I nodi al pettine

  Sarà pure vero che con Draghi a capo del governo l’Italia ha recuperato un minimo di credibilità internazionale ma resta il fatto incontrovertibile che si è fatto strame della democrazia, parlamentare o no.  Il parlamento a maggioranza grillina è ormai solo una finzione: il potere politico è nelle mani di un triumvirato formato dalla Lega di Salvini, il Pd di non si sa chi e da Draghi, che è apparentemente l’uomo solo al comando. I grillini sono assolutamente ininfluenti, possono fare i capricci sulla riforma della giustizia ma sono un’imbarazzante somma di nullità in stato confusionale, icasticamente rappresentati dal loro aspirante capo, quel Giuseppi che appena appare fa tornare alla mente un vecchio film che si intitolava “Sotto il vestito niente”.  

Ora Grillo dichiara apertamente quello che ha sempre saputo e che avrebbe dovuto sapere anche il capo dello Stato, quando incautamente dopo la defenestrazione di Salvini e la fine manovrata del governo gialloverde conferì a un ectoplasma l’incarico di formare un governo il cui senso era unicamente quello di consentire ai piddini bastonati dall’elettorato di riprendere in mano le redini del potere. Il risultato finale è quello al quale assistiamo:  il commissariamento della democrazia, che poteva essere salvata solo tornando alle urne quando era il momento; e se l’argomento farisaico che i numeri consentivano o addirittura costringevano a mantenere in vita la legislatura, i risultati delle elezioni amministrative – non i sondaggi –   mostravano con solare evidenza che quei numeri non corrispondevano alla realtà politica del Paese, senza dire che l’implosione dei Cinquestelle era già in atto nel momento in cui al loro interno si era realizzato il tradimento del patto di governo con la Lega su mandato di Bruxelles e con altolocate complicità.

Ma un servo sciocco non rende un buon servizio al padrone e se la prospettiva di un’Italia a guida leghista preoccupava l’Europa, l’alleanza atlantica e l’amico americano, i fatti hanno dimostrato che il vuoto politico nel Belpaese compromette la stabilità di tutta l’Unione e dell’alleanza atlantica in un momento molto delicato, col dragone irrequieto che continua a sputare lingue di fuoco. Ed ecco il salvatore dell’Italia o piuttosto dell’Europa, il destinatario più affidabile dei fondi che ci legheranno mani e piedi, noi e i nostri nipoti, il de profundisdella nostra sovranità, l’esca alla quale tanti nel centro destra hanno abboccato col pretesto della crisi innescata dal Covid, che, non a caso, la sinistra globale fa di tutto per enfatizzare. La verità inoppugnabile è che un’economia non si salva con fondi provenienti dall’esterno ma, se ci sono, con l’energia, l’operosità e l’intelligenza interne. Del resto la ventata di ottimismo suscitata dalla campagna vaccinale e dalla contestuale liberatoria uscita di scena di Conte e del suo sgangherato esecutivo ha ridato fiato a settori strategici dell’economia italiana prima che sia arrivato un centesimo dall’Europa e che il refrain del piano Marshall intonato quotidianamente dagli azzurri – nel senso dei berluscones – avesse una qualche riscontro reale. Purtroppo i soldi dall’Europa arriveranno davvero e ci resta solo da sperare che facciano il minor danno possibile, anche se la cosa migliore sarebbe rispedirli al mittente; resta il fatto che spacciare per un’idea buona e giusta quella di avere prima i soldi – in prestito – e poi studiare il modo di spenderli si spiega solo con la bramosia di metterseli in tasca.

E siccome spesso il diavolo fa le pentole ma non i coperchi rimane anche la possibilità che l’Italia si consegni a un padrone che nel frattempo si è dissolto perché anche gli gnomi che ispirano Bruxelles devono fare i conti con gli equilibri politici nel continente e con la tenuta dell’asse franco-tedesco. Se, infatti, l’esito delle elezioni italiane del 2018, vanificato dall’inconsistenza del personale politico pentastellato  ma rivelatore degli umori dell’elettorato italiano deluso da Forza Italia ma ansioso di liberarsi definitivamente di ciò che resta dell’eredità del comunismo, aveva spaventato l’establishment europeo, è ormai evidente che tutta l’opinione pubblica europea è disgustata dalla cosiddetta sinistra,  arroccata all’interno del sistema finanziario e incapace di comprendere e interpretare i bisogni reali delle persone reali. Mi auguro che questo disgusto non prenda una brutta piega, come è già accaduto in passato, e che sull’emotività prevalgano razionalità e pragmatismo, quali finora in Italia hanno guidato l’azione politica di Salvini, al netto di rosari e di mojito.

In quest’ottica sembra operare lo stesso Draghi, sul quale pesa però il peccato originale dell’agosto 2019, quando le camere avrebbero dovuto essere sciolte dopo che si fosse, per correttezza formale, saggiato la possibilità di un governo a guida centrodestra. Non averlo fatto ha voluto dire consegnare il Paese per oltre un anno a una banda di incapaci ed esser costretti poi – grazie all’uomo di Rignano – a riparare al danno con uno sfregio alla democrazia parlamentare, o, meglio, alla democrazia tout court.  E francamente, se capisco e condivido il sollievo per l’essersi liberati di Conte e di tutto il suo codazzo, da Arcuri a Bonafede (ma non di Speranza), non mi pare che ci sia tanto da gioire per l’attuale assetto istituzionale, più simile a quello di uno Stato africano che di un Paese civile, quali che siano le personali qualità del presidente del Consiglio. Chi dobbiamo ringraziare?

  Pierfranco Lisorini  docente di filosofia in pensione  

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