IL MALE DENTRO DI NOI

“L’ orientamento dell’anima verso il male o verso il bene ha una proprietà esponenziale. E’ questo il fondamento della sicurezza. Dunque non debbo lottare contro il male che è in me per mezzo del bene che è in me, ma per mezzo di un giusto orientamento dell’attenzione” (Simone Weil).

Simone Weil

Siamo sicuri che il male riguardi solo i delinquenti, gli assassini, i criminali di guerra e di pace, i falsari del metallo, della moneta, della persona e della  parola (per seguire la classificazione dantesca di una parte dei frodatori contro chi non si fida)? O dittatori nefasti come Hitler, Mussolini, Stalin e, oggi, come Putin, Lukascenka, Erdogan, Xi Jinping, Kim Jong-un, gli ayatollah iraniani, gli emiri arabi e del Qatar, e anche, per par condicio, politici occidentali come Orban, Trump e Bolsonaro? Chissà come giudicherebbe questi nuovi apprendisti stregoni la maggiore studiosa dei totalitarismi novecenteschi, cioè Hannah Arendt, per la quale, come  spiega nel suo reportage sul  processo al criminale nazista Adolf Eichmann celebrato a Gerusalemme nell’aprile del 1961, non è necessario essere mostri o insani di mente per collaborare con zelo allo sterminio di milioni di esseri umani. Fulvio Baldoino ritorna sulla sempre aperta questione giuridica, storica, psicologica, sociologica ed etica della banalità del male nell’articolo Se il male fa parte del normale uscito domenica scorsa su questa stessa rivista online. “L’espressione ‘banalità del male’, osserva  Baldoino, ha avuto un tale successo da sostituire il titolo originale (Eichmann a Gerusalemme) e diventare l’apposizione fissa per indicare ogni particolare evento di cronaca nera subito seguito dalla particolare situazione mentale di chi quella cronaca la segue e la pensa, e constata che gli atti più orrendi possono essere compiuti dalla persona (apparentemente?) più normale”.

Hannah Arendt

Certo è che le cronache dei quotidiani e, oggi, quello che viene riversato sui social sembrano dar ragione alle tesi della Arendt sulla banalità del male; prendiamo a caso alcuni titoli recenti di giornale: “Clochard innaffiato, muore la pietà” (12 novembre 2022); “Cinque adolescenti indagati per bullismo nel Napoletano. Un ragazzino si è tolto la vita, un altro ha tentato il suicidio. ‘Perseguitati dal branco’ “ (17 dicembre 2022); “Calci pugni e bastonate al nipote di 6 anni. ‘Spostavo mobili, ma lui non stava fermo’. Le percosse al piccolo in un  alloggio di Ventimiglia. Sotto inchiesta il nonno acquisito e la nonna che non è intervenuta a fermare il pestaggio. Ora il piccolo è in coma farmacologico nel reparto di Rianimazione dell’Ospedale Gaslini di Genova. in prognosi riservata” (30 dicembre 2022). La cosa che ci lascia esterrefatti in quest’ultimo episodio di violenza cieca e assurda, oltre al misfatto in sé, è l’atteggiamento inerte della nonna: come è possibile una simile passività di fronte al male? Questa anziana sessantacinquenne, fino a prova contraria “normale”, “comune”, “anonima” che, non accorrendo in difesa del nipote seienne, si è resa complice della malvagità del compagno suo coetaneo – trasformatosi all’improvviso (?) da  anziano signore come tanti nel “mostro della porta accanto” violento e dispotico – risulta, in piccolo, più affine ai tratti personologici di  Adolf Eichmann (cioè a un individuo, come scrive Baldoino, “che nessuno ha mai pensato di classificare come pazzo o come invasato, risolvendo così con il semplice ricorso alla follia; il tremendo, insondabile problema del male.”) che a quelli dell’altro Adolf affabulatore e manipolatore del popolo tedesco fino alle estreme conseguenze della catastrofe finale.

Su questo insondabile problema è tornato più volte nelle sue opere in prosa e in versi anche Primo Levi, come ad esempio, nella poesia “Il superstite”: “Dopo di allora, ad ora incerta, / Quella pena ritorna,  / E se non trova chi lo ascolti / Gli brucia in petto il cuore. / Rivede i visi dei suoi compagni / Lividi nella prima luce, /  Grigi di polvere di cemento, / Indistinti per nebbia, / Tinti di morte nei sonno inquieti, / A notte menano le mascelle / Sotto la mora greve dei sogni / Masticando una rapa / che non c’è. / ‘Indietro, via di qui, gente sommersa, / Andate.  Non ho soppiantato nessuno, / Non ho usurpato il pane di nessuno, / Nessuno è morto in vece mia. Nessuno. / Ritornate alla vostra nebbia / Non è mia colpa se vivo e respiro / E mangio e bevo e dormo e vesto panni”. Ma è soprattutto  nel suo ultimo libro,   I sommesi e i salvati uscito nel 1986, l’anno prima del suo suicidio, che Primo Levi ci fornisce una mappa o, se si preferisce, una bussola, per orientarci in quello che è stato il grande male del secolo scorso: il totalitarismo e il suo sistema concentrazionario, che può sempre  riprodursi, se non ci si fa la massima attenzione, a determinate condizioni. Nel capitolo intitolato “La zona grigia” viene affrontato il problema del coinvolgimento dei prigionieri con i loro carnefici, le modalità di compromissione  grazie alle quali c’è stato chi è riuscito a sopravvivere allo sterminio.

