Economia malsana vs. economia sana

Economia malsana vs. economia sana

Economia malsana vs. economia sana

 È un grave problema. È quasi peggio del deserto economico, perché dove non c’è niente si può ricostruire meglio, partendo dalle fondamenta.  Con fatica, ma si può. Dove invece si diramano già i tentacoli della cattiva economia, tutto diventa più difficile, perché prima occorre individuarli e sradicarli, ripulire materialmente l’ambiente, e poi si è comunque a corto delle risorse che sono state sottratte.

È una sorta di virus, di parassita strisciante, che può facilmente impadronirsi di spazi lasciati vuoti, come un occupante abusivo in una casa incustodita. Ma può essere anche peggio, può scacciare di prepotenza i legittimi abitanti, se trova il terreno fertile, e soppiantare l’economia sana.

È chiaro che dove alberghino corruzione, intrighi, clientele, fame di guadagno facile, debolezza e vulnerabilità della politica alle tante sirene lusinghiere, la sostituzione progressiva si farà avanti anche in tempi normali. È così facile e comoda e lucrosa, l’economia malsana. Ma è in tempi di crisi che l’avanzata si fa prepotente e inarrestabile, perché gli anticorpi sono ai minimi, le difese inesistenti, e l’ambiente è propizio.

Infatti è proprio nella situazione di disagio, nel ricatto economico e sociale della crisi, che si tende a fare confusione e accettare tutto, sotto le magiche sigle “lavoro” “sviluppo” “riqualificazione” (brrr…).

 


 

Invece, è più che mai in queste circostanze che occorrerebbe capire e fermare la deriva, come premessa per un vero rilancio. 

È proprio allora, è proprio adesso che è più che mai importante saper distinguere. 

Nella trasformazione, nella metamorfosi l’economia malata prende il posto di tutto, e non ce ne accorgiamo, siamo assuefatti. 

Un brutto, bruttissimo segnale è per esempio quando i sindacati la difendono a spada tratta e non muovono un dito per quella sana. O per ciò che ne rimane. 

Ne sono un esempio attuale le tante iniziative e gli allarmi preannunciati contro questo governo e anche contro misure paradossalmente a favore della redistribuzione sociale, o i lamenti per la perdita di “posti di lavoro” legati a sacche parassitarie o clientelari che si vorrebbe giustamente iniziare a colpire. Mentre si è pigolato debolmente o niente del tutto per misure passate governative che demolivano i diritti di base, per crisi industriali di stampo speculativo, improvvide privatizzazioni e quant’altro. 

Ma prima ancora, si ricordano i tanti “scioperi per il padronato”: lavoratori strumentalizzati e usati come ostaggi umani per ottenere agevolazioni che prolungavano agonie o arricchivano i prenditori di aziende in crisi, invece di legittime proteste, per invocare migliori condizioni e un vero rilancio produttivo. 

 

 

Insomma, qua siamo, ed è per questo che è così difficile ripartire. 

L’economia malsana è quella che fa guadagnare pochi. Che ricatta e spreme i lavoratori e conta su disoccupazione e bisogno per azzerare i diritti. Che consuma risorse preziose, che ottiene contributi a fondo perduto, che devasta l’ambiente senza alcuno scrupolo e in forma irreversibile, che crea bisogni inesistenti, gigantismi inutili, sprechi vistosi, meccanismi speculativi o ipertrofie produttive e distributive. 

Che a volte si sdraia compiaciuta in zone d’ombra fra legale e illegale.  Che ricicla capitali. Che ossequia oscuri interessi. 

Non ha bisogno di una società che funzioni, di una certa giustizia sociale, di cultura, di qualità della vita. 

Anzi, tutto il contrario. Ha bisogno di persone perennemente insoddisfatte, frustrate, incazzate, deluse, inconsapevoli, fuorviate, isolate (importante questo! Guai che si riscoprano il collettivo e la collaborazione, nell’attività come nella protesta.) Sono i migliori clienti del negozio dello spreco, i migliori acquirenti del nulla, tesi a compensare un vuoto esistenziale senza fondo, a ripetere meccanismi compulsivi e a non pensare. 

