Il lavoro in tivvù

Il lavoro in tivvù
Sono nati recentemente alcuni programmi televisivi di grande successo, di cui mette conto parlare.

Il lavoro in tivvù

 Sono nati recentemente alcuni programmi televisivi di grande successo, di cui mette conto parlare. Due di questi sono su canali a pagamento, uno è sulla Rai. Tutti si occupano di lavoro, o meglio di sudditanza. Volendo forzare un po’ sui termini, i primi due sono di ispirazione pseudoprotestante (e infatti si tratta di format anglosassoni) e uno è di ispirazione pseudocattolica.

Il primo è Masterchef. Si tratterebbe di una sorta di accademia (almeno nella ricostruzione narrativa) severissima, dove un coacervo di personaggi si danna l’anima per cucinare piatti inconsueti dai nomi esotici e sottoporli al giudizio insindacabile di due cuochi e un oste. Il cerimoniale è inflessibile, disegnato benissimo: postazioni, attrezzature, tempi scenici, costumi, atteggiamenti. I giudici sono professionisti della ristorazione, vengono chiamati “Chef” e trattati con umile deferenza. Si tratta di due cuochi “stellati” (l’attributo va molto di moda, e indica l’assegnazione di uno o più asterischi da parte di una nota guida) e un extracomunitario parzialmente afasico, peraltro oste di grande successo. Il gioco procede per prove ed eliminazioni. I piatti vengono giudicati in situ e chi l’ha cucinato male viene “degradato” e cacciato dalla trasmissione.

 

Il secondo è “The Apprentice”. Qui si rappresenta la competizione tra alcuni giovani impiegati molto eleganti ed aggressivi, i quali ricevono un compito da svolgere (vendere, predisporre, organizzare) osservati, criticati e valutati da un sedicente imprenditore avanti con gli anni, famoso per alcune avventure milionarie e per la formosa giovane moglie dagli occhi penetranti, nonché per il figlio al quale è stato imposto un improbabile nome da farmacista serbo.

Anche qui i partecipanti si umiliano, e chiamano il signore anzianotto: “Boss”. Vengono chiamati da questo a fare autocritica, come nelle migliori sedi di partito dei tempi di Mao. I partecipanti non si lesinano complimenti: “Sono stupido”, “Mi sento inadatto”, “Sono stato superficiale, incapace a gestire”. Peraltro si abusa allegramente di anglismi e neologismi mutuati dalla lingua dell’Albione. Il quadro complessivo è quello dell’ambiente raffinato e della tortura. Si direbbe quindi il set di un film discutibile a soggetto sadomasochista.

 

Il terzo è “Boss in incognito” e non ha a che fare nulla con i primi due. Non si tratta di una competizione, ma di una reinvenzione del famoso “Specchio segreto” caro a Nanni Loy. Si prende il padrone di una certa ditta, lo si maschera da operaio, lo si mescola con la bassa manovalanza (e già qui c’è la malcelata soddisfazione dello spettatore nel vedere il capo sporcarsi le mani). Si individua nel gruppo di lavoratori chi si è comportato meglio, chi ha problemi umani, chi sa sacrificarsi, per la famiglia, per la ditta, e lo si premia di conseguenza. Ora, ci sarebbe da dire che lo Statuto dei Lavoratori (anche se ormai ha, nella sua efficacia, i giorni contati) dice che non si deve spiare un lavoratore con videocamere o microfoni. Ma tant’è: la televisione oggi può questo ed altro. Ma quest’ultima annotazione è, tutto sommato, la meno importante.

Intanto sottolineiamo che le prime due trasmissioni fanno largo e regolare scempio della lingua italiana. Il linguaggio è semplice, ordinario, superficiale, pieno di termini specialistici che fanno sentire molto introdotti nell’ambiente. Quando i protagonisti parlano “ex copione” si sente: hanno proprietà, articolazione e struttura. Quando improvvisano latrano forte raccomandazioni, redarguiscono, arrivano a un millimetro dall’insulto. L’extracomunitario del programma di cucina, non avendo dimestichezza con la lingua, spesso si esprime con le mani, lanciando piatti, forchette, o direttamente il cibo per l’aria. È però detentore di una involontaria ironia che lo rende riconoscibile.

