Fra doppia verità e semplice menzogna

Premessa: se in un Paese – diciamo in Italia – ci sono due fazioni contrapposte – per esempio: antifascisti e nostalgici del fascismo – chi non parteggia per la prima non è detto che parteggi per la seconda. È un principio fondamentale della logica, familiare anche ad un analfabeta con un po’ di sale nella zucca. Ma purtroppo il buon vecchio Cartesio aveva torto nel credere che le bon sens fosse patrimonio comune di tutti gli uomini; è vero il contrario, è merce rara, soprattutto in questi tragici, o tragicomici, tempi che sanciscono la dittatura del politically correct e del Pensiero Unico.

O stai di qua o stai di là, bianco o nero: un’infantile interpretazione di un altro principio logico: tertium non datur, in forza del quale o stai di qua o non stai di qua, che una cosa un po’ diversa, così come l’alternativa a “bianco” non è nero ma qualunque altro colore. Così se scrivo resistenza con la minuscola non significa che sia schierato con le SS che davano la caccia ai partigiani – banditen per i tedeschi -, se sono consapevole delle qualità straordinarie di Mussolini non per questo ne condivido le scelte o sono un suo ammiratore. Quel che manca nella crème e in chi la scimmiotta è per l’appunto la familiarità con quei principi logici di base, che non sono solo l’architrave dell’intelligenza, vale a dire della capacità di intendere, ma rendono possibili il distacco, l’ironia, la libertà interiore e il piacere impagabile di sentirsi diversi. Non della diversità fasulla, spettacolarizzata, triviale di quelli che si illudono di essere trasgressivi se trasgrediscono il buon gusto o la buona creanza: la pornolalia o la pornografia non hanno nulla di trasgressivo. E non c’è niente di liberatorio nel bacio fra due uomini o nel mimare sul palco un coito omosessuale: questo non è un modo per épater les bourgeos ma per lisciargli il pelo, scendere al loro livello, perdere i filtri, svaccare. Se lo dico sono un perbenista, un bacchettone, un moralista? ma per carità. A questo proposito ho molto apprezzato l’amico – mi consenta di credermi tale – Pellifroni quando ci ricorda la carica erotica che sprigiona da una gonna leggermente sollevata e celebra la lode del feticismo: gli sciocchi scambiano i sottili richiami sessuali per pudicizia da educande o repressione. E, per tornare al trasgressore, quello autentico, lui va controcorrente, non cavalca l’onda come un surfista, e qualche volta rischia.

C’è un solo antidoto all’asservimento della coscienza, alla perdita della libertà interiore e dello spirito critico: la cultura. Che non si forma semplicemente leggendo dei libri ma ascoltando, confrontando, mettendo in dubbio, cercando altre strade oltre quella tracciata e non prendendo per vero se non quello che è falsificabile e regge al tentativo di falsificazione (mi si perdoni se ho mescolato Cartesio e Popper). E soprattutto col coraggio, vincendo la paura dell’isolamento e, appunto, della trasgressione.

PUBBLICITA’

Se un personaggio autorevole come il capo dello Stato condanna il tentativo di smontare il castello di carte della storiografia postbellica, che ha sorvolato sul tradimento, ha ingigantito il ruolo e i numeri della resistenza, ha taciuto sugli eccidi perpetrati dai partigiani, ha ignorato il rapporto fra titini e comunisti italiani, ha rimosso fin che ha potuto la tragedia dell’esodo e delle foibe, ha mentito sugli obiettivi dei partigiani comunisti e non ha visto il rischio che l’Italia fosse disarticolata e cessasse di esistere come Stato unitario, se, ripeto, chi lo Stato dovrebbe rappresentarlo condanna come revisionista (nel senso sovietico) il tentativo di ristabilire la verità non resta che concludere che la nostra democrazia è costruita sulla sabbia.
Una vera democrazia non ha bisogno di un fondamento mitico, come “la lotta di liberazione dal nazifascismo”. Si deve avere il coraggio di dire che quella è una baggianata da quattro soldi perché il fondamento della nostra democrazia, della costituzione repubblicana, è tutto e soltanto nel voto popolare: nel referendum del 2 giugno 1946, così come si deve poter dire che il regime fascista cadde per un voto del Gran Consiglio del fascismo la notte del 25 luglio 1943, non per una sollevazione popolare: il fascismo si è suicidato e il regime emergenziale del nord occupato dai tedeschi non l’ha di certo resuscitato ma semmai ne ha certificato la morte. E non si attribuiscano al Ventennio mussoliniano i disordini, le violenze, i morti ammazzati rossi e neri che precedettero la marcia su Roma e che per i 600 giorni di Salò accompagnarono l’avanzata verso nord degli alleati e proseguirono anche dopo che col ritiro dei tedeschi dall’Italia, il fallimento del Ridotto della Valtellina e l’uccisione di Mussolini la guerra era praticamente finita. Un mio cortese contraddittore ha scritto su questi Trucioli di “migliaia di cittadini uccisi, feriti, picchiati, torturati durante il Ventennio ”; mi permetto di dire che ci sono altri argomenti per dissentire dal regime fascista (che si affiancò alla monarchia sabauda ma non la sostituì) senza bisogno di ricorrere a iperboli degne del barone di Munchausen. Così facendo si riduce a chiacchiera da bar la condanna di un regime autoritario, come se non ci si fidasse del ragionamento, del richiamo allo stato di diritto, del rifiuto del consenso demagogico perché hanno poca presa su cittadini che badano prevalentemente al loro particolare. Le bugie non diventano verità anche quando vengono ripetute infinite volte e quando vengono sposate ne generano altre fino a sconfinare nel delirio, come quando si arriva a sostenere la continuità della strage (non stragi) di Torino ad opera di scherani sfuggiti al controllo di Piero Brandimarte, il militare che aveva organizzato la rappresaglia per l’uccisione di due squadristi nel dicembre del 1922, col campo di sterminio di Auschwitz. Un accostamento che va oltre l’iperbole: una bestialità, mi si perdoni la durezza ma io sono cresciuto in fraterno sodalizio con ragazzi ebrei e non tollero che venga assimilato un episodio esecrabile quanto si vuole ma che va ricondotto al clima di violenze al quale, se la vogliamo dire tutta, proprio Mussolini si impegnò a porre fine e che col Ventennio non ha niente a che vedere, con l’orrendo sistematico lucido piano di eliminazione del popolo ebraico, una macchia indelebile che non solo condanna Hitler e i nazisti tutti alla damnatio memoriae ma pesa come un macigno sulla coscienza di tedeschi, cechi, polacchi e, non dimentichiamolo, ucraini. E questa non è chiacchiera, sentito dire, narrazione di comodo ma terribile verità fattuale.

