ELOGIO DEL DUBBIO A SENSO UNICO II

PRIMA PARTE
SECONDA PARTE

Dunque secondo il prof. Lisorini fede e ragione sono incompatibili tra loro: l’una esclude l’altra. Secondo il catechismo della Chiesa Cattolica, invece: “Partendo dalla creazione, cioè dal mondo e dalla persona umana, l’uomo, con la sola ragione, può con certezza conoscere Dio come origine e fine dell’universo e come sommo bene, verità  e bellezza infinita.”  Anche secondo la Costituzione dogmatica Dei Verbum del Concilio Vaticano II: “Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza con il lume naturale dell’umana ragione a partire dalle cose create; ma (il Concilio) insegna anche che è merito della rivelazione divina se ‘tutto ciò che nelle cose divine non è di per sé inaccessibile alla umana ragione, può anche nel presente stato del genere umano, essere conosciuto da tutti facilmente con ferma certezza e senza mescolanza d’errore’ (Conc. Vat.I)”.

Entrambe queste  asserzioni conciliari presuppongono   l’esistenza di un Dio creatore del cielo e della terra, degli animali, delle piante e dell’uomo, insomma dell’universo, e, riguardo alla conoscibilità di questo Dio, hanno come riferimento scritturale il primo capitolo della “Lettera ai Romani” di san Paolo, là dove l’Apostolo ha scritto: ”in realtà l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità: essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro vaneggiamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa”. Come dire che, dal momento che ogni uomo in quanto tale ha la capacità di conoscere Dio, solo chi non ragiona correttamente o è ottenebrato o stupido può pensare di non conoscere o rifiutarsi di conoscere quello che è conoscibile di Dio. Per questo i peccatori  impuniti, pagani o ebrei che siano,  non sono giustificabili e meritano di essere abbandonati alla loro stoltezza e al loro sonno della  ragione che, come sappiamo (e vediamo quotidianamente) genera mostri.

E’ quello che pensa anche Agostino che, nel De vera religione , tratta delle due vie stabilite dalla divina provvidenza per curare i mali dell’anima umana: l’ auctoritas e la ratio , cioè la fede e la ragione: la prima è premessa alla seconda, che accompagna e porta a compimento il cammino  conoscitivo  iniziato con un atto di fede; l’una è complemento dell’altra ed entrambe approdano all’unica verità. Così l’ auctoritas come  la ratio  partono dal punto in cui l’uomo peccatore  è caduto e dove può appoggiarsi per rialzarsi. Il metodo della ragione, secondo  Agostino, che ha assimilato la lezione platonica quasi si trattasse di una grandiosa opera preliminare e prodromica  al cristianesimo, muove dal piacere sensibile verso la sua causa ultima, cioè l’armonia perfetta. Per giungere a questa armonia il primo passo consiste nel  rientrare in se stessi: “noli foras ire, in teipsum redi; in interiore homine habitat veritas”. Però attenzione: interiorità non significa di per sé verità; questo significa che per raggiungere la verità oggettiva,  che non è creata dalla nostra ragione, è necessario trascendere anche se stessi trascende et te ipsum. La verità oggettiva  è riconosciuta dalla ragione  in virtù del suo intrinseco splendore (Veritatis splendor è anche il titolo  di un’ enciclica di Giovanni Paolo II). La questione del rapporto tra fede e ragione impronta di sé la teologia cosiddetta Scolastica perché era insegnata all’inizio nelle scuole diocesane e claustrali e in seguito nelle università. Padre della Scolastica è considerato Anselmo d’Aosta (Aosta, 1033- Canterbury, 1109) in quanto il suo insegnamento si basa sul  principio della Fides quaerens intellectum , variante dell’agostiniano Credo ut intelligam : non si intende per credere ma si crede per intendere.
Anche per Anselmo, dunque, fede e ragione costituiscono due vie che conducono a un’unica verità: possiamo leggere tre argomentazioni dialettico-deduttive a prova dell’esistenza  di  Dio nel suo Monologion mentre  la prova cosiddetta ontologica la troviamo nel Proslogion. Le tre prove del Monologion partono da un dato reale e dalla nostra esperienza sensibile e concreta ma  imperfetta, come d’altronde sono più o meno perfette le cose di questo mondo. Queste argomentazioni trattano del bene, dei gradi dell’essere e delle perfezioni  relative presenti in natura che presuppongono l’esistenza di una perfezione assoluta. Ciò malgrado Anselmo intende offrire una prova inconfutabile ed evidente al tempo stesso, alla quale nessuno possa negare il proprio assenso. Le tre prove del Monologion, pur ben congegnate logicamente, risultano troppo complesse e richiedono strumenti culturali non alla portata di chiunque; allora il padre della Scolastica concepisce la famosa prova ontologica. Questa prova, o argomento, non parte dall’esperienza sensibile ma dall’idea di Dio, definito come l’essere di cui non possiamo pensare niente di più grande.

