Lezione di storia in un futuro prossimo

Sarà per deformazione professionale ma mi viene da mettermi nei panni del professore di storia che in un futuro più o meno lontano dovrà illustrare ai suoi studenti quello che sta accadendo oggi in Italia. Sta per iniziare la sua lezione con le parole: “l’Italia, dopo decenni di buoni e proficui rapporti, entrò in guerra contro la Russia per difendere l’integrità territoriale dell’Ucraina che non voleva cedere due regioni russofone secessioniste”; ma si blocca per non dover rispondere alla domanda: “Perché, che rapporto speciale c’era fra l’Italia e l’Ucraina, c’era forse un trattato del tipo di quello – per altro tradito – che legava l’Italia alla Germania e all’Austria prima del 1914?”. No davvero. E allora mentalmente modifica la frase: “l’Italia, che era uno stato a sovranità limitata, su ordine degli Stati uniti entrò in guerra con la Russia per difendere l’integrità territoriale dell’Ucraina”.

Ma di nuovo si ferma, anticipando l’obiezione: “ma che gliene importava agli americani dell’integrità territoriale dell’Ucraina?”. Potrebbe azzardare: “per difendere la democrazia”,  ma non vuol rischiare che i ragazzi che ha davanti si mettano a ridere. Le cose, infatti, lo sanno anche i suoi studenti, devono avere un senso, debbono essere spiegabili perché se qualcosa non è spiegabile non si verifica, punto.   E che un grande Paese come gli Stati Uniti mettesse a repentaglio l’ordine mondiale, i commerci, le attività manifatturiere, il turismo e arrivasse al punto di rischiare una deflagrazione planetaria per impedire che a migliaia di chilometri di distanza uno staterello creato a tavolino da meno di un secolo perdesse un pezzo di territorio che gli era stato assegnato per sbaglio era una palese assurdità. E per togliersi di imbarazzo il professore cambia argomento in attesa di vederci chiaro. Perché quando si raccontano le vicende personali come quelle collettive, dalla cronaca spicciola alla Grande Storia, il phylum che collega gli eventi deve comunque esprimere un senso narrativo.  Un senso narrativo che magari  non è riconducibile a un determinismo lineare, a una successione semplice di cause e di effetti ma  che può dipanarsi su piani diversi, complesso fin che si vuole ma comunque suscettibile di interpretazione.

Affermare come ha fatto Draghi  senza arrossire che l’Italia entra in conflitto con la Russia per difendere la nostra libertà e la nostra democrazia è una indecente presa in giro dell’opinione pubblica, una provocazione, un segno chiaro di disprezzo per i cittadini, trattati come minus habentes, un’affermazione veramente “oscena”, per usare l’espressione poco diplomatica da lui usata contro Lavrov, colpevole di aver detto una cosa che tutti hanno sempre saputo. È chiaro e lampante, e lo è tanto più per il nostro professore del futuro, che non c’è altra motivazione del comportamento del capo del governo – con la complicità della sua maggioranza – se non la volontà di ottemperare a un ordine superiore, che, non potendo per una semplice constatazione temporale venire dall’Europa e nemmeno dall’alleanza atlantica, viene dagli Stati Uniti e direttamente dal presidente Biden, che a sua volta anticipa le decisioni del Congresso e le stesse posizioni del Pentagono. In termini spicci: Draghi ha messo l’Italia in conflitto con la Russia perché glielo ha ordinato Biden.  E se la maggioranza si è dimostrata compatta, evitando accuratamente di passare per il parlamento per non esporsi al rischio di un dibattito controllato dai cittadini elettori, e se il capo dello Stato non ha emesso un fiato, significa che i leader dei partiti che compongono la maggioranza e il capo dello Stato obbediscono allo stesso dominus al quale Draghi è sottomesso. E se il partito  che si è tenuto, o è stato tenuto, fuori dal governo di salute pubblica, plaude alle decisioni del capo del governo, significa che il – la – leader di quel partito è anch’essa al servizio dello stesso padrone e pronta a eseguirne gli ordini.