A spiegare nel dettaglio cosa intendo dovrei scrivere per pagine intere. Farò qualche accenno, qualche esempio, ma molti sono anche intuitivi, li abbiamo intorno e ne vediamo le grigie conseguenze.

L’edilizia speculativa. È improduttiva e non necessaria alle reali esigenze abitative, non crea lavoro, devasta il territorio, imbruttisce e involgarisce, finisce spesso in pancia alle banche finanziatrici come “bene merce”, gonfiandone artatamente i bilanci con quotazioni sopravvalutate, danneggiando due volte l’economia dei risparmiatori: primo, per i finanziamenti “facili” largamente concessi a figure dubbie, per gli opportuni imboscamenti all’estero, che indeboliscono il patrimonio bancario. Poi, per le conseguenze, che mettono a rischio la solidità degli istituti, le cui crisi, ovviamente, paghiamo tutti noi. E ne vediamo un triste esempio tutt’altro che inatteso, anzi ampiamente preannunciato, qui da noi, con Carige. 

Senza contare il deprezzamento degli immobili esistenti, con conseguente tonfo del mercato e di chi è costretto a svendere o a tenersi case che non può più mantenere. 

 


 

Il proliferare di agenzie immobiliari e sportelli bancari va di pari passo con la crisi, e non è mai un buon segnale, dicevano i vecchi.

I tanti, troppi centri commerciali. Alienanti luoghi di merci omologate di scarso valore, che prima fanno il vuoto del piccolo e medio commercio, degli esercizi di maggiore qualità e tradizione, delle produzioni locali e degli antichi mercati all’ingrosso, desertificando il tessuto economico. Poi si cannibalizzano fra loro, per venire infine soppiantati dall’on line. 

Le grandi opere.  Mastodonti degli appalti e dei costi gonfiati come regola, pretestuosi schemi paramafiosi che non soddisfano affatto le necessità di una moderna rete infrastrutturale efficiente e ragionata, ma drenano risorse in un meccanismo che si ingigantisce fino all’insostenibile, per poi lasciare opere amorfe, incompiute, inutili, o lavoratori a spasso. 

Il gioco d’azzardo, vera e propria piaga e malattia dei disperati su cui si specula ignobilmente. Non a caso, insieme con droga e prostituzione, è sempre stato uno dei cavalli di battaglia delle mafie e della delinquenza organizzata.

Il mito della logistica e della globalizzazione, che crea mostri, muraglie di container, che affama i coltivatori, i lavoratori e le aziende locali, che invade i mercati col dumping del sottocosto per poi impadronirsene. 

Io non mi ritengo “sovranista”, si fa troppa confusione sui termini. Io credo che una globalizzazione sana e moderna sia quella dove individui e merci possano circolare liberamente. 

 


 

Possano, non ”debbano”. È in questo sottile verbo che sta la differenza, fra la spaventosa disparità attuale e una vera nuova società con maggiore uguaglianza sociale e tutele di buon senso.

Anche per questo io credo che neppure una forma di accoglienza indiscriminata e perenne di fenomeni migratori sia una soluzione a lungo termine, ma che rientri a pieno titolo nell’economia sbagliata di cui sopra. 

Qualcuno storcerà il naso, ma io non credo che sia vera integrazione quella che per funzionare richiede un flusso costante di denaro in entrata, cosa che crea inevitabilmente inquietudine sociale, in una società già provata e tutt’altro che solida in economia e valori. 

Occorre uno scopo, un percorso, una fine, un limite e dei criteri.  E un rafforzamento parallelo del contorno sociale. 

Non credo che sia razzista pensarlo. Credo che farebbe bene a tutti deporre le emotività contrapposte e ragionare nel modo più sensato. Una barca che già fa acqua non può accogliere tutti i naufraghi, o affonda. 

Dai miei esempi credo si capisca quanto siamo invasi dai tentacoli di una economia profondamente sbagliata. A Savona più che mai, perché il radicamento è iniziato da lontano, dai tempi di tangentopoli, e anticorpi non ce n’erano. 

