Alcune note su “Là fuoresce il Tritone” di Eugenio Montale
Portovenere
Là fuoresce il Tritone
dai flutti che lambiscono
le soglie d’un cristiano
tempio, ed ogni ora prossima
è antica. Ogni dubbiezza
si conduce per mano
come una fanciulletta amica.
Là non è chi si guardi
o stia di sé in ascolto.
Quivi sei alle origini
e decidere è stolto:
ripartirai più tardi
per assumere un volto.
Non è una dedica a Portovenere. E’ Portovenere per il poeta.
Tritone è individuato, nitido, presente: il Tritone. Proprio lui, il figlio di Poseidone e della nereide Anfitrite. E Montale ce lo fa vedere emergere dai flutti, quegli stessi che vanno ad infrangersi sullo sperone di roccia su cui sorge una chiesa.
Si tratta di una miscela di realtà percepita e realtà reale.
Il “cristiano tempio” appartiene a quest’ultima.
La liberiamo dal vago poetico e le diamo un’identità: chiesa di San Pietro, fasce bianche e nere in facciata, stile gotico-genovese, monumento-simbolo di Portovenere.
Dunque, il mito pagano e il sacro cristiano in contemporanea nello sguardo del poeta.
E lì si sente che il presente è la punta dell’iceberg, e che perciò “[…] ogni ora prossima / è antica”. Quello che un luogo evoca non lo evoca in ordine cronologico. Questo è il motore segreto che ci conduce nella lettura.
Se la suggestione di un luogo esiste, se il Tritone e la chiesa hanno partecipato a costituirla, il filtro della mente provoca sensazioni ed emozioni che si collegano vicendevolmente secondo richiami apparentemente strani, a volte onirici, e poiché il filo dei pensieri non è guidato ma si fa da solo, allora significa che ha trovato il modo di parlarci, di suggerirci, di darci la cifra del punto che sta all’incontro del tempo e dello spazio in cui ci troviamo, di comunicarci le nostre coordinate.
E’ normale.
Diventa speciale quando nonostante quelle coordinate logicamente stridano tra loro, non si fondino e contrastino, questo venga accettato senza guerra, e “[…] Ogni dubbiezza / si conduce per mano /come una fanciulletta amica”. E’ il miracolo; il conto dei dadi che se non torna, per una volta, non importa, va bene lo stesso così.
La bellezza di ciò che a volte la Natura mostra, e di ciò che a volte l’Uomo fa, e persino le favole che si (a sé) racconta, creano prospettive assolutamente altre da quelle del visitatore inevitabilmente prigioniero del presente, e rendono questa una delle poche liriche meno grame, più armoniche e classicheggianti degli “Ossi”; e altresì permettono di tenere insieme, educati viaggiatori dello stesso scompartimento, rispettosi l’un l’altro, il pagano e il cristiano, il Tritone e la chiesa, il mitico e l’antico. Da una medesima sorgente per approdare ad un medesimo porto di bellezza. Il Porto di Venere che induce a lasciare che l’ego si perda a guardare le forme di Palmaria, più avanti di un braccio di mare.
“Là”, sul Promontorio delle Bocche, là l’antica basilica da millecinquecent’anni aggrappata, è tempio costruito sul tempio della dea Venere Ericina. Là si è dimentichi, ed è giusto, perché “Quivi sei alle origini / e decidere è stolto”.
Decidendo falseresti le cose, che alla loro origine non hanno ancora generato il bene e il male.
“Quivi” non è parola contrapposta a “Là”.
E’ una falsa opinione credere che il primo avverbio stia ad indicare un luogo vicino solo perché nella prima metà della parola troviamo quel “qui” che in effetti, isolato, svolge questa funzione. Comporterebbe che Montale dapprima col pensiero, se non di persona, guardasse da lontano e poi dappresso. Ma non è così. La postazione mentale da cui parte lo sguardo non cambia.
“Quivi” è un rafforzativo. Significa: proprio in quel luogo. Da cui consegue che evita una ripetizione la quale alla terza evenienza disturberebbe il ritmo in anafora dato dagli identici incipit della prima e seconda strofa.
Ma che cosa “Quivi” è stolto decidere? Di assumere un volto!
La voce fuori campo, ma in realtà a tutto campo coinvolta e protagonista, indirizza il tu-lettore e alter-ego in modo sicuro. Dice che avere un volto è inevitabile. Assumerlo, invece, è una scelta per apparire o per essere (non vi è nel verso conclusivo una coloritura morale), costituirsi come personaggio o come persona lungo le vicende che il tempo, dentro e fuori, ci destina, e che noi, poco o tanto, modelliamo per meglio farci da esse abitare.
Ma “Quivi” siamo ai primordi. Non dobbiamo modellare nulla, interpretare nulla, inventare nulla. Siamo assorbiti da un’opera, d’arte e di natura insieme. Il rovello è solo di quando vuoi appartenerti, non di quando ti lasci andare e accetti la buona sorte di essere indistinto.
Perciò “ripartirai più tardi / per assumere un volto” ha in quel “ripartirai” non un ordine o un consiglio, ma una disarmata previsione, perché “partire” nel suo étimo significa staccarsi, dividersi. Fio a cui il principium individuationis non ci permette di sottrarci.
E siccome questo distacco ci attende al varco, che almeno si goda dell’unità e dell’armonia rara (“Felicità raggiunta, si cammina / per te su fil di lama) che un luogo, fisico e spirituale, promana.
Lirica infrequente nelle antologie “Là fuoresce il Tritone”, perché da essa non si riuscirebbe a dedurre nemmeno il sospetto della poetica e della filosofia di Montale.
Tuttavia è sul versante estetico-espressivo che essa ci dona il pregio di una descrittività originale, breve, inusitata.
E’ un attimo di respiro più disteso tra le compagne che prima e dopo in questo diario di un’estate secca e spoglia che sono gli “Ossi di seppia”, non concedono tregua e di continuo si guardano, di continuo si ascoltano; e, facendolo, sempre assumono un volto perplesso.