Fuggire a Samarcanda?

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Si parla di libero arbitrio e se ne difende l’idea perché senza di essa sarebbe molto più problematico e forse impossibile organizzarsi socialmente.
La società, la politica, la giustizia, i rapporti interpersonali, risulterebbero privi di quella convinzione che assumersi delle responsabilità comporta in termini di garanzia reciproca.
Quindi non si vuole ammettere e si scotomizza anche solo l’ipotesi di una coesistenza in cui non ci si rapporti agli altri ( familiari, colleghi, istituzioni… ) sulla sottintesa base della responsabilità personale.
La messa in discussione del libero arbitro, e conseguentemente appunto della responsabilità, la si sopporta solo confinata nel privato di una meditazione filosofica o di una indagine psicologica. Sopporta; ma non la si supporta veramente mai.
Già se si trattasse di una convinzione intima, lo stesso soggetto che la nutrisse dovrebbe agire in modo scisso, disattivandola nel momento in cui necessitasse di immergersi nel flusso del quotidiano.
Allo scopo la strategia è quella di scambiare la convinzione con la convenzione, la quale ultima, in verità, è spesso una convenzione antica e reiterata.
Ciascuno, più o meno confusamente, lo fa, e facendolo dà per scontato, anzi, pretende, che lo facciano pure gli altri. Pronto ad addebitare loro il tradimento di un patto ritenuto naturale perché maggioritario, nella sua caratteristica di segreto condiviso e sottaciuto.
Ma portiamo la speculazione esistenziale nel posto che superate le convenzioni le spetta, e che le sarebbe più consono e naturale, ovvero nell’esistenza e per l’esistenza. Ed ecco che proprio i fatti della quotidianità vengono a rappresentare il terreno di confronto, gli ostacoli con i quali misurarsi e mettere in dubbio, o magari proprio in crisi, il consolidato flusso della quotidianità stessa; quello da cui e dentro cui sentiamo di avere gli strumenti per valutare le cose.
Vedremo allora che lo speculare non concernerà più l’astrazione sui massimi sistemi, quella sorta di arzigogolata arte combinatoria dei concetti per cui tutti abbiamo sorriso compiaciuti almeno un po’ e consentito alla stroncatura ironica secondo cui la filosofia sarebbe “quella cosa per la quale e dopo la quale tutto resta tale e quale”.
Apparirà invece che anche per le scelte più concrete varrebbe la pena una volta ogni tanto di saggiarne la radice, la tenuta e la tempra, e perciò di chiedersi se davvero resiste l’idea di essere il “sé” che ci attribuiamo, quel nocciolo duro che in definitiva, tolto ogni attributo, pretendiamo resti come sostrato ontologico di noi, come essere unico e distintivo, anche se avessimo avuto altri maestri, frequentato altre persone, letto altri libri, e fossimo nati in un altro paese dove si parlava un’altra lingua e adorava un altro Dio.
Prendiamo il fenomeno dell’innamoramento che, data la sua frequenza in letteratura, ci offre una gamma enorme nella scelta di casi i quali, in quanto romanzati, assumono un surplus di emblematicità. Nella fattispecie, il caso di Giorgio, il protagonista del romanzo “Fosca” di Igino Ugo Tarchetti.
Ebbene, Giorgio è irresistibilmente attratto da Fosca. Non sa spiegarsi perché. E’ una forza più forte di lui che lo spinge.
Lei è di una “bruttezza orrenda” con quella testa così sproporzionata rispetto al corpo, con le ossa delle tempie e gli zigomi così spaventosamente sporgenti; ma Giorgio nonostante provi ripugnanza per la condizione di estrema magrezza in cui l’ha ridotta la malattia, constata di non riuscire in nessun modo a liberarsi dall’attrazione che questa donna epilettica, anoressica e mentalmente instabile esercita su di lui, stravolgendo la sua vita, il suo lavoro e la pregressa relazione sentimentale con Clara.
Solo la morte di Fosca sembra aprirgli uno spiraglio per farlo ritornare in sé dopo l’espropriazione di sé che lo stava precipitando nella pazzia.
Possiamo ora porci la domanda se a prescindere dal desiderio e dalla convenienza, davvero il libero arbitrio sia libertà o non piuttosto l’inganno della nostra insopprimibile esigenza di sentirci padroni di noi stessi.
O, con una domanda più pratica, se sia utile fuggire a Samarcanda.
Fulvio Baldoino