Dal governo dei migliori a quello dei meritevoli. Il tentativo disperato di darsi un’identità

Messo di  fronte alla rivoluzione nominalista dei ministeri in versione meloniana, e in particolare al “merito” appiccicato chissà perché al Ministero dell’Istruzione, Stefano Zecchi si rallegra poiché, dice, nomina sunt consequentia rerum. Io, che sono meno ottimista dell’illustre accademico, avrei aggiunto  at saepius vicaria e, per rincarare la dose, gli avrei ricordato che le parole sono flatus vocis, aria fritta quando non seguono ma precedono le cose. “Ministero dell’istruzione e del merito”; solo a scriverlo mi viene da ridere: cosa intendono per “amministrazione” del merito? stricto sensu, mi si perdoni il gioco di parole, è un non-senso, non significa nulla: semmai allude ma non si sa bene a che cosa. Forse, nella testa di chi l’ha escogitato, si voleva far passare l’idea che la scuola di questa droite “de noantri” premierà i meritevoli e volterà pagina rispetto all’inclusione, allo star bene in classe, alla valorizzazione dei punti di forza dello stucchevole pedagogismo in salsa piddina o forse si allude alla necessità di disporre di insegnanti meritevoli di esserlo o magari si ha in mente una scuola meritocratica come premessa ad una società meritocratica.

Quel che si sia ci si poteva risparmiare il ridicolo di una tale dicitura e, se ce ne sono, impegnare le energie intellettuali dell’esecutivo non sulle denominazioni ma per iniziare – perché colpevolmente non si è già fatto –   a elaborare un programma di riforma dei metodi e dei contenuti didattici, di riassesto del sistema formativo e di modalità di reclutamento del personale docente. Operazioni complesse e soprattutto difficili da mettere in pratica. Molto più comodo appendere il merito come un ciondolo, uno specchietto per le allodole, un segnale, una vaga dichiarazione d’intenti. Ma, si sa, di buone intenzioni è lastricato l’inferno.  Il nostro sistema formativo ha bisogno di fatti non di etichette. Posso capire, con un po’ di difficoltà, che ci sia un Ministero della Cultura distinto da quello che si occupa di formazione. Lo posso capire ma mi insospettisce perché io sono fra quelli che ritengono che l’arte come ogni manifestazione dello spirito e in generale la cultura siano un’emanazione spontanea della società civile o, se vogliamo, dell’anima di un popolo e degli individui che lo compongono. La cultura organizzata, promossa guidata o amministrata dall’alto mi puzza di regime. Ma quel che più mi ripugna è l’aver ribadito la cesura all’interno della formazione, che, quella sì, è un compito dello Stato, fra scuola e università, come se l’università non fosse un possibile coronamento della formazione.

Da un lato il Ministero dell’Istruzione (e del merito, mi raccomando), dall’altro il Ministero dell’Università. Si continua ad approfondire l’assurdo fossato fra licei e istruzione superiore, che senza successo si tentò di colmare negli anni Ottanta del secolo scorso, nel momento aurorale della sperimentazione. L’idea di un ponte fra i due livelli di formazione fu bloccata per il timore della baronia accademica di vedersi compromettere le proprie posizioni di potere e per la diffidenza dei compagni che consideravano, e considerano, poltrone delle municipalizzate e cattedre universitarie premi di consolazione per gli scarti della politica o, in altri casi, trampolini di lancio per la politica ad alto livello. Ma alla resurrezione del Miur – già Ministero della Pubblica Istruzione -, sdoppiato non a caso dal governo Conte 2, si oppone anche la circostanza che per soddisfare  l’onorevole l’orda famelica che preme per avere un posto a tavola il numero dei ministeri, con tutto il potere clientelare che ognuno di essi comporta, fra direttori generali, funzionari e uscieri, può solo aumentare.

Confesso poi un certo fastidio nei confronti della ricerca di un’identità “ideologica” attraverso le parole: il merito aggiunto all’istruzione, la natalità aggiunta al, secondo me, inutile ministero della famiglia e così via. La sinistra l’ha fatto, eccome, ma non è un buon motivo per continuare a farlo da una sponda opposta. L’amministrazione della cosa pubblica, in tutti i suoi comparti, deve essere assolutamente “de-ideologicizzata” e restituita alle categorie dell’efficienza, dell’efficacia e dell’interesse nazionale. Le etichette, l’identità sono cose che riguardano la cattiva politica non la buona amministrazione. E, a questo proposito, vorrei sapere se appoggiando l’Ucraina e parteggiando per gli ambienti più oltranzisti della Nato si fa buona amministrazione, si persegue l’interesse nazionale, quello della società e dell’economia italiane o l’interesse di qualche particolare settore – dico, a caso, l’industria bellica o quanti hanno beneficiato del caro energia – o addirittura di singoli individui che si materializzano dovunque scorra del denaro.  Tornando alla scuola, c’è da sperare che il nuovo ministro sia uno del mestiere – dal curriculum non sembra – o che, quantomeno avverta la delicatezza e la centralità della formazione.  E, se l’avverte, saprà che prima del merito e prima della selezione ci sono i contenuti e gli obbiettivi, quelli che i compagni hanno snaturato o dimenticato. Il primo e decisivo obbiettivo è quello della coscienza e della continuità nazionali e per conseguirlo sono necessari lo studio rigoroso della storia e la frequentazione non occasionale ma sistematica e declinata secondo le sensibilità individuali dei classici.  Lo studio della storia non può ridursi all’histoire bataille ma men che mai deve annacquarsi in un sociologismo da quattro soldi: deve piuttosto essere sorretto dalla conoscenza  dalle vicende del costume, della cultura, della scienza, della tecnologia.