Gramsci e Matteotti

Credo che si debba poter dire senza infrangere tabù che se avesse potuto il Duce avrebbe strozzato con le sue mani gli imbecilli che rapirono Matteotti per dargli una lezione e ne causarono la morte. Che si debba poter dire che Gramsci fu condannato da un tribunale troppo zelante a venti anni di carcere per associazione sovversiva ma non morì non per le torture subite, fisiche o psichiche, – come quella del 41bis -, tant’è che poté intrattenere regolari con la cognata, inviare lettere ai familiari in Russia, scrivere, tenere lezioni, leggere e acquistare libri ma – purtroppo capita – di malattia quando a distanza di cinque anni dalla condanna a venti anni di carcere si trovava in regime di libertà condizionata. E che i primi a gioire della sua morte furono proprio molti fra i compagni, se è vero quello che gli disse il giudice istruttore: “onorevole Gramsci lei ha degli amici che la vogliono tenere un bel pezzo in galera”. Gramsci, non dimentichiamolo, era stato anche interventista, un dettaglio che i suoi biografi tendono a dimenticare, ed era soprattutto un uomo libero, parecchio lontano dalla disciplina mentale del compagno Togliatti, che morto Gramsci prese il partito nelle sue mani.

I fratelli Rosselli

Quanto ai fratelli Rosselli, vale la pena di ricordare che i rapporti interni ai fuoriusciti erano tutt’altro che idilliaci e non vedo quale vantaggio avrebbe tratto il regime dal loro assassinio. E, per concludere, nessuno nega il carattere liberticida delle leggi fascistissime del 1925, con le quali per altro il regime stroncò soprattutto le smanie rivoluzionarie dell’ala movimentista del partito diventato borghese e conservatore, nessuno nega il compromesso con la monarchia militarista e il concordato che lasciò alla Chiesa un’intollerabile invadenza nella società civile che si riflesse nella scuola e nella indissolubilità del matrimonio e nessuno nega la presenza di una polizia politica paranoica e spiona. Più complesso è il tema dei partiti, che, non dimentichiamo, non erano per nulla protagonisti di una dialettica democratica ma impegnati a sovvertire l’ordine sociale e l’assetto istituzionale. Se qualcuno mi chiede: perché i partiti di opposizione, socialisti, comunisti, repubblicani erano stati sciolti e messi fuori legge rispondo a muso duro: qual era il programma di socialisti e comunisti, non era forse quello di fare dell’Italia una repubblica sovietica, di abolire la proprietà privata, espropriare, collettivizzare? non era quello di abbattere lo Stato borghese, la democrazia parlamentare? E gli italiani avrebbero preferito passare dalla padella tiepida di un regime tutto sommato morbido alla brace del comunismo che nella sua terra d’origine gareggiava per autoritarismo spietato e oppositori fatti sparire con la Germania nazista? (a proposito: nessuno dei nostri intellettuali, tuttologi, editorialisti si chiede che fine abbiano fatto gli oppositori in quella patria della democrazia che è l’Ucraina di Zelensky).

Pierfranco Lisorini

FRA SCEPSI E MATHESIS Il libro di Pierfranco Lisorini  acquistalo su…  AMAZON

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.