Covid e parassitismo

 Sul finire del 2019, quindi pochi mesi prima dell’arrivo della pandemia, Luca Ricolfi, docente di Analisi dei Dati all’Università di Torino, dette la sua ultima lezione, in concomitanza con l’uscita del suo libro “La società signorile di massa”. 

Di Ricolfi ho avuto modo di apprezzare alcuni suoi libri e interviste, sin da “Il sacco del Nord” nel 2010. E, in parallelo, ho seguito l’affermarsi del giovane filosofo Diego Fusaro, a partire da “Bentornato Marx” del 2009 e “Minima Mercatalia” del 2012.

Il primo verso l’epilogo della carriera universitaria, l’altro agli esordi. Con una visione della società insieme divergente e convergente. Più sotto, due grafici dal libro di Ricolfi.

 

Il libro di Ricolfi è un po’ la summa del suo pensiero, maturato in una lunga carriera accademica, e in sostanza rileva come la realtà italiana, osservata attraverso i numeri, sia molto diversa da come ci viene illustrata dalla politica e dai media. Ricolfi affida ad un ipotetico marziano in visita da noi lo stupore per la dissonanza tra quella raccontata, appunto, dalla vulgata politico-mediatica e quella che gli è dato di vedere girando per le strade, dove proliferano auto di fascia alta, persone eleganti, ristoranti pieni, consumi superflui a gogo, e via di questo passo. Se poi si documenta con i numeri e guarda le tabelle Istat, si rende conto che ormai i privilegi un tempo riservati ai “signori”, ossia alla nobiltà e al clero, siano ormai diffusi tra la maggioranza della popolazione: di qui il titolo del suo libro. Salvo oggi, a un solo anno di distanza, ricredersi sul termine “signorile” a causa del repentino sopraggiungere dell’impensato: il Coronavirus. Interrogato sul possibile ritorno alla “normalità”, ossia alla società da lui descritta nel libro, quando la prossima estate spazzerà via o quanto meno attenuerà gli esiti funesti del virus, Ricolfi risponde che:

La società signorile di massa già oggi non c’è più, o meglio sopravvive solo nell’ingenua credenza che, dopo il Covid, si possa tornare alla vita di prima. Se e quando “Coviddi” se ne sarà andato, l’Italia sarà come il governo giallo-rosso l’ha tenacemente e coerentemente plasmata: una società parassita di massa, in cui una minoranza sempre più esigua lavora e il resto della popolazione vive di trasferimenti e sussidi.

Se però macchine e informatica tagliano il lavoro umano, non equiparerei col medesimo termine di parassiti chi rimane forzatamente disoccupato e chi ai piani alti vive del lavoro altrui.

 

 

Come si vede, è dai primi anni ’60, che la forbice occupati/non occupati non fa che allargarsi.

Se togliamo questo termine spregiativo ai disoccupati, quella di Ricolfi è esattamente la società descritta nel mio recente “Servi della gleba”, in regresso verso la società signorile, ma castrata dell’attributo “di massa”, lasciando l’attributo di parassiti ai soli politici e alti burocrati, sul versante pubblico, e banchieri-finanzieri sul versante privato, che hanno ormai da tempo sostituito la nobiltà e un clero sempre più sparuto per la sua progressiva eutanasia di matrice socialista ed ecumenica. Questa nuova casta pubblico-privata è staccata da una massa para-schiavistica, dipendente dall’elemosina di Stato e quindi prona ad ogni suo comando, pena la perdita dell’obolo. Un obolo non solo avaro ma volutamente differenziato, onde scatenare una guerra tra poveri per il suo accaparramento, anziché una guerra verticale, o se vogliamo rivoluzionaria, contro gli altolocati parassiti e sfruttatori, anche grazie alla complicità di un’informazione al servizio di questi ultimi.