Primo Levi

Primo Levi parte dalla radicata tendenza manichea di dividere la società del Lager (e dell’umanità in generale) tra vittime e carnefici, tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra parte, senza considerare la varietà delle forme intermedie, lasciandosi sfuggire così le mezze tinte, le sfumature di grigio che si trovano tra i poli estremi del bianco e del nero. “E’ una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata e alberga in sé quanto basta per confondere il nostro potere di giudizio”. D’altronde nel Lager (come nel Gulag) vige la lotta di tutti contro tutti, la posta in gioco è la vita. Una volta messo in chiaro che la responsabilità è di chi ha creato e messo in opera questo sistema alienante, ovvero lo Stato totalitario nazista, Primo Levi  spiega come il sistema del Lager corrisponda a quello vigente nella Germania nazista, e come questo sistema si regga grazie al coinvolgimento e il compromesso di migliaia di individui che, pur di sopravvivere, di non venire imprigionati, torturati e poi magari anche uccisi, collaborano con il potere dominante.

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Primo Levi descrive la struttura di dominio del Lager, ma la questione riguarda tutti i sistemi totalitari del passato, del presente e del futuro: “L’ascesa dei privilegiati, non solo in Lager, ma in tutte le convivenze umane, è un fenomeno angosciante ma immancabile, assente solo nelle utopie”. La prima radice di tutto questo consiste nel potere che un gruppo ristretto, o anche un solo individuo, esercita nei confronti dei suoi simili. Il Lager diviene così una specie di laboratorio in cui si sperimentano le forme di asservimento e di compromesso con un potere dispotico. Inoltre  Primo Levi osserva che quanto più è ristretta l’area del potere, tanto più questo potere ha bisogno di ausiliari esterni; in tal modo, quanto più il potere ha bisogno di ausiliari esterni, tanto più dura è l’oppressione e tanto più si diffonde tra gli oppressi la disponibilità, e addirittura il desiderio, di collaborare con il dittatore di turno. Già, ma che cosa significa collaborare con il dittatore di turno se non assumere il suo stesso punto di vista, con tutto quello che comporta sul piano della responsabilità storica ed etica?

Nel capitolo ottavo della Banalità del male intitolato “I doveri di un cittadino ligio alla legge”, Hannah Arendt riferisce che: “Rispondendo ad altre domande Eichmann rivelò di aver letto la Critica della ragion pratica di Kant, e quindi procedette a spiegare che che quando era stato incaricato di attuare la soluzione finale aveva smesso di vivere secondo i principi kantiani, e che ne aveva avuto coscienza, e che si era consolato pensando che ‘non era più padrone delle proprie azioni, che non poteva far nulla per ‘cambiare le cose’. Alla Corte non disse però che in questo periodo ‘di crimini legalizzati dallo Stato – così ora lo chiamava – non solo aveva abbandonato la formula kantiana in quanto non più applicabile, ma l’aveva distorta facendola divenire: ‘agisci come se il principio delle tue azioni fosse quello stesso  del legislatore o della legge del tuo paese’, ovvero come suonava la definizione che all’ imperativo categorico nel Terzo Reich aveva dato Hans Frank e che lui probabilmente conosceva: ‘Agisci in una maniera che il Fuhrer, se conoscesse le tue intenzioni, approverebbe’ “. Ecco il punto cruciale: la banalità del male consiste nella deresponsabilizzazione, o meglio, nell’autoderesponsabilizzazione: se agisco per nome e per conto di qualcun altro, per esempio del Fuhrer, non sono più io che agisco, ma il Fuhrer stesso, e anzi mi sentirei colpevole se disobbedissi. Come dire che se io commettessi un delitto su commissione, il colpevole sarebbe solo il mandante! Altra questione è quella della pena, ma qui Beccaria docet. La questione della banalità del male, cioè “Se il male fa parte del normale”, è una questione ancora da approfondire. Quello che è certo è che il male non è fuori ma dentro di noi; altrimenti non si spiegherebbero né le guerre, né il sacrificio di tante vittime innocenti, né la corruzione dilagante, né i predicatori di odio che imperversano non solo sui social ma anche su certa stampa specializzata nella costruzione del nemico o dei nemici, come se non ce ne fossero già abbastanza in circolazione. Mai come in questo tempo avremmo bisogno di santi, ma, a quanto pare anche i santi, come gli dei, sono fuggiti. Almeno per ora.

Fulvio Sguerso

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