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E mi auguro che il ministro abbia un occhio di riguardo per la differenziazione dei percorsi formativi, che non ha niente a che vedere col classismo, come vuole la vulgata dei minus habentes della sinistra, parassiti che detestano il lavoro, in particolare quello manuale. Percorsi formativi di varia durata, secondo le attitudini individuali e le caratteristiche delle attività lavorative richieste dal territorio. A diciotto anni si ha diritto di entrare a pieno titolo  nel mondo del lavoro, con una preparazione che garantisca una soddisfacente realizzazione professionale e conseguente forza contrattuale. E, così come l’istruzione professionale va rafforzata nella sua specificità, la stessa forte caratterizzazione deve essere restituita agli studi umanistici destinati a protrarsi nell’istruzione superiore, Ma questo è un gatto che si morde la coda  se non si provvede immediatamente ad un riassetto degli studi universitari: è intollerabile che pretendano di insegnare greco o latino neolaureati che quando va bene hanno seguito  un corso di storia letteraria greco-romana perché il cattedratico altro non sapeva fare.  Se non ci sono docenti all’altezza non si attivano le scuole, punto.  In ogni settore il criterio generale deve ispirarsi alla semplicità alla chiarezza e al rigore: materie ridotte al minimo, contenuti circoscritti e conseguente possibilità di valutazioni univoche. Vale per la formazione degli studenti così come vale per la formazione dei docenti.  Poi c’è la questione annosa della valutazione sulla quale si sono versati inutili fiumi d’inchiostro perché non ha senso assolutizzarla e assegnarne  i criteri e le modalità a un organo centrale. L’organo centrale, lo Stato, è legittimo che si occupi dei programmi e, di conseguenza, di ciò che gli studenti devono imparare ma è ridicolo e assurdo che si occupi della valutazione, che, come le verifiche o le modalità di comunicazione o la prossemica sono interne alla attività didattica e come tali di esclusiva competenza del singolo insegnante. Dico del singolo insegnante e non del consiglio di classe o del collegio dei docenti, le cui competenze dovrebbero essere altre, disciplinari, di giudizio finale, di raccordo senza interferire con la relazione  docente-discenti. Gli organi collegiali, pensati male e applicati peggio vanno ridimensionati e ridefiniti proprio per restituire al docente la sua centralità e la sua solitaria responsabilità e, in questo quadro, va ridiscusso il ruolo delle famiglie, che non si devono arrogare una funzione di controllo sulla didattica o sui docenti ma sono tenute a collaborare con la scuola nell’interesse dei figli.

La scuola italiana deve essere ripulita dalle pastoie delle ideologie e di un pedagogismo d’accatto attinto a fonti contraddittorie e incompatibili fra di loro, che hanno contribuito a rendere complicato e confuso ciò che è di per sé semplice e naturale come il voto o la lezione; e si stia prudentemente alla larga dalla complessità della comunicazione didattica. Un vecchio detto recita: “chi sa fa e chi non sa insegna” e i governi che si sono succeduti dal dopoguerra in poi hanno fatto di tutto per inverarlo. Il sistema dei concorsi non ha mai funzionato bene sia per l’eccessiva discrezionalità delle commissioni, l’assenza di indicazioni univoche, lo scarso peso assegnato al cursus studiorum dei candidati sia per l’inesperienza di molti presidenti provenienti dalle facoltà universitarie e del tutto ignari di contenuti e metodi dell’insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado. Ma prima di intervenire sulle modalità di assunzione – vale a dire sulle procedure concorsuali – sarebbe necessario tornare al filtro dell’esame di abilitazione e a un albo professionale degli abilitati all’insegnamento, fuori del quale non si accede alla cattedra in alcun modo, né ai concorsi né alle graduatorie interne.
Per concludere, tralasciando i problemi di lana caprina del voto piuttosto  che il giudizio, della lezione dialogante e della posizione dei banchi  e senza invischiarsi nella ridicola retorica sul ritorno ad una scuola classista mai esistita, trovo ripugnante che nel Paese delle lobby, delle clientele, delle cordate, nel Paese del più sfrontato nepotismo e dei concorsi truccati, in una società in cui il merito se non è addirittura un handicap è però sicuramente ininfluente,  se ne faccia una questione per l’unico periodo della vita  di un individuo in cui l’essere “capace e meritevole” trova comunque un riconoscimento e una valorizzazione: gli anni della formazione, quelli della scuola, che, con tutti i suoi limiti e nonostante l’impegno che i compagni hanno messo per snaturarne la funzione (vedi per esempio la buffonata dei “bisogni educativi speciali”), continua a premiare l’impegno e le doti intellettive. Finita la scuola, il massimo dei voti alla maturità o la laurea con lode sono carta straccia. Strada sbarrata anche solo per un impiego in comune o un posto di vigile urbano.

Post scriptum

Mi è capitato di ascoltare le parole della rappresentante del collettivo di scienze politiche della Sapienza di Roma, occupata in segno di protesta per le cariche della polizia seguite al tentativo di impedire un convegno connotato a destra (e sai che destra con Capezzone!). La ragazza, con prosodia e lessico da bambina un po’ stordita, sostiene convintamente che “fascisti e reazionari” non devono entrare nelle università e che bisogna impedire che esprimano idee cattive e “illegittime”. Altro che merito. Scuola e università hanno davvero un grosso problema: assenza di filtri. Una così andava fermata in terza media e dirottata verso il lavoro dei campi, s’intende con qualcuno accanto a guidarla passo per passo

Pierfranco Lisorini

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