Il paradosso di una politica priva di senso dello Stato

I valori sono le cose che contano, nell’esistenza degli individui e nella collettività. Per molti la cosa più importante, quella per cui vale la pena studiare, sacrificarsi, spintonare e prostrarsi è il denaro: non il benessere ma proprio il denaro per se stesso. Persone incapaci di godere di ciò che hanno in abbondanza, prese in una spirale perversa e destinati a finire come “quei che volentieri acquista e giugne il tempo che perder lo face”. Per questo riguardo quello del compagno Panzeri è un caso di scuola. Ma, tanto per restare in compagnia del Sommo Poeta che ci invita a “non ti curar di lor ma guarda e passa”, lasciamo che sia la magistratura ad occuparsene.

La famiglia Panzeri

Per parte mia mentre auguro che tutto l’impianto del parlamento di Strasburgo crolli e nella sua rovina trascini con sé la Commissione e l’idea stessa dell’unione europea – da sostituire  con patti di amicizia mutuo soccorso e cooperazione che non intacchino la sovranità dei singoli Stati – prendo atto dei guasti della politica diventata mestiere e mi rafforzo nella diffidenza verso le anime belle che hanno preso il testimone della vecchia ipocrisia clericale. Tornando ai valori, quelli veri, sono loro che danno senso alla vita e  orientano il nostro cammino, se non vogliamo dare ragione ad un altro poeta, più vicino a noi, convinto che per il viandante “no hay camino” e che solo ”al andar se hace camino”.  Per secoli essi  sono stati imposti dalla fede religiosa e hanno fornito criteri certi di comportamento – la morale – senza i quali non c’è legge che tenga per garantire l’ordine sociale. Venuto meno il magistero della Chiesa, liberate e responsabilizzate le coscienze, alla pretesa di fondare il significato e il fine dell’esistenza sul suo superamento subentra la necessità di recuperarne l’ancoraggio per non smarrirsi nella distrazione e nel giorno per giorno.  L’impegno e la capacità di darsi degli obbiettivi danno stabilità e direzione al cammino dell’esistenza e  sono correlati con l’importanza che attribuiamo  alle cose che ci circondano, al loro investimento di senso. In questa cornice la lealtà, il rispetto della parola data, l’apertura verso l’altro  e la disposizione a superarne l’alterità sono le condizioni che rendono possibile il patto sociale e la creazione di una comunità, tenuta insieme oltre che dal medesimo sistema simbolico dagli stessi atteggiamenti fondamentali e da una scala di valori al cui vertice è la Patria.

Che è appunto il valore supremo di una comunità, senza il quale essa si riduce, per dirla col Manzoni “a un volgo disperso  che nome non ha”.  Ma non è un valore che si logora nella quotidianità e nella chiacchiera né si esprime nelle forme aggressive e parossistiche  della rivalità e dell’odio verso l’altro.  È un sentimento positivo di amore per la propria terra, non è come l’ottusa cecità del tifo sportivo, come la partigianeria e la faziosità un sentimento negativo che necessita di un nemico per alimentarsi. Quelli sono  effetti perversi del bisogno di stare insieme, di sentirsi parte di un gruppo, di sfuggire all’isolamento e di  dare libero sfogo alle pulsioni distruttive. Il patriottismo  non ha bisogno di una condivisione fisica né di essere urlato: si esprime in modi riservati e a volte struggenti nella propria intimità, si nutre di storia, di letture, di ricordi e segna l’appartenenza alla comunità ideale, meta temporale, nella quale rivivono i grandi del passato e si fondono insieme paesaggi, monumenti, immagini, suoni e sulla quale poggia la comunità reale. E quando dal piano dei sentimenti si sposta su quello della razionalità  l’amor di patria  diventa il  filtro dei comportamenti, delle idee e delle posizioni politiche, il criterio per giudicare della affidabilità di una persona al di là della casacca e dell’orientamento politico culturale o religioso. Con questo criterio si è tanto lontani dalla tradizione democristiana o comunista – l’ecumene della fede o della lotta di classe – quanto vicini a uomini anche distanti per molti aspetti fra di loro, e mi vengono in mente  Ciampi o Bettino Craxi  o lo stesso mio concittadino Badaloni, al quale, al di là della cordiale antipatia personale maturata nei pochi incontri che ho avuto con lui, riconoscevo dirittura morale e attaccamento alla Patria.

