I mestieranti della politica

I mestieranti della politica

Ci sarà mai in Italia una vera democrazia?

I mestieranti della politica

Ci sarà mai in Italia una vera democrazia?

 Qualche giorno fa Beppe Severgnini sulle colonne del Corriere passava in rassegna le personalità di spicco in diversi settori della società civile di cui fregiano le liste di tutti i partiti e denunciava la loro incompatibilità col mestiere di rappresentante del popolo che, scriveva, richiede un impegno a tempo pieno. Si può essere d’accordo con lui riguardo al malvezzo di usare la popolarità acquisita per motivi diversi come specchietto per le allodole, non tanto perché cantanti o giocatori di calcio, almeno che non siano decotti, continueranno la loro redditizia attività e si faranno vedere ben poco sui banchi del parlamento ma perché trattare la politica come un prodotto da vendere col supporto di un testimonial rappresenta una degenerazione della democrazia. Quello che però va rifiutato con la massima energia è l’idea, che a Severgnini sembra un’ovvietà, che quello di rappresentante del popolo sia un mestiere.


È già un’aberrazione che il sindacalista smetta di lavorare e non metta più piede in fabbrica o in ufficio ma si può, con fatica e in piccola parte, giustificare col suo essere diventato un tecnico dei contratti; ma se dovesse passare il principio che senatori e deputati sono tecnici della legislazione, esperti nel fare le leggi, a parte il fatto che ne basterebbero una dozzina, dovrebbero essere assunti per concorso e non avrebbe più senso parlare di democrazia. La politica è un’altra cosa, è la cittadinanza attiva – espressione cara ai compagni che la ripetono come pappagalli ma ne ignorano il significato –, non è concettualmente qualcosa che riguarda qualcuno sì e altri no. Di norma gli uomini si realizzano in ciò che fanno, non solo nel lavoro ma nei comportamenti quotidiani, nelle loro relazioni, nelle loro prestazioni o nei loro hobby. Su questo terreno uno vale uno, come dicono i grillini, all’interno di una tranquilla disuguaglianza: più bravi e meno bravi, più fortunati e meno fortunati, ecc. Ma poi ci sono gli ottimati, gli àristoi, quelli più uguali degli altri, gli eletti, che una volta lo erano grazie alla nascita e ora lo sono grazie al voto, nemmeno dato a loro ma al partito. Ed è questa una tentazione antica, questo volersi distaccare dalla massa, illudersi di essere diversi e cercare di convincere il popolo oscuro e senza nome di esserlo per davvero. Finché sono attori, giocatori di pallone, nuotatrici o cantanti, i semidei dell’olimpo della celebrità, che in qualche modo interpretano i sogni o le aspirazioni dei comuni mortali, non c’è niente di male; anzi, per molti essi esercitano una funzione terapeutica e in fondo sono anche un collante sociale. Ma i politici no. Il puro e semplice esercizio del potere, che legittimamente appartiene solo al popolo, quindi, in pratica, a nessuno, quando diventa mestiere trasforma le istituzioni in una lestocrazia, cioè in un governo di ladri, e in una anoetocrazia, cioè in un governo di imbecilli. Ed è, lo ripeto, una storia che si ripete e contro la quale periodicamente bisogna combattere. Sono passati mille e cinquecento anni da quando Boezio, che non parlava per sentito dire, osservava che ricoprire cariche pubbliche non rende gli uomini migliori ma semmai esalta la loro miseria ed è inutile che ci si indigni nel vedere come queste tocchino il più delle volte alle peggiori canaglie: fit ut indignemur eas saepe contigisse nequissimis hominibus, perché sono proprio i peggiori ad essere attratti dalla politica, intesa come potere. E Severgnini considera normale farne un mestiere, renderli inamovibili, farne l’orrenda caricatura della nobiltà di cui le grandi rivoluzioni ci hanno liberato.


Ma qual è il potere che attira tanti miserabili ed è all’origine dello spettacolo osceno offerto da partiti e partitini in questi giorni? Fosse solo ambizione di persone inconsapevoli della loro pochezza, con un ego che il confronto con la realtà non ha mai modellato e dimensionato, sarebbe già un male e un pericolo per la collettività. Ma non è, nella generalità dei casi, nemmeno questo, è qualcosa di più gretto e di sordido: il miraggio dei dieci o quindicimila o fossero anche cinquemila euro che si sentono in tasca gli aspiranti deputati e senatori. E, a proposito di senatori: se tutto il regime, compreso il Capo dello Stato, tifava per le riforme istituzionali volute da Renzi, cioè per l’abolizione del senato, com’è che si continuano a nominare senatori a vita? Non ci sono altre forme di riconoscimento, magari meno onerose per il contribuente?