 

Specifichiamo ancora una cosa che potrebbe essere dimenticata: lo scopo della trasmissione è, ufficialmente “trovare il nuovo masterchef”  o “trovare il nuovo apprentice”, cioè selezionare, mediante una gara, una persona meritevole. Naturalmente non è vero: scopo di qualsiasi trasmissione televisiva è fare ascolti, e di conseguenza aumentare la raccolta pubblicitaria. Questo non va mai dimenticato, se fosse vero il contrario ci ritroveremo Maria de Filippi al ministero dell’educazione e della ricerca scientifica, e questo, con tutto il rispetto per la professionalità televisiva della dottoressa de Filippi, sarebbe una sciagura frutto dei tempi.

Perché ho messo in relazione queste tre trasmissioni televisive? Perché tutte e tre rappresentano il lavoro, o meglio il rapporto tra datore di lavoro e dipendente. Nelle prime due trasmissioni viene celebrato continuamente il successo degli imprenditori della gastronomia o dell’imprenditoria in genere. Di un cuoco si dirà, fra l’altro, che: “Ha appena aperto un ristorante ad Hong Kong”. Il lavoro è, secondo una interpretazione protestante, come una preghiera, e il fatturato (o il successo commerciale ed economico) è il coronamento di una vita degna, pia, dedita al bene. Giusto o sbagliato che sia, questi principi sono riportati in un ambito molto povero di altri valori, per cui si nota solo più il successo per il successo, la fama per la fama, i soldi per i soldi. Forse Lutero e i suoi discepoli pensavano a qualcosa di più complesso e organico che un auto lucida e una moglie eternamente giovane.

Gli aspiranti cuochi (gente comune nella quale è facile immedesimarsi) restano in stupita adorazione per questi esperti dell’entrecote, come fossero premi nobel, come fossero fulgidi esempi di studio, santità, coerenza politica (cito valori dallo scarsissimo peso economico…).

Della terza trasmissione, dicevo prima pseudocristiana, viene fuori il buonismo peloso del padrone per il dipendente, poverino, meritevole di incoraggiamento, di premio. Anche qui, c’è da dire, ben ad altro e a qualcosa di più pensavano le più illuminate menti della chiesa cattolica quando scrivevano la parola “lavoro”. Io mi limito a notare che, più in generale, il premio si dà al concorrente e non al dipendente. Questo va retribuito per il lavoro che svolge. Se poi il dipendente (come in una puntata) è un padre di famiglia che, rimasto vedovo, eroicamente (e lo scrivo senza retorica) cresce da solo la sua famiglia, la mancanza non è del datore di lavoro, ma di uno stato che perde ogni giorno di più la sua funzione. L’amministrazione pubblica non ha risposte per questo padre. O se le ha, sono piccole cose complicate, sempre molto asettiche, formali, insufficienti. La cultura del pietismo, la retorica del buon padrone come un padre di famiglia, distraggono dai doveri che una società compiuta, rappresentata nei fatti dall’amministrazione statale, dovrebbe avere per chi è in difficoltà. Aiuto e contributo non sottomesso a nessun giudizio morale.

In ogni caso il lavoro è rappresentato come sudditanza, disponibilità massima, spirito di sacrificio per l’azienda, dedizione al boss, allo chef, al capo, al marchio, al fatturato. Da tutta questa rappresentazione è definitivamente espunta quella che alcuni nostalgici definiscono ancora lotta di classe. Ma non solo: siamo scesi ad un grado ancora più basso, per cui il lavoro non ha quasi più nessuna dignità. Se non sei un imprenditore non sei nessuno. Se non sei un imprenditore di successo “sei fuori”, per via di una sorta di selezione naturale sei destinato al naufragio, ad essere menzionato con disonore, ad essere allontanato.

Tutto questo, nel contesto di un lavoro sempre più scarso, sempre più precario, sempre più complesso da guadagnare e da mantenere, dove i diritti vengono rimessi in discussione ogni giorno e le condizioni peggiorano sempre di più, dove l’unica iniziativa politica sembra essere il ricorso a rimborsi, cassa integrazione, redditi di cittadinanza; dove ci viene ripetuto sempre più spesso, a proposito di un lavoro duro e mal pagato: “Ancor grazie!”, tutto questo forma le nuove generazioni a sentire il lavoro come debito, come vuota partecipazione e dispendio della propria forza, del proprio tempo, ma mai, mai come un diritto e una fonte di dignità.

Concludo concedendomi un poco di retorica: se questi modelli rappresentano grandi imprenditori di successo che hanno tutto da insegnarci, allora cos’era mio nonno (come quasi tutti i suoi coetanei) che con un pezzo di terra e due vacche (ed una moglie forte come lui) ha cresciuto figli senza aiuti che non fossero le braccia di un vicino di casa?

ALESSANDRO MARENCO

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