Rimane per  il professore la questione del perché Biden, il Pentagono, il Congresso, il partito democratico americano abbiano deciso di entrare in conflitto con la Russia ma intanto ha chiarito a se stesso e ai suoi studenti che l’Italia non aveva altro motivo per farlo – colpendo i propri interessi – se non quello di ottemperare ad un ordine esterno. La circostanza che lo stesso ragionamento si applica alla Spagna, alla Francia, alla Germania, all’UE tutta dimostra solo che la longa manus americana ha afferrato tutta l’Europa ma mentre spagnoli, francesi, tedeschi o polacchi cercano di guadagnarci qualcosa e di rimetterci il meno possibile Draghi spinge tranquillamente l’economia italiana nel baratro badando solo alla sua personale affidabilità come esecutore di ordini. Riprendendo la sua lezione il nostro professore del futuro si è convinto che per imbastire una narrazione sensata deve prima chiarire la natura dei protagonisti, la Russia, l’Ucraina, la Nato, l’Unione europea, distinguere quelli che sono veramente tali dagli attori secondari e dalle comparse. E in questa disamina si sofferma in particolare sulla Russia, che secondo la propaganda occidentale è una dittatura che persegue una politica imperialista. La Russia che, ricorda il professore ai suoi studenti, era risorta dalle ceneri dell’Unione sovietica, tentativo fallito di realizzare l’utopia comunista, imposto con la forza da una minoranza che in buona o cattiva fede era guidata da una sorta di religione che non solo giustificava ma rendeva necessario sopprimere la libertà di pensiero, di associazione, di stampa. Perché se un regime si regge su un sistema di valori codificato chi non li condivide è una persona cattiva e pericolosa, è una minaccia, un reprobo da convertire o sopprimere. Liberatasi dalle ultime scorie dell’esperienza bolscevica e ripreso il filo della propria storia e della propria identità la Russia è diventata una repubblica presidenziale simile a quella francese, con un capo dello Stato eletto direttamente dal popolo e un capo del governo da lui indicato e approvato dal parlamento. È un sistema multipartitico in cui, come nella maggior parte degli stati moderni, il parlamento rappresenta la volontà popolare e nel quale una costituzione formale garantisce – in teoria – l’esercizio delle libertà e dei diritti civili e politici. Il presidente gode di un grande potere, non superiore per altro a quello di cui godono i capi di Stato francese o americano: se tale potere ne fa un dittatore, anche questi sono dittatori.

Il professore sgombra il campo dagli equivoci: sul piano istituzionale non c’è alcuna differenza fra la Russia e i Paesi occidentali: libertà e diritti sono spesso e volentieri messi a repentaglio in tutte le cosiddette democrazie, comunque esse vengano connotate.  In una prospettiva marxista sono tutti Stati capitalisti, in quanto caratterizzati dalla tutela della proprietà privata e da una possibilità illimitata di arricchimento, temperata da forme variabili di controllo statale e sono anche Stati laici, seppure riconoscono il prestigio e tollerano l’influenza di una confessione religiosa o di una chiesa organizzata. Il professore sa che motivi di contrasto fra di loro non si trovano in una astratta contrapposizione di modelli organizzativi, di riferimenti valoriali, di stili di vita – come poteva essere quella fra capitalismo e comunismo, fra laicismo e confessionalismo o fra opposti integralismi religiosi – e men che mai fra democrazia e tirannide ma vanno ricercati in rivalità territoriali o di mercato. Nel Mein Kampf Adolf Hitler sostiene senza mezzi termini che la Germania ha bisogno di spazio per reggere il confronto con realtà statali di dimensioni continentali. Per il Führer le dimensioni ridotte del Reich erano un problema. Ma per Paesi come gli Usa, la Cina o la federazione russa il problema semmai è quello opposto, sia per quanto riguarda l’estensione sia per quanto riguarda la popolazione. Inoltre, aggiunge il nostro professore, fra Russia e Stati Uniti non ci sono territori contesi o potenziali conflittualità riguardo alle rispettive aree di influenza diretta (come storicamente accade fra Cina e Giappone o India e Cina). Resta quindi il mercato, la competizione economica. Ma il sistema economico russo non si fonda sulla produzione di manufatti da esportare, l’industria russa non trae respiro da un continuo aumento della produzione, l’aumento dei consumi interni e in particolare la richiesta di beni di lusso sono soddisfatti dalle importazioni mentre la bilancia commerciale è pareggiata dal surplus energetico.

