Divagazioni sulla potabilizzazione dell’acqua
I processi di potabilizzazione sono molteplici e differenziati. Si sono evoluti nel tempo con tecnologie sempre più complesse e raffinate: le necessità di miglioramento qualitativo e di salvaguardia/conservazione di un bene così prezioso lo hanno imposto.
Ma, come cerco di mostrare qui e in ogni occasione, neppure l’avanzata tecnologia attuale può assicurare metodi perfetti di lavorazione di qualcosa. Non c’è alcunché per il trattamento del quale esista il metodo assoluto sempre applicabile in ogni occasione. Tanto meno per una materia così tecnicamente eccentrica e sfuggente come è l’acqua. Insomma, bisogna ammetterlo, il metodo migliore non c’è.
Piccola divagazione. “La migliore non c’è”, rispondeva sfinito Totò a chi, non trovando sedie decenti da offrire al Marchesino, gli ingiungeva di porgere almeno “la migliore”. Stupefacente risposta e ultima sfida che la miseria al suo stadio finale lancia al mondo intero, all’inutile or-dine del suo troppo rigido logos, alle sue stanche gerarchie e alle stupide regole logico-sintattiche con cui cerca inutilmente di puntellarsi.
Basta così. Il re è nudo. L’abbiamo saputo con certezza pure noi, molto tempo fa. Anche attraverso l’inarrivabile arte di Totò che ci ha regalato quel gigantesco Diogene che è il Felice Sciosciammocca di Scarpet-ta/Mattoli. Un Totò/Felice che esce trionfante dalla straordinaria cocciuta sgangherata battaglia − condotta a suon di spaghetti e salsicce, tacchini e gelati, occhiate coinvolgenti e memorabili rassegnati “…se no, desisti” del fin troppo paziente fotografo ambulante Pascquale, pater della famiglia che coabita con Felice in una stanza − battaglia lanciata a tutta forza contro l’ipocrisia.
È in “Miseria e Nobiltà”, capolavoro assoluto (girato ancora in ferraniacolor) del cinema mondiale di tutti i tempi che senza tema di blasfemia metto tranquillamente nell’Olimpo cinematografico accanto a, diciamo, “Quarto potere” o, chessò, ”Il posto delle fragole”. Anche se noi, che siamo cresciuti fra le disgrazie di Paperino, l’arroganza popolare e intellettualissima di Tex, qualche riga di Steinbeck e gli orizzonti infiniti di John Ford, a queste cerebrali raffinatezze abbiamo sempre un po’ preferito l’antropologia operaia di “Ombre rosse”.
Ma, per dire, nel nostro onnivoro disordinato nascente esplosivo amore per la pellicola in movimento che ci spingeva ad introdurci – timidi ma senza alcuna riserva e senza badare troppo al titolo o al genere di film in proiezione – introdurci nell’antro buio dei numerosi cinema pieni di gente, di carta, di fumo, di odori e di briciole, della Savona povera e viva di quegli anni, ci è pure capitato di vedere “la bella Otero”. Eh.. sì! Per il quale film valga il giudizio insolitamente definitivo (tipo di giudizio che spettava di solito a Flavio) del nostro Rino che, all’uscita dal cinema Moderno (“u Pigöggiu” cioè “il Pidocchio” in savonese, “e dico tutto” direbbe Peppino), stravolto e disfatto dopo l’inimmaginabile spettacolo, scrollando la testa, con il tenue filo di voce rimasto, in un sussurro lie-ve, lo aveva definito, testualmente: “il film più brutto dal Rinascimento ai giorni nostri”. Rivedetelo, se potete (“Miseria e nobiltà”, dico, non certo “la bella Otero”; Flavio e Rino, poi, non sono più tecnicamente raggiungibili: là non c’è campo).
Concludo la nota con due parole sui cinema di Savona.