Letta, Draghi Berlusconi, Bossi

Perché senza  questi presupposti non possono esserci confronto e dialettica politici, non c’è un terreno comune, e che siano  no borders, mondialisti, atlantisti, sostenitori dell’Europa unita o del particolarismo regionale, piccoli e grandi Letta, Draghi, Berlusconi o Bossi, sono tutti in un modo o in un altro nemici dell’Italia, indifferenti insensibili o ignari della grandezza del suo passato.  Il patriottismo è anche retorica ma è una retorica buona, capace di far nascere e alimentare sentimenti autentici, soprattutto negli anni della formazione. E sotto questo aspetto gli ultimi cinquanta anni sono stati un disastro. Nel dopoguerra infatti, nonostante le ferite ancora aperte e la delusione per una rivoluzione mancata che covava dalle parti del Pci e che di lì a poco avrebbe innescato il terrorismo rosso, la scuola, e in particolare quella elementare,  continuava a svolgere una funzione di vera educazione civica – non quella farlocca tentata da Moro, naufragata nei primi anni 90 e il cui relitto è riemerso qualche anno fa – sia attraverso lo studio aneddotico della storia – l’unico possibile nella terza infanzia – sia attraverso  i canti patriottici. Un imprinting  che era rafforzato da un corpo insegnante di prim’ordine, che fino agli anni Sessanta ha saputo mantenere ai vertici europei e mondiali la nostra scuola primaria, al riparo dalla crisi che investì prima la scuola media e subito dopo l’istruzione superiore.

Il patriottismo ha anche tratti ingenui di cui non ci si deve vergognare; è un antidoto contro il qualunquismo, la cialtroneria, il malaffare; nel pubblico e nel privato è uno stimolo a far bene, rinsalda il senso del dovere e lo spirito di servizio. Non è, non deve essere esclusivo dei militari perché ha senso se accomuna tutti i cittadini e dovrebbe essere la molla che  spinge a far politica.  E qui, come si dice, casca l’asino.  Se, infatti, all’indomani della catastrofe, democristiani, liberali o comunisti che fossero i protagonisti della politica, quelli che Nantas Salvalaggio prendeva bonariamente in giro, erano comunque usciti da una scuola rigorosa e oltre all’onestà personale  testimoniavano un senso della patria che oggi è del tutto assente.

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Un’assenza implicita o scopertamente dichiarata, surrogata da altri riferimenti identitari e valoriali: la civiltà occidentale, l’europeismo, l’atlantismo, il globalismo, foglie di fico per coprire un individualismo cinico, spregiudicato, affaristico o addirittura criminale perfettamente simmetrico all’uso politico del patriottismo di altri che lo sbandierano come patrimonio della propria  parte mentre vestono gli stessi identici panni e sono pronti a farne mercimonio. Il patriottismo non ha nulla a che vedere con i partiti e c’è da diffidare dei partiti che ne fanno la loro bandiera, è espressione del cuore e della mente di singoli individui che col loro comune sentire perpetuano la civitas ideale che dà senso a quella materiale;  si esprime nelle forme sentimentali e ingenue dell’orgoglio, dell’attaccamento alla bandiera, della commozione al suono dell’inno nazionale ma soprattutto in quelle più serie della difesa della lingua e della cultura e della rivendicazione del contributo che l’Italia ha dato alla civiltà.
Non c’è niente di più miserabile dell’atteggiamento “fantozziano”  di chi si rapporta al resto del mondo con soggezione, come membro di una piccola e insignificante nazione: si riscontra in tanti ragazzi usciti da una scuola incapace di formare – e di informare  – ma è rinforzato dai messaggi che vengono dalla politica. Oggi il sentimento patrio non investe più la società, è rifluito nel privato, è incompatibile con la modestia etica e culturale degli intellettuali imposti dai media, con un’imprenditoria miope, con un ceto politico elefantiaco  di piccoli avventurieri privi di qualsiasi spessore. La politica è un deserto  dal quale si levano solo voci stonate di gente che non ha niente da dire e soprattutto da dare. Quando va bene sono povere anime che con lo scranno parlamentare hanno vinto uno stipendio più che ragguardevole che gli ha cambiato la vita. Se va male sono mascalzoni disposti a vendere il loro Paese. A questo proposito in questi giorni si fa un gran parlare di mafia e con la mancanza di sobrietà, misura, professionalità che caratterizza il sistema dell’informazione si procede quotidianamente al linciaggio mediatico del suo vero o presunto capo. Intanto osservo sommessamente che la mafia non è la causa del marcio di tanta parte del sistema economico finanziario industriale politico e sociale italiano   ma ne è l’effetto; in secondo luogo non credo nel diavolo, nemmeno se si presenta con la faccia di MMD e, last but not least, mi viene da pensare che se quel signore  volesse veramente sgravarsi la coscienza invererebbe la leggenda di Sansone e i filistei e sotto le macerie finirebbe buona parte della cosiddetta classe dirigente.

