Così ridevano

Così ridevano
Impariamo a riderci sopra, a ridere di noi stessi, a ridere a bocca aperta e ad alta voce, perché da sempre, il riso del popolo spaventa il potente, perché è liberatorio e non si può fermare

Così ridevano

 La barzelletta, la storiella, il motto di spirito, l’arguzia, accompagnano l’uomo perlomeno tanto quanto la commedia e la tragedia. Se è vero questo, allora è dai tempi di Sofocle o Euripide che si raccontano freddure. Riportando tutto a livello locale ed ai miei ricordi personali penso a mia nonna, in famiglia proverbiale raccontatrice di favole, che dipanava a tutto il nipotume nelle serate estive i racconti appresi oralmente, risentiti cento volte, eppure così emozionanti ogni volta. Al grido: “Ancora una! Ancora una!” lei rispondeva con una favoletta in dialetto savonese (era stata a servizio in città, in gioventù), la “foa du bestentu” un ritornello-indovinello ingannevole, dal quale non si esce: “È la favola del bestento, che dura lungo tempo. Vuoi che te la racconti?” che la risposta sia “SI” o “NO” si risponderà sempre: “Di si (o di no) non si dice, perché è la favola del bestento, che dura lungo tempo. Vuoi che te la racconti?”  Etc….


Certe sere, anziché favole, raccontava storielle. Non erano le barzellette sentite in televisione o alla radio, si trattava di reperti provenienti dal passaparola intorno al fuoco, di qualche anno prima. “C’era uno che si chiamava Giovanni, che aveva fatto un bel viaggio[1] di legna fino in città (poteva essere Acqui o Savona, comunque una “metropoli”. Ndr.) e siccome gli aveva reso bene aveva deciso di andare a mangiare al ristorante, ché lui non c’era mai andato. Mangiava poco e male a casa sua e ogni tanto andava all’osteria del suo paese, dove c’era sempre polenta e baccalà.

Trovato il ristorante, entra e si siede, poi si guarda un po’ intorno, genato da tutte quelle tovaglie bianche, le luci e gente elegante. Viene il cameriere e gli chiede cosa vuole. Lui dice: “Mangiare”. E il cameriere gli fa l’elenco di tutto quello che c’è e, fra i quali, dice anche: “Pasticcio di mais con pesce veloce del Baltico”.  “Porca miseria” pensa Giovanni, “Questo deve essere un mangiare speciale, un affare così a casa mia non lo mangio senz’altro. Lo ordina, e presto scopre che altro non è che polenta e merluzzo. Certo che mandarlo indietro gli rincresce, e visto che è lì che ha fame, se lo mangia. Intanto il suo vicino di tavolo mangia una bellissima bistecca alta tre dita con un ricco contorno di patate fritte. Allora presta attenzione, e quando il vicino finisce sente che questo chiama il cameriere e gli dice: “Replica!” e il cameriere gli porta un’altra bistecca. “Ho capito!” pensa Giovanni pregustandosi la carne. Finisce svelto la polenta, poi chiama il cameriere e gli dice “Replica!” e il cameriere giù un altro piatto di polenta e merluzzo… Potete immaginare la faccia di Giovanni, ma ormai, visto che l’aveva nel piatto, mangiò anche la seconda porzione.” Intanto si nota come il soggetto che muove al riso sia un contadino, un carrettiere, si tratta quindi di autoironia, o forse addirittura di commiserazione. Il poveretto, affamato, ha finalmente i mezzi per ottenere una soddisfazione, ma non è abituato, non conosce e non sa la lingua che si parla nei ristoranti. Viene traviato dal nome altisonante di una portata, quasi come si trattasse di una truffa. In qualche modo la morale di questa storia dice: “Non ti fidare di chi usa parole che non conosci”. E l’errore si ripete con il vicino di tavolo, proprio quando il protagonista è più sicuro di sé. Insomma, l’insegnamento è che il mondo è difficile e rischioso, conviene dunque restare al proprio posto: se Giovanni fosse andato alla solita osteria non avrebbe rischiato nulla.


Un’altra: Mario è un bambino povero, a scuola i compagni lo prendono in giro perché mangia solo e sempre polenta. Sua mamma, vedendolo triste, lo consiglia: “Racconta una piccola bugia: digli che hai mangiato ravioli, così la smettono”. Il bambino torna a scuola rianimato dalla buona idea. Uno dei compagni gli chiede: “Cos’hai mangiato oggi? Polenta, come al solito, vero?”. “No, stavolta no. Stavolta ho mangiato ravioli!”. “Ah si?!” si stupisce il compagno, “e quanti?”. “Tre fette!” Risponde Mario con sicurezza.

Si può commentare che la scuola è un luogo in cui ci si confronta, e i confronti possono essere dolorosi. Poi si nota come l’argomento principe delle storielle sia in qualche modo il cibo. Ce lo conferma questa ultima facezia:

Marito e moglie, umili e devoti contadini, hanno mandato il figlio in seminario per farsi prete. Finalmente è tornato e, per qualche giorno, starà con loro. A pranzo, per festeggiarlo, la madre ha fatto cuocere un grosso pesce pescato fortunosamente dal padre. È la madre stessa a decidere che sia il figlio prete a procedere a una giusta divisione della pietanza. Tutti e tre intorno al tavolo, in piedi. Il figlio comincia a borbottare in latino. Poi prende un coltello e declama: “Testa pater, coda mater, corpus meus” lasciando allibiti e incapaci i congiunti, rassegnati alla divisione fatta dal ministro della chiesa.


E qui si nota, oltre al fatto che l’unico modo per immaginare il figlio di contadini un istruito, si debba vedere in abito talare, la solita solfa per cui chi studia, chi sa leggere e far di conto viene incaricato dallo stesso popolo di amministrare la cosa pubblica, ma è la stessa ignoranza della plebe che la forma come vittima ideale di una classe covata in seno, allevata e cresciuta nella stessa famiglia.

Il pregiudizio non è mai un buon filtro per osservare il mondo. Ma noi, oggi, ci facciamo prestare la visione di insigni opinionisti. Giudichiamo, senza conoscerli affatto, problemi che la televisione ci propone già risolti, che i politici cavalcano per raccogliere facili consensi.

Almeno torniamo ad un pregiudizio che discenda direttamente dalla nostra appartenenza: un certo sospetto per il potere (politico, economico, istituzionale) io credo sia salutare. Come è giusto avere qualche pregiudizio per chi non usa le parole giuste per dire le cose semplici, ma cerca di alzare polvere, forse per il suo interesse.

E infine, impariamo pure a riderci sopra, a ridere di noi stessi, a ridere a bocca aperta e ad alta voce, perché da sempre, il riso del popolo spaventa il potente, perché è liberatorio e non si può fermare.

[1]Viaggio di legna” significa “carico” o “un carro pieno”, cioè quanto un carro trainato da buoi (o vacche), nello specifico del tempo e del luogo, può trasportare.

ALESSANDRO MARENCO

 

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