Dissipazione e dissoluzione

Il mito futurista della velocità al servizio del Capitalismo

Carlo Marx

Il buon vecchio Marx, involontariamente assurto al ruolo di guida e profeta  – non è il primo e non sarà l’ultimo  -, ha elaborato una filosofia della storia che si corona  con l’avvento del capitale per aprire la strada al potere del proletariato e alla società senza classi e senza Stato (e senza più storia). La sua interpretazione, che sintetizzo nella formula  “progressiva concentrazione della ricchezza e dei mezzi di produzione nelle mani di pochi e conseguente impoverimento di massa”, pecca di antropocentrismo  e lambisce soltanto la vera natura del capitalismo. Che nella sua manifestazione più evidente  si presenta nella spirale produzione-consumi e nella sua intima essenza  è crescita continua, instabilità, cambiamento. Cambiamento  che va  oltre il fisiologico dinamismo insito nella vita, anzi nel mantenimento in vita e non solo quella organica. Il capitalismo nella sua versione attuale non è più quello teso alla conquista di mercati, ispiratore della politica estera degli Stati, saldamente impiantato nello stato nazionale e condizionato dalle vicende della moneta nazionale; ora il capitalismo si presenta con due facce: quella del’economia reale – le multinazionali – e quella dell’economia virtuale – il sistema bancario -, entrambe svincolate dagli stati nazionali, in  sé incorporee e spersonalizzate ma pronte a incarnarsi  nell’attività delle lobby politico finanziarie americane e nella cabina di comando dell’amministrazione americana. E in questa sua metamorfosi mette a nudo la sua vera natura  e la sua insaziabile voracità. È il mostro che se non cresce muore e i cui sacerdoti pretendono di far coincidere la civiltà col progresso imponendo i feticci della crescita e dello sviluppo. Riconoscerlo e combatterlo non significa volere la stagnazione o il ritorno ad una società legata alla terra e dipendente dai bisogni primari  ma cercare di ricondurre l’evoluzione alle sue forze equilibratrici.

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La realtà è indubbiamente un fluire continuo turbato da rapide improvvise. Espressioni come “il mondo antico” o più circoscritte come “la Grecia classica” o “Roma imperiale” sono a vari gradi di astrattezza delle generalizzazioni senza un corrispettivo storico reale; pretenderne di descriverne i costumi o la cultura è sempre una forzatura: al più è possibile rappresentare uno spaccato arbitrario all’interno di un arco temporale soggetto a grandi o piccole variazioni. Infatti società assolutamente statiche non esistono se non forse ai livelli minimi della civiltà umana. Ma il mutamento, in generale, è mutamento di qualcosa, presuppone un soggetto che mutando rimane se stesso. Per usare il linguaggio della scolastica la sostanza rimane, sono gli accidenti che cambiano. Il problema che si pone all’osservatore è quello di evitare di smarrire la sostanza negli accidenti senza perdere di vista la sua fenomenologia. Ma se la sostanza si risolve nelle sue manifestazioni  storiche, la sostanza semplicemente non c’è più. E se nel caso di singoli individui la garanzia del continuare ad esserci è fornita dalla memoria, la stessa funzione per le nazioni è svolta dalla tradizione, dalla continuità fra le generazioni, dalla lingua, dagli stili di vita, da quel minimo di coscienza storica che è comune a tutte le classi sociali.

Una continuità non interrotta da brusche fratture pronte a ricomporsi o dal distacco che si avverte quando si pensa di aver perduto un ruolo sociale attivo. O tempora o mores! tuonava Cicerone con lo stesso sdegno col quale Dante stigmatizzava le ragazze fiorentine “che van mostrando con le poppe il petto”, per non dire di  Giovenale, fustigatore delle matrone romane e dei loro giovani amanti,  che si spinge fino a rimpiangere le turgide mammelle dell’animalesca nutrice preistorica. Il tema del decadimento dei costumi è insieme un topos letterario e il frutto di un errore prospettico, del ricambio e della rivalità fra generazioni, di anziani che guardano con sospetto verso qualunque novità. Ma in tutto ciò, nell’evoluzione vera o apparente del costume, non si perde il senso di identità e di appartenenza ad un passato che non varia. Non si perse il sentimento della romanità per tutti i secoli della storia di Roma; ed è proprio nel momento del suo tramonto che con Massimino si leva la voce del più struggente patriottismo e della più lucida consapevolezza della sua missione civilizzatrice.