Un partner ideale, insomma, per Paesi come l’Italia e, non per indole ma per le sue caratteristiche socioeconomiche, un Paese che bada più a difendersi che ad attaccare. Qualunque sia il modello interpretativo che impieghiamo, non solo quello marxista, la Russia non è un Paese imperialista. Lo sono invece gli Stati Uniti proprio per le caratteristiche della loro economia e per il tipo di leadership che li contraddistingue.

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Industria pesante, e bellica in particolare, e potere finanziario globale concorrono a imprimere una politica estera aggressiva ed egemonica orientata sul duopolio con la Cina – il rivale col quale poi dovrà i conti – e intenzionata a eliminare il terzo incomodo, che non è un competitor economico ma un possibile supporto militare per il colosso economico orientale. Insomma: per far fuori il vero rivale, la Cina, gli americani debbono castrarla tagliando il suo braccio armato. In più la Russia è una pericolosa calamita per l’Europa per il semplice motivo che è saldamente incastonata nella cultura, nella storia, nell’identità europea e il progetto americano di ridurre l’Europa ad una enclave americana rischia di fallire. E questo è un altro buon motivo per cercare di abbattere l’orso russo. Il professore sa con quale accanimento si sia tentato di “orientalizzare” la Russia, di contrapporla ad un’Europa libera e democratica, giungendo fino all’affermazione grottesca che  l’Ucraina sia depositaria dei “valori   occidentali”. E il nostro professore dovrà non solo ribadire ai suoi studenti che la patria di Chaikovskij e Dostoevskij è il cuore, non la periferia dell’Europa, e lo è molto più di quanto non lo siano la Finlandia, la Svezia o lo stesso Regno Unito,  ma dovrà anche avvertire che l’Ucraina, oltre alla sua inconsistenza storica e culturale, è l’unico Paese al mondo in cui lo Stato non ha avocato a sé la forza delle armi. Nel resto del pianeta il diritto – individuale – di portare un’arma per difesa personale è negato, concesso con grande difficoltà o messo in discussione: in Ucraina ci sono eserciti privati – e la circostanza che alcuni si rifacciano esplicitamente al nazismo è secondaria – armati di tutto punto. Qualcosa che è anteriore al patto costitutivo dello Stato, qualcosa che farebbe inorridire tanto Hobbes quanto Locke. E il nostro professore, quando porterà come documentazione quello che ora scrivono i nostri  giornalisti farà fatica a capire come si siano presi ad esempi di martirio, di eroismo, di amore per la patria tagliagole in uniforme che tengono prigionieri civili inermi per farsene scudo, farà fatica a capire come gli stessi giornalisti, politici, “intellettuali” scandalizzati per un braccio teso nel saluto romano possano aver scoperto che in fondo i simboli del delirio nazista sono parte del patrimonio culturale indoeuropeo. E dovrà capire, ammesso che possa riuscirci,  come contemporaneamente  si possa condannare la Russia perché c’è il sospetto che gli oppositori del governo stentino ad accedere ai mezzi di informazione e assolvere l’Ucraina dove  si dà la caccia e si cattura un parlamentare, si fanno saltare per aria rappresentanti delle regioni allofone e per decreto si mettono al bando i partiti di opposizione.

Ammesso e non concesso che ci sia un futuro, che ci sia un futuro per l’Italia, che in futuro abbia ancora un senso insegnare la storia dell’Italia.

Pierfranco Lisorini

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