A Savona c’erano numerose sale (sale è una parola un po’ grossa, non applicabile a tutti gli ambienti considerati qui, ma va beh…) cinemato-grafiche. Se non ricordo male: l’Eldorado, quello elegante di “non vide me’ di me chi vide il vero” e con il soffitto a cupola scorrevole che si apriva come uno sbadiglio nell’intervallo; l’Ars, più popolare, anche lui con il soffitto apribile ma a pannelli quadrati, stridenti per suono e allo sguardo; l’Olimpia, specializzato in cartoni animati natalizi, con un pal-co adoperato anche per cerimonie, cori, convegni; il Reposi, dotato di passerella per qualche raro varietà o avanspettacolo, a noi ovviamente precluso; l’Astor, il più nuovo; il Moderno, il più scalcinato; e poi i par-rocchiali come Lux, Salesiani, Eden, SanPietro, … Il Diana non c’era ancora.
C’erano diversi cinema estivi all’aperto. Uno era l’Ilva, a pochi metri dalla centrale elettrica, dalla foce del fiume e dalla ferrovia. Le sue im-prevedibili proiezioni erano accompagnate da lazzi applausi e schiamaz-zi quando (molto più che spesso) il frastuono del treno in lenta e cigo-lante manovra copriva con il suo estenuante e cadenzato fragore le voci dallo schermo. Proteste previste, attese, entrate quasi a fare parte dello spettacolo. Manifestazioni certo molto grossolane ma accettate, o igno-rate, perché fondamentalmente non contestavano nulla, se non l’antica folle scelta del sito, ormai ragionevolmente immodificabile. Ricordo poi che nel prezzo del biglietto era compreso un sacchettino di carta ruvida trasparente pieno di profumatissimi (profumo di viola, mi par di senti-re) pescetti di liquerizia dolce e morbida.
C’era poi ancora un altro cinema di cui non ricordo più il nome, anche questo estivo all’aperto. Mi sembra fosse messo lì lungo il fiume, vicino alle case, ospitato in un recente vuoto di cose, di voci, di gente, a fianco della lunga e stretta strada interna che va dritta verso Lavagnola. Cioè ben oltre le nostre colonne d’Ercole situate tradizionalmente al ponte di legno sul Letimbro che dopo un po’, percorso un vicolo, dava su via Piave e normalmente rappresentava il confine ultimo del nostro cono-scibile radicato tenacemente negli spazi più verdi dell’oltre-Letimbro di Santa Rita. Lo schermo era costituito da una parete, rugosa ma quasi bianca, di una casa sventrata dalle bombe una decina d’anni prima.
Fine della piccola divagazione. Riprendo da dove avevo interrotto.
… Al contrario, è necessario fare sempre nuove osservazioni, studi ed esperienze, simulazioni e confronti per migliorare continuamente il pro-cesso e anche adattarlo convenientemente al caso in esame. Uno studio permanente. Come , d’altra parte, per ogni branca della scienza ed ogni istruzione della tecnica. Non solo, per molti procedimenti tecnici anche altamente specialistici, e soprattutto quando il materiale allo studio è l’acqua, la sola nuda tecnica non basta più. Bisogna considerare seria-mente una nutrita serie di altri parametri che dell’alta precisione e dell’asettico distacco della pura oggettività se ne impippano (antico sa-vonesismo che sta per: non sanno proprio che farsi).
Sono quelle qualità che si rivelano subito, nella puntuale immediatezza dell’evidenza, attraverso la percezione diretta e inequivocabile che: … insomma, dite quello che volete, ma “qui c’è qualcosa”. Qualità per la cui caratteristica prevalente potremmo forse rispolverare un antico termine ora desueto, coniato apposta quasi ottocento anni fa da Duns Scoto, il Dottor Sottile originale, per individuare ed evidenziare una generica cosa dalle proprietà individuali incerte, non ben definibili altrimenti; un termine che però non lascia dubbi sulla modestia non meglio esplorabile del loro stato: l’ecceità, ecco ciò che è.
Sono qualità che − secondo il criterio desolatamente antiestetico adottato addirittura con enfasi da un apparato che preferisce autodenunciarsi come principalmente tecnico per evitare di fare i conti con cose come il bello, il buono, giusto, il sentimento, l’anima,… e che ritiene il sensibile non più che una scomposta irrilevante degradazione del sublime intelligibile − non sono considerate degne di un vero legame con l’oggetto di stu-dio. Tutt’al più una sorta di ornamento che la tecnica nella sua costituzionale deficienza di sensibilità ha già bollato come del tutto superfluo. Confinando così queste, in realtà molto notevoli, proprietà, in un territorio e in una condizione, per così dire, ludico-psicologici più che stretta-mente fisici.