L’autentico rappresentante del popolo, espressione del popolo e non dei partiti, assume la carica per spirito di servizio e per la tutela degli interessi di chi ha riposto fiducia in lui, senza altro compenso che il rimborso delle spese sostenute per svolgere il suo mandato, al termine del quale torna alla sua vita e, se l’aveva, al suo lavoro. Di Maio, e non solo lui, pensa che la presenza nelle liste dei Cinquestelle di militari, impiegati, insegnanti, atleti o gente dello spettacolo basti per garantire la rappresentatività della società civile. Non lo sfiora l’idea che la società civile è rappresentata se e soltanto se ha gli strumenti per esprimere la sua voce e scegliersi i candidati che la rappresentano.


Questi strumenti in Italia non ci sono: le comunità e gli individui che sono il soggetto della politica non hanno voce, sono ridotti al silenzio. L’italiano è un suddito, lo è in questa brutta copia di democrazia come lo sarebbe in una monarchia assoluta; a nessun livello chi si arroga la pretesa di rappresentarlo lo rappresenta davvero, non esiste un circuito di retroazione nemmeno in un consiglio di quartiere. La democrazia, per essere veramente tale, nasce e si sviluppa dal basso, ed è dal basso che si gettano le fondamenta dell’edificio istituzionale. La democrazia octroyée non funziona. Comitati di quartiere, associazioni professionali, circoli culturali, gruppi di lettura, organismi e gruppi che in qualunque ambito e con qualunque scopo particolare realizzano l’incontro delle persone e la libera circolazione delle idee, sono loro, insieme a partiti che abbiano la loro ragion d’essere sul territorio, l’humus della coscienza politica e democratica. Loro dovrebbero esprimere le persone che più che l’onore e le prebende assumono il peso e la responsabilità di legiferare nell’interesse del Paese. Quando i partiti sono lobby impenetrabili, comitati d’affari o cellule di un’organizzazione lontana, non sono strumenti della democrazia ma ne sono i peggiori nemici. Ed è da loro che scaturisce il mestierante della politica.


Grazie al cortocircuito con l’informazione le meteore della politica sono diventate stelle fisse e intramontabili. Signori come Romano Prodi, D’Alema, De Mita non si sa a che titolo continuano ad occupare le pagine dei giornali e gli schermi televisivi, a propinarci non richiesti pareri e a pontificare. Ma chi sono e cosa rappresentano? Posso capire che di tanto in tanto si torni a parlare di Umberto Bossi, uno che ha creato un movimento politico importante, uno che rappresenta delle idee, che personalmente reputo sbagliate, e aveva imposto una sua visione della “Padania”, criticabile quanto si vuole ma pienamente legittima. Ma Prodi? La memoria corre alla botanica e alle formule politichesi che hanno senso – anzi, hanno avuto senso – solo all’interno dei partiti. Che impatto può avere sui problemi del Paese l’Ulivo e che importanza hanno, ora, le parole di chi l’aveva inventato? Gli stessi di Massimo D’Alema o del vegliardo Ciriaco, che l’età non piega verso riflessioni meno banalmente contingenti. Non va meglio con quel Saviano, che per aver pubblicato un paio di libri fortunati ma che difficilmente troveranno posto nella storia letteraria del nostro Paese, viene imposto con la sua faccia e i suoi pareri, come se valessero più di quelli del primo sconosciuto che incontro per la strada.


Ma il giornalismo in Italia è profondamente malato. Basta dire che il giornalista-tipo, invece di preoccuparsi di documentare, svelare, scovare i fatti e i misfatti, prima pretende di essere un opinion maker, poi si mette al servizio di una parte politica e anche lui lo troviamo in coda a piatire un posto in parlamento. E non dico niente dei magistrati, ai quali dovrebbe essere rigorosamente impedito di iscriversi a un partito o dichiarare un’appartenenza o anche una semplice simpatia politica, i magistrati, scelti e pagati per essere servitori imparziali della legge, che sono diventati un ambito fiore all’occhiello di tutti i partiti.

E continuo a chiedermi: ma se chi fosse investito di una carica politica dovesse fornire alla comunità il proprio contributo senza avere in cambio niente altro che la coscienza di aver compiuto il proprio dovere di cittadino, ci sarebbe stata nel Pd, fra i Cinquestelle, in Forza Italia e, presumo, in tutti gli altri partiti l’indegna gazzarra per un posto in lista o un collegio sicuro?

    Pier Franco Lisorini

 Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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