La questione è quella di credere se un tale essere esista veramente oppure no, come crede lo stolto “che ha detto in cuor suo: Dio non esiste” (Salmi 13, 1). Come si fa a convincere lo stolto che l’essere di cui non si può pensare niente di più grande esiste anche nella realtà? Semplice: quando lo stolto ci sente dire che un  essere così fatto esiste veramente, dal momento che capisce quello che diciamo,  questo essere di cui non si può pensare niente di più grande, in cui non crede, esiste però nel suo pensiero. Una volta che lo stolto ammette di avere capito il significato dell’espressione sopra riportata capirà che un essere così fatto deve esistere anche nella realtà, altrimenti ci sarebbe un essere che oltre a esistere nel pensiero esisterebbe anche nella realtà e quindi sarebbe più grande. Diversamente da come immaginava Anselmo non tutti hanno giudicato convincente la prova ontologica; difatti per il monaco benedettino Gaunilone non basta che qualcosa esista nel pensiero, per esempio le isole beate, per dedurne l’esistenza anche fuori dal pensiero. Perché l’idea di Dio dovrebbe fare eccezione? Perché, risponde Anselmo, il passaggio dall’esistenza puramente mentale a quella reale è possibile e necessaria solo nel caso in cui si tratta dell’essere più grande che si possa concepire. Ragione per cui l’esempio delle isole beate fatto da Gaunilone non regge, dal momento che l’idea delle isole beate non comporta niente per cui l’intelletto sia costretto ad attribuire loro anche l’esistenza nella realtà, soltanto nel caso di Dio non si può pensare ch’egli non esista. Ora anche chi non riconosce la validità di questa prova, non può negare che la nozione di essere assoluto implichi anche la sua esistenza al di fuori del pensiero.

Anselmo d’Aosta

D’altronde se consideriamo l’alternanza di fortuna e sfortuna che l’argomento di Anselmo d’Aosta ha vissuto nel corso dei secoli fino ai giorni nostri (si pensi alla formalizzazione logico-matematica della prova elaborata da Kurt Godel) non possiamo negarle un solido fondamento. Tra gli autori che l’hanno rifiutata spiccano Tommaso d’Aquino, John Locke, immanuel Kant; tra chi, invece, l’ha ripresa ricordiamo  Bonaventura da Bagnoregio, Cartesio, Leibniz, Hegel.  Fermiamoci ora solo un momento su Cartesio, l’autore a cui fa riferimento il prof Lisorini, ma solo riguardo al suo dubbio metodico, passando sotto silenzio le sue certezze, tra le quali c’è quella dell’esistenza di Dio. Come fa Cartesio a essere così certo che Dio esiste? Perché crede alla validità dell’argomento ontologico di Anselmo. Una volta arrivato alla certezza incrollabile della sua propria esistenza grazie al cogito, ergo sum , l’ulteriore passo  consiste nel riconoscere  che la certezza del cogito è garantita dall’esistenza di Dio, pensato come essere buono e perfetto che non può ingannare nessuno e, in quanto perfetto deve anche necessariamente esistere anche nella realtà. Mi piacerebbe, se non è troppo chiedere, conoscere il pensiero del prof Lisorini su questo argomento. Passo e chiudo.


Fulvio Sguerso

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