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L’italiano medio, non conosce e nella sua vita non visiterà mai  una testimonianza vivente del passato – che è suo a patto che venga riconosciuto come tale – come Volterra o cammei come Populonia o Certaldo ma è vittima di  una frenesia incontenibile di vedere oltre, che siano i sassi di Massu Pichu, le montagne rocciose o le acque del mar rosso. Conosco poveri cristi che senza l’ospitalità dei genitori dovrebbero scegliere fra il pranzo e la cena  che si indebitano fino al collo per poter surfare a Pria de Pica, commesse che si sentono realizzate fra i grattacieli di New York e ahimè colleghi che non intendono rinunciare al Louvre ma ignorano i musei vaticani e sono convinti che la tour Eiffel sia un monumento da imperdibile quando è solo un  gigantesco meccano.   Ma, si dice, de gustibus non est disputandum e liberi tutti di investire il proprio tempo e il proprio denaro in Tailandia o a Singapore: il punto è che assistiamo ad un bisogno di evasione che un tempo non lontano era  caratteristica di una minoranza incapace di godere del proprio benessere, nevrotizzata e  alienata nella gestione di quello stesso benessere. È in atto una spaventosa perdita di stabilità proprio nelle fasce d’età che ne avrebbero più bisogno, una corsa verso una attualità inafferrabile che impedisce la lettura, spezza il filo di conoscenze che trattiene nel presente e mantiene il contatto col passato. Nonostante l’istruzione di massa, nonostante i programmi scolastici si deve avere il coraggio di riconoscere che Petrarca non esiste più come non esistono più D’Annunzio o Pirandello. La scuola stessa sembra non credere nei contenuti che è incaricata di trasmettere e pare in attesa della prima occasione per buttarli a mare. Periodicamente si affaccia  qualcuno che vorrebbe imporre la traduzione della Divina Commedia in un italiano colloquiale; qualche mese fa sono tornati alla carica contro la versione montiana dell’Iliade, un capolavoro assoluto del genere neoclassico che da  mezzo secolo subisce il tentativo di sostituzione con traduzioni mortifere anche quando uscite da penne illustri. Ma Dante e Monti sono troppo difficili, e non si parli di Boccaccio. Abbiamo reciso l’ancora col passato per inseguire la modernità e siamo naufragati nella volgarità. Se la lettura cede il passo agli scambi sui social e alle curiosità che scorrono sul cellulare i pochi che leggono a loro volta seguono la corrente dell’effimero.  Tutto con un apparente paradosso: i lettori diminuiscono senza distinzione di ceto o di livello di istruzione ma il numero dei libri in commercio aumenta e non è certo la riedizione dei classici a farlo aumentare: come per qualunque altra merce è la novità che lo fa levitare cosicché le case editrici, le grandi case editrici, diventano fabbriche di paccottiglia, cacata carta per usare l’espressione di Catullo. Come l’arredamento, che ha ormai raggiunto e superato il livello di saturazione, come l’abbigliamento, per il quale l’industria ha scelto la strada dell’usa e getta, qualcosa che resta difficile definire in termini di moda, perché la moda vera pretende tempi più lunghi e più meditata interiorizzazione.

Ma esigerebbe  anche maggiori filtri per la produzione e il commercio sennonché, come in ogni altro campo modellato sul capitale, o si cresce o si muore. E ciò che cresce più di tutto è la spazzatura, che ingenui e troppo furbi vedono felicemente risolta in un’illusoria economia circolare; e insieme alle montagne di spazzatura e agli inceneritori ribattezzati termovalorizzatori, aumenta la distruzione delle risorse, che è sempre fatalmente un passo indietro rispetto alla loro ricostituzione. Forse non lo è dei cambiamenti climatici – ammesso e non concesso che i cambiamenti climatici siano una prerogativa del nostro tempo – ma di questa entropia l’uomo è sicuramente responsabile.   Altri meglio di me potranno analizzare i risvolti di questa nuova versione distruttiva del consumismo, la cui ultima frontiera pare essere l’automobile, soprattutto se va a buon fine il colpaccio green e si apre la prospettiva di rottamare il parco automobilistico mondiale. Chi è animato dal cupio dissolvi o si ispira al principio del tanto peggio tanto meglio   guarda con amara soddisfazione al pianeta sommerso da miliardi di batterie come al modo più rapido per far venire al pettine i nodi del sistema, che, comunque è concettualmente impossibile che possa crescere all’infinito.

nuvolanevicata via Getty Images

Marx immaginava che la contraddizione interna al processo di produzione del profitto sarebbe esplosa con il concentrarsi in poche mani della ricchezza mondiale e l’impoverimento di massa. Aveva correttamente intuito la mancanza di omeostasi ma l’aveva vista nel posto sbagliato: il sistema capitalistico è un signore bulimico destinato a scoppiare per la sua bulimia e non c’è presa di coscienza che serva per metterlo a dieta. La strada da battere non è quella di una rivoluzione sociale ma quella di una rivoluzione culturale che ri-orienti i traguardi individuali e collettivi. Una rivoluzione culturale e valoriale, che respinga ai margini quanti hanno occupato il centro della scena (politici, gente di spettacolo, giocatori di calcio), che imponga una scala di valori laica, basata sui sentimenti, sull’intelligenza, sulle conoscenze, lo studio e la capacità di assaporare la vita. Non vedo altro modo per ridare significato alla scuola e alla staticità del bello; solo così rivivono gli antichi e il passato torna a parlare con noi,  non è più una presenza muta e aliena; e solo così si ritrovano il gusto di parlare la stessa lingua, di condividere lo stesso patrimonio depositato attraverso i secoli e soprattutto l’orgoglio di essere cittadini non del mondo, che non vuol dire nulla, ma della propria terra, che, se mi si consente, non è il Burundi e nemmeno l’Ucraina.  E, attenzione: se si disperde e si dissipa la coscienza della propria identità non sono solo la patria e l’amore per la patria  a perdere di senso ma perdono di senso  il lavoro, l’amicizia  e la stessa attrazione fisica. Il Capitale conosce un solo valore: il suo e, quanto al progresso, non è altro che una macina che distrugge le coscienze e lo spirito.

p.s. Sono stato accusato di essere xenofobo e razzista. Dalla stessa fonte nel passato mi è stato dato del fascista e del putiniano. Mi posso tranquillamente permettere di non replicare e riderci sopra.  Non c’è invece niente da ridere sul brusco riaccendersi del conflitto israelo palestinese, proprio in un momento in cui la leadership israeliana è debole e di conseguenza pericolosa e il blocco  Bric  sempre più compatto sta per allargarsi ad altri cinque Paesi fra i quali vedi caso l’Iran. L’Iran, che per legami storici e religiosi è costretta a schierarsi dalla parte della Palestina e di Hamas mettendo ora quel blocco in difficoltà. Cui prodest?

Pierfranco Lisorini

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