Detto questo e esaurite le scorte di pietre da tirargli addosso mi domando: ma non è molto più grave l’attentato alla democrazia e alla credibilità delle istituzioni perpetrato a Strasburgo di qualunque delitto possa essere attribuito a un’organizzazione malavitosa? E cosa passa per la mente al direttore del Riformista ospite fisso delle reti Mediaset che si scaglia contro la magistratura belga perché  trattiene in galera quelli che sono stati presi con le mani nel sacco? Quale crimine come quello che si è consumato, e si continua a consumare, nelle stanze e nei corridoi del potere ha un effetto così devastante sulle istituzioni? Perché non è in gioco la tenuta dell’Ue o il ruolo del  parlamento europeo ma il senso stesso  delle istituzioni, della democrazia, dei partiti, la legittimità dei governi e delle decisioni che vengono prese, e penso non alla melina sulla giustizia ma alle armi all’Ucraina e alla supina acquiescenza agli Usa. Il patriottismo, quello autentico, coincide col senso dello Stato,  è l’architrave della democrazia, e in chi ha assunto su di sé l’onere del governo  è  la capacità di coniugare interesse della collettività e rispetto della volontà popolare. Quello che sta accadendo in Italia è uno schiaffo alla volontà popolare e il tradimento degli interessi nazionali.  Dall’unità ad oggi si sono succeduti a guidare il Paese governi e maggioranze di tutti i tipi: autoritari, massonici, liberali, socialisti, clericali, tecnici, ma persino il disfattismo di Badoglio al cospetto dello spettacolo indecoroso di questa destra stracciona rifulge per amor di Patria. Passerà, passa tutto; il problema è che cosa resterà.

post scriptum
Avevo scritto qualche mese fa che un successo elettorale di FdI  che avesse portato  la Meloni  a palazzo Chigi sarebbe stata una iattura per il Paese. Ora i fatti mi danno ragione. So io quanto mi sarebbe piaciuto avere torto.

Pierfranco Lisorini

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2 thoughts on “Il paradosso di una politica priva di senso dello Stato”

  1. Bravo professore, analisi azzeccatissima della situazione attuale. Politici e governanti mediocri che al posto del rispetto delle istituzioni e senso dello stato pensano solo al denaro. La corruzione c’è sempre stata ma almeno qualche decina di anni fa tra nostri governati cerano persone toste che facevano gli interessi dei cittadini, ora invece c’è un appiattimento totale verso il basso

  2. Leggo sempre con interesse i suoi articoli e sinceramente rimanevo stupito quando criticava l’entrata al governo della Meloni. Ora purtroppo mi devo ricredere e darle ragione.
    Con un’opposizione così scarsa pensavo che il governo facesse grandi cose ed invece non cambierà nulla, perché si stanno rimangiando tutto quella che avevano promesso in campagna elettorale. La cosa più grave è che la vera opposizione la Meloni ce l’ha nel suo interno, sono Berlusconi e Salvini

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