dovuti scappare dall’Afghanistan  e  quella contro l’Iraq di Saddam Hussein è stata una vittoria di Pirro;  ed è sbagliato  credere che esista una realtà, lo Stato, la cui essenza è fissata una volta per tutte o che l’economia di uno Stato rifletta il benessere della società.  La realtà è fluida e le reazioni scomposte dell’amministrazione americana sono un chiaro segno della percezione di un’erosione sotterranea che prima o poi farà crollare l’impalcatura che regge il presunto strapotere economico finanziario militare e politico degli Stati Uniti. Ancora una volta il re è nudo: dietro questo strapotere c’è una società inquieta, segnata da insanabili disuguaglianze, scontenta, nevrotizzata e al di là della retorica priva di identità. Soprattutto non esiste una civiltà americana, un’anima americana che possa definirsi positivamente. L’american way of life si risolve nel consumismo, nell’appiattimento, nella monetizzazione. La vera grandezza di uno Stato, di una nazione, di una civiltà fissa in modo indelebile i suoi attori: Cicerone dopo più di duemila anni è ancora fra noi; su una scala inferiore lo sono anche Richelieu, il duca Valentino o Napoleone. Fra cinquant’anni chi si ricorderà di un certo Biden?

Pierfranco Lisorini

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One thought on “Il tramonto del mito delle Potenze”

  1. Articolo di una verità disarmante sulla situazione degli Stati uniti, basta guardare l’attuale Presidente, vecchio stanco, sperduto, per accorgersi della loro perduta potenza nel mondo.
    L’Europa e l’Italia stanno ancora peggio. L’ Europa è divisa su tutto, l’Italia non è considerata neppure nello sport, basta guardare le gare di Formula Uno come viene trattata la Ferrari

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