Il mito del progresso

 Sono trascorsi quattro secoli da quando Bacon vaticinava una radicale trasformazione del modo di essere dell’umanità liberata dai pregiudizi, dalla superstizione, dalle trappole del linguaggio e tutta protesa all’incremento della conoscenza e al controllo della natura. Le macchine volanti sognate dal filosofo inglese sono ora una realtà, la velocità ha cambiato radicalmente la percezione dello spazio e del tempo, l’organizzazione scientifica e la sua interazione con la tecnologia sono componenti essenziali della nostra cultura ma nessuna delle ricadute sul benessere, la felicità, la dignità della persona che si potevano immaginare si è verificata. La stessa scolarizzazione di massa e la liberalizzazione dell’accesso a tutti i livelli della conoscenza sono servite solo a prendere coscienza di disuguaglianze sempre più marcate e della inutilità degli sforzi per attenuarle, agli antichi pregiudizi se ne sono aggiunti di nuovi, i flagelli della guerra, dell’odio, dell’oppressione hanno ora a disposizione strumenti più raffinati che li hanno resi più micidiali.

Ma quello che più sgomenta e che Bacon non poteva certo prevedere è che la diffusione del sapere, la sua democratizzazione, ha prodotto un effetto paradossale: le posizioni di comando, in tutti gli ambiti, dalla politica all’economia e perfino alla scienza, non sono nelle mani della minoranza più capace, più dotata intellettivamente e più “virtuosa” ma al contrario sono di norma appannaggio di farabutti, arrivisti o semplicemente fortunati. Un completo rovesciamento delle leggi della natura e dei principi che governano il funzionamento dei sistemi. Cerco di essere più esplicito: comunque si guardi al passato, alle condizioni socio-politiche dell’antichità o del cosiddetto medio evo fino alle soglie del mondo contemporaneo le disuguaglianze, per quanto in sé contrarie all’idea e al valore della uguale dignità di tutti gli uomini, erano tuttavia in qualche modo funzionali alla tenuta della società. Ho buoni motivi per ritenere che se avessimo a disposizione dati sufficienti potremmo constatare che le curve della distribuzione del potere, dell’intelligenza, della cultura e della “civilitas” si sovrapponevano quasi perfettamente. Penso alla distanza abissale fra Seneca, l’uomo di potere, e i suoi contadini o fra la corte di Leone X e il popolino romano o fra Robespierre che organizzava la ghigliottina e le tricoteuses  che si godevano lo spettacolo. Il ceto senatorio romano, l’aristocrazia feudale o moderna, le élite a cui si riferiva Pareto, con tutto il loro egoismo di classe o di casta erano pur sempre una kalokagathia, piaccia o non piaccia, e la società che l’aveva espressa funzionava, e funzionava bene.

 Oggi, come scrissi in un mio libello diversi anni orsono, siamo nelle mani di una “anoetocrazia”, il governo degli imbecilli. Oggi qualunque studente di biologia o un oscuro medico di provincia fanno le pulci a tutti, dico tutti, gli pseudo scienziati che da un anno e passa ci vengono imposti dalla televisione e dalla carta stampata, un bravo alunno delle scuole elementari parla più correttamente di giornalisti e politici di chiara fama; ai nostri politici chiediamo di essere quantomeno all’altezza del  nostro vicino di casa o della prima persona che incontriamo per strada e se capita che qualcuno di loro sostenga  quello che è semplicemente ovvio, banale, evidente tiriamo un sospiro di sollievo, è una ventata d‘aria fresca e pulita in un clima irrespirabile. Alle posizioni apicali della giustizia si trovano personaggi impresentabili, inquietanti anche per l’aspetto, e non ci sorprendiamo se un ragazzotto appena laureato in legge riesce dove il meglio dei costituzionalisti ha fallito. Non va meglio fra i capitani di industria o i prìncipi della finanza. Ovunque persone dappoco, gente che ha trovato percorsi privilegiati ed è passata indenne da tutti i filtri. Tutto ciò non è senza conseguenze: l’arte, la musica, la letteratura dal dopoguerra ad oggi non hanno prodotto niente di paragonabile al lascito dei secoli precedenti: hanno chiamato progresso la crescita esponenziale dei consumi e dei falsi bisogni, la devastazione del territorio, l’imbarbarimento nei rapporti sociali, l’impoverimento culturale, il ricorso sistematico alla manipolazione della pubblica opinione. L’eredità di sofferte conquiste valoriali è stata dilapidata e svilita: la democrazia, la libertà, la dignità della persona sono diventate parole vuote come la tutela dell’ambiente, come la pace, la giustizia, l’equità sociale, i diritti.