Ora, sappiamo bene che gli studiosi hanno cercato sempre e in ogni modo di isolare e proteggere il pensiero scientifico da ogni possibile contaminazione antropica per dargli una forma teoretica pura, cioè esente dalle deformanti/alteranti passioni tipicamente umane, nell’ingenua convinzione che questa fosse davvero l’unica strada per arrivare all’autentica verità. Ed è un approccio di cui non intendo certo contestare le ragioni di fondo − anche perché ha innegabilmente contribuito all’ottenimento di grandiosi risultati − ostinandomi a intellettualizzare la sensibilità.
Sta di fatto che nella valutazione complessiva delle cose, dei fenomeni, degli eventi, non ci si può affidare solo ai criteri esclusivamente numerici e quantitativi caratteristici della tecnica. Bisogna prendere atto che tutte le forme in cui si esprime la materia, i profumi e i colori, le sensazioni e la bellezza, le luci e gli odori, le parole e i silenzi, le trame, le storie, le azioni, gli impulsi, giocano un ruolo decisivo nello sviluppo della cono-scenza.
Per arrivare finalmente ad ammettere che la scienza non è una faccen-da “a parte”, grigia e opaca, sterile e ferma come una roccia, incapace di guizzi e sussulti nel contesto generale di un divenire invece colorato, im-prevedibile e bizzarro, vorticoso e contraddittorio. Al contrario, la scien-za vive: si muove e si riposa, sonnecchia e lavora, cresce, matura, si dilatata e si rapprende, si abbatte e si rialza, s’illumina e respira, dice cose e le contraddice, si alimenta di sensi ed intelletti, di ragione e di sentimenti. È, per dire, antropomorfica. Volerne sopprimere o, peggio, voler ignorare la sua lampante arci-complessa matrice umana, per di più gridando al mondo intero che è questa l’unica possibile modalità di carattere davvero scientifico, significa semplicemente andare contro natura e ragione.
“Abbi fiducia nei tuoi sensi,
nulla di falso mai ti mostreranno,
se l’intelletto tuo ti terrà desto.” (J.W. Goethe)
Tra questi parametri troppo sottovalutati ci sono senz’altro le caratte-ristiche organolettiche dell’acqua, come, tra le altre, il sapore, l’odore e la limpidezza. Tutte cose assolutamente fondamentali per definirne il carat-tere di potabilità, ma anche pressoché impossibili da riconoscere solo tramite le procedure così strettamente oggettive che la tecnica è in grado di offrire.
Ma è questa una condizione che non vale solo per il materiale o la so-stanza acqua. Anzi, direi che è una situazione che (premendo il tasto ri-torno nel menù) si può estendere e generalizzare ad ogni forma di analisi della realtà (mi cautelo verso i casi molto particolari introducendo a mo-do mio l’idea di rischio). Per esempio così: l’intromissione/introduzione ricorrente di fattori o elementi iper-tecnici nei meccanismi della perce-zione umana rischia di estromettere irrevocabilmente dall’attività cognitiva la ricchezza incandescente, esplosiva ed irrinunciabile dell’immediatezza, la capacità ineguagliabile offerta dalla sensibilità di cogliere con prontezza, im-mediatamente, direttamente, la cosa nella sua datità. Mostrando ancora una volta che i nostri sensi − vituperato oggetto di un pensiero che scambia la staticità intellettuale per scienza − sono strumenti in grado di regalarci, per così dire, le più affidabili ed esube-ranti scorciatoie verso la realtà.
È così. Bisogna dirlo: i sensi, molto più spesso di quanto non si voglia ammettere, o di quanto non sia accettabile concedere al pensiero di un sistema tecnico ormai onnipervasivo e dominante, possono trionfare clamorosamente sull’evanescenza dell’esasperato tecnicismo che si muo-ve ormai sui limiti dell’astratto. E arrivare a sovrastare ampiamente i concetti. Con il risultato incidentale, ma anche molto pratico, di legittimarli per via intuitiva, di riuscire, in una sorta di blanda eterogenesi dei fini, finalmente a “cosizzarli”.
Trascurare il messaggio solo per il timore di essere considerati anti-scientifiche rimanenze di età concluse, oltre che molto pericoloso, è terribilmente stupido.
Giulio Save