Quanto al pensiero di Fusaro, mirabilmente espresso nel suo Minima Mercatalia, il movimento del ’68 non colpì tanto il capitalismo, che anzi ne uscì rafforzato, quanto invece la borghesia, ossia la parte produttiva del Paese, in un lungo processo di dissolvimento della classe media, soggetta a ripetuti attacchi, formalmente contro uno Stato burocratico e inefficiente, in realtà a sostegno della sua spoliazione in una furia privatizzante che riuscì nel duplice intento di ingrassare le multinazionali e impoverire i lavoratori, sia dipendenti che autonomi. La borghesia, come enfatizza Fusaro, era la parte sociale consapevole dell’impossibilità di conciliare i propri valori emancipativi universali con lo sfruttamento schiavistico proprio del capitalismo, verso il quale covava dissenso, frutto della propria coscienza infelice.

 

Due visioni della società, che convergono nel definirla ormai basata su una massa para-schiavistica, sia che abbia un lavoro sia che ne sia espulsa e dipenda dall’elemosina pubblica. Se il libro di Ricolfi è uscito un anno fa, quello di Fusaro aveva anticipato i tempi; anche se, nel 2012, non era così difficile prevederli

 Insomma, secondo Ricolfi e Fusaro, nonostante una formazione politico-culturale assai diversa, la vecchia classe “padronale”, composta di capitalisti che avevano comuni interessi con i loro lavoratori, in quanto entrambi “sulla stessa barca”, è sfociata in una classe finanziaria che scorrazza in Borsa anziché impegnarsi in fabbrica, come naturale risultato di fiumi di denaro creato dal nulla che gonfiano le quotazioni aziendali senza riscontro con la realtà economica soggiacente. Il denaro, da specchio dei frutti del lavoro, è scaduto a pompa di gonfiaggio del valore fasullo delle aziende che li producono. E per sostenere tali valori gonfiati si enfatizza la crescita della produzione di merci voluttuarie ed effimere, in un accumulo di rifiuti che nessuno vuole poi veder smaltire vicino a casa. 

Che un sistema retto su simili basi di argilla, non possa durare, è ormai nella mente di tutti: lo si sente dire anche ai livelli più bassi dell’istruzione, perché un sano giudizio istintivo è pur sempre rimasto nel pensiero che attinge a ciò che vede, a dispetto di ciò che gli si vorrebbe far vedere. L’uomo della strada non è quello sciocco che le classi alte sperano che sia. Ma la sua forza sulla direzione della politica economica è pressoché nulla e si limita al mugugno da bar, salvo poi esprimersi vanamente col voto quando gli si consente di recarsi alle urne, sedi dell’illusione di contare qualcosa. Solo l’arrivo dell’impensato, come ho più sopra definito il virus, è riuscito a squarciare il velo sull’inconsistenza e l’incoscienza della società signorile di massa. Ma non nel senso auspicato di una maggiore consapevolezza e quindi in una minore inclinazione al consumo fine a se stesso. 

Domenico Fetti,1628. La parabola di “Lazzaro e il ricco Epulone”. Le eccessive disuguaglianze sociali smembrano la coesione e l’ordine sociale. Chi è preposto alla guida di una nazione dovrebbe seguire un corso poliennale di filosofia, ancor prima della politica 

Il motivo è che per buona parte della forza produttrice il sovra-consumo è essenziale anche solo per la propria sopravvivenza: vai a dire ai lavoratori, dipendenti o autonomi, coi redditi già al lumicino, che sarebbe auspicabile che il giro d’affari diminuisse. Lo sta penosamente sperimentando, e a sue sole spese, poiché è contornato da un numero più o meno pari di persone non toccate dall’indigenza, in quanto possono intaccare il pur decrescente patrimonio famigliare, o godere di una pensione o uno stipendio pubblico, ma divenute restie a spendere, e anzi propense a lasciare i soldi in banca, nel timore di un futuro presagito come peggiore del già fosco presente. Se prima questi privilegiati, includendo tra loro anche i pensionati delle fasce basse –quelli intorno ai proverbiali mille euro al mese- alimentavano il magro reddito di tanti lavoratori con i loro acquisti, oggi il loro rivolo monetario è venuto in gran parte a mancare; e quindi è ovvio che chi si trova costantemente sull’orlo del fallimento o del licenziamento non faccia che desiderare che “tutto torni come prima”, qualunque sia il suo prezzo, non ultimo quello ambientale, che finisce con l’essere considerato un “capriccio da ricchi”.