  Parole vuote, obbiettivi screditati, fumo e retorica.  Pensiamo all’inquinamento: nessuno, almeno fra quelli che contano e hanno nelle loro mani il potere decisionale, confessa che la causa principale dell’inquinamento è la sovrappopolazione, che è anche all’origine della miseria, delle guerre e della pressione migratoria. Invece di promuovere una drastica politica di contenimento delle nascite in Asia, in Africa e nell’America latina si lamenta la scarsa natalità dell’Europa e in particolare dell’Italia. Si lagna perché la popolazione invecchia dimenticando che più aumenta il tasso di natalità più vecchi ci saranno in futuro e che l’unico modo per riequilibrare il rapporto fra generazioni è quello di mantenere al ribasso l’omeostasi del sistema demografico. La crescita, anche sotto questo aspetto, è un’idiozia. Destra e sinistra nostrane convergono nel condannare l’unica cosa buona del regime maoista: il controllo delle nascite, e si uniscono alla chiesa nella difesa a oltranza della procreazione sfrenata quando sarebbe necessario un piano mondiale per interrompere la dissennata natalità nei continenti extraeuropei a cominciare dall’Africa. L’altro tema sul quale si sbizzarrisce la politica – e intendo ovviamente la sinistra – è la parità di genere. La sinistra si è indebitamente appropriata dell’eredità femminista ed è approdata ad una “ideologia” dei generi che segna il punto più alto nello smarrimento del senso del ridicolo. Genere, diritti, discriminazioni e gusti sessuali.

Su questo terreno la pochezza culturale e intellettiva della politica, del giornalismo e degli “intellettuali” dà il peggio di sé quando confonde il genere con la struttura della personalità e, peggio, con le abitudini – e i vizi – sessuali. È perfino imbarazzante dover affermare l’ovvietà che il maschio che nei rapporti sessuali si comporta come una donna non per questo cessa di essere un maschio o che una donna che si sente maschio rimane una donna. La natura commette i suoi errori: come si formano feti con due teste o nascono femmine con tre mammelle e maschi con due peni o tre testicoli (quest’ultima è un’evenienza quasi normale), può esserci a livello cromosomico un’alterazione relativa alla connotazione di genere. Ma non è di questo che ci si preoccupa, non è questo che interessa nell’empireo della gauche mondiale, anche perché sono casi assolutamente eccezionali e di interesse squisitamente medico. Non sono le particolarità anatomo-fisiologiche quelle a cui guardano i tutori dei diritti ma non sono nemmeno le situazioni di effettivo disagio conseguenza di differenziazioni non ben definite dei caratteri secondari della sessualità maschile e femminile. Quello che li “intriga” sono i comportamenti erotici, tutto ciò che accade sotto le lenzuola, qualcosa di assolutamente privato che la chiesa e la morale borghese hanno voluto rendere pubblico e sottomettere a giudizi di valore o addirittura al codice penale.

E con la scusa di difendere presunti discriminati creano nuove barriere e nuove discriminazioni, alimentano tensioni, rompono equilibri faticosamente raggiunti, fanno riemergere antichi tabù. Il partito del peggiore conformismo, il partito della conservazione  – non della tradizione ma di privilegi usurpati -, l’alleato delle toghe, dei porporati, della grande finanza sposa una trasgressione di cartapesta, difende una diversità da carnevale, si intesta un patrimonio di civiltà al quale è completamente estraneo, finge di non sapere che le conquiste della civiltà non sono frutto della demagogia o di movimenti di massa ma della provocazione di pochi, del distacco dalla morale corrente pagato spesso a caro prezzo, dal non-conformismo di persone libere e non arruolabili, che non hanno nulla a che fare col finto anticonformismo chiassoso e di pura facciata che porta solo allo sbracamento etico e culturale. 

E questo sarebbe il Progresso, il Moloch dei progressisti, quelli di casa nostra e quelli della sinistra mondiale, gli adoratori della crescita all’infinito e dell’eterno sviluppo che ci riportano nel buio dell’ignoranza, della superstizione, dell’intolleranza.

  Pierfranco Lisorini  docente di filosofia in pensione  

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.