Cosa intendo per economia sana? Anche qui, qualche accenno. 

 

 

Una economia ragionata, attenta agli equilibri, al territorio, al benessere diffuso più che alla crescita, con particolare attenzione a evitare gli sprechi. Che produca innanzitutto qualità della vita, bellezza, giustizia sociale e dignità. Più giusto guadagno che arido profitto. 

Liberarsi dell’orrido concetto tanto caro ai partiti degli anni ’60 e purtroppo ereditato dagli attuali, PD su tutti, FI di concerto, ma anche Lega, che progresso sia cemento e acciaio e ciminiere, e che agricoltura e verde significhino arretratezza. Il vero progresso è abbandonare le devastazioni, saper tornare indietro integrando però i progressi scientifici attuali. Questa è la vera decrescita felice, non le loro stupide propagande negative e quelle sì, arretrate, tese a rimpiangere disperatamente un mondo orrido e cupo che non possiamo più permetterci e dobbiamo abbandonare. 

Industrie a contenuto impatto ambientale e ad alta tecnologia. Energie rinnovabili. Collegamento fra università, ricerca, sviluppo e produzione. Industrie di trasformazione di prodotti dell’intorno. Rilancio ragionato dell’agricoltura di qualità. Privilegiare le materie prime locali e compatibili col territorio, gestirsi da soli i propri rifiuti e le necessarie lavorazioni inquinanti, piuttosto che diventare la “pattumiera” di qualcun altro, riducendo il più possibile alla fonte per contenere i problemi.

Praticare un giusto equilibrio fra merci locali e di importazione, tutelando le produzioni autoctone, evitando dumping e concorrenza sleale. 

Incentivare il commercio locale: centri di distribuzione diffusi in modo che viaggino le merci e non le persone, ammassandosi nei megacentri. Porre un deciso freno alla assurda liberalizzazione del commercio che ha impoverito il tessuto sociale e degradato le città.

 

 

Modernizzare sia le vie di comunicazione sia i mezzi di trasporto, riducendo l’impatto del traffico e aumentando le proposte di trasporto pubblico, prima di pensare a opere deliranti, inutilmente impattanti ma lucrose per le mafie.

Pensare all’insieme di cultura, arte, beni del territorio e tradizione agricola, gastronomica, artigianale come a un tutt’uno, una vera e propria risorsa da tutelare, una preziosa materia prima da valorizzare e su cui investire di per sé, senza pensare a improbabili e volgari aggiunte. Niente suk negli edifici storici e proposte commerciali grossolane, niente spese inutili come tristi passerelle arrugginite o imbarazzanti allestimenti di dubbio gusto, ma restauri, abbellimenti, integrazioni di proposte in armonia. 

Gestione sensata e ragionata dei flussi migratori, rispettosa degli individui ma ferma e sostenibile, senza buonismi velleitari ne’ orridi isterismi razzisti. 

Considerando che in una società solida, con una economia in ripresa e un sociale diffuso che regga l’impatto c’è spazio per integrazione e accoglienza. In una società in crisi profonda in tutti i settori, pervasa da economia malata, col sociale agli sgoccioli, l’immigrazione è bomba a orologeria, dove una accoglienza a lungo termine di tipo parassitario non fa che accentuare i rischi di malessere e sfascio.

Perciò, se vogliamo giustamente evitare fenomeni oscuri, razzismo, intolleranza eccetera, pensiamo innanzitutto a costruire, anzi, ricostruire in parallelo una economia sana, adeguata ai tempi, anzi, lungimirante. 

I fenomeni negativi si combattono sradicando le cause, non certo concentrandosi sulle conseguenze.  

Ci riusciremo in Italia, ci riusciremo a Savona? Chissà. Il mio pessimismo sarebbe abissale, se non fosse che, alla fine, la crisi stessa mette in difficoltà anche l’economia malsana, o almeno la rallenta. 

C’è molto per cui combattere. Ma non so dire se ne saremo capaci. 

 

    Milena Debenedetti  Consigliera del Movimento 5 stelle

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