 

 

Aristotele non si stancò di enfatizzare, in particolare nell’Etica Nicomachea, il principio fondante del limite, della misura, in ogni ambito, dall’arte all’economia: in medio stat virtus. Il capitalismo ne costituisce l’esatto contrario, sfociando negli estremi di una plutocrazia politico-statale-finanziaria di contro ad una massa a metà tra minimo-garantiti e para-schiavi

Questo meccanismo, per cui sino a recentemente il benessere, e d’ora in poi la sopravvivenza, dipendono dal ciclo produzione-consumo, è puntualmente descritto da Fusaro nel succitato Minima Mercatalia, dove parla della corrente metafisica dell’illimitatezza, che ha sostituito i bisogni con i desideri. Differenza cruciale, in quanto, se i bisogni sono limitati, i desideri sono insaziabili e

 pongono in essere la compiuta insensatezza tratteggiata nel Gorgia platonico, in cui l’uomo folle versa olio nelle giare forate. […] Il sistema globale vive di desideri, poiché i bisogni, una volta appagati, lo porterebbero rapidamente verso letali crisi di sovrapproduzione e di sottoconsumo. 

Il vizio di fondo della nostra società è quello di essere mercantilistica: proprio la tara che la Grecia antica si sforzò di combattere, considerandola alla base della disgregazione sociale. E, secondo l’analisi di Fusaro, la filosofia nacque proprio come reazione alla perdita dei concetti di limite e di equilibrio, antitetici al mercantile sorgere della moneta e al desiderio inesausto del suo accumulo. Le Borse, che a tutto assegnano un prezzo, sono le chiese laiche dove si celebra la liturgia del denaro, in una replica aggiornata dell’antica Sibari, potente colonia della Magna Grecia nell’attuale Calabria. 

 

 

Resti dell’antica Sibari, VI sec. a. C. e una sua moneta d’argento, lo statere. Le mollezze che caratterizzarono i sibariti, assurti, secondo gli storici Erodoto, Diodoro Siculo e Strabone, a simbolo di venalità e di lussuria, furono il motivo principale della facile vittoria della pitagorica Crotone nella battaglia decisiva che ne decretò la fine, con Sibari sommersa dal fiume Crati, deviato dai crotonesi a damnatio memoriae. Fu in opposizione a quello stile di vita, basato sull’accumulo illimitato di denaro e sulla schiavitù dei debitori che ne conseguiva, che sorse la filosofia, sulle orme del grande legislatore ateniese Solone, che sancì l’estinzione dei debiti e l’abolizione della schiavitù  

La situazione pre-Covid corrisponde quindi alla società, non molto dissimile da quella sibarita, stigmatizzata da Ricolfi e Fusaro, le cui intime contraddizioni sono state fatte esplodere dal virus in maniera tanto brutale quanto repentina.

Il Covid, come tutte le influenze, passerà; ma le contraddizioni emerse resteranno in tutta la loro drammaticità. Il lato positivo è stata la netta indicazione di quale sarà l’assetto politico e sociale cui ci dovremo piegare, e cioè, piaccia o no, l’adattamento alla decrescita, che l’Italia aveva già spontaneamente iniziato a percorrere, pur ostacolata dall’antistorica scelta delle sinistre di restaurare il trend del passato mediante l’agevolato sbarco di clandestini a insana compensazione delle nostre culle vuote. 

    Marco Giacinto Pellifroni           22 novembre 2020 

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