IL PECCATO E LA LEGGE

IL PECCATO E LA LEGGE

 
IL PECCATO E LA LEGGE

  Scrive  San Paolo nella Lettera ai Romani: “io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare” (Rm 7, 7). Come infatti potrebbe esserci coscienza del peccato, quindi del male volontario, se non si avesse cognizione  dei limiti da non oltrepassare, delle norme da non violare, dei comandamenti ai quali si è tenuti ad obbedire e la cui inosservanza non può rimanere senza conseguenze? La coscienza del peccato, quindi del male volontario, non potrebbe sussistere senza la conoscenza di quei limiti, di quelle norme e di quei comandamenti.


E tuttavia, come possiamo constatare quotidianamente, questa conoscenza è sì necessaria, ma non sufficiente a impedire che si cada prima in tentazione e poi, a causa della debolezza e pesantezza della nostra “carne”,  nel peccato. Quindi la conoscenza, da sola, non basta a impedirci di commettere il  male volontariamente; già  lo sapeva bene la Medea di Ovidio che confessa Video meliora proboque, deteriora sequor…(Metamorfosi, VII, 20), concetto ripreso dal Petrarca nella canzone ‘I vo pensando…dal Boiardo nell’Orlando innamorato I, 1, 31, e dal Foscolo, Sonetti II, “Conosco il meglio ed al peggior mi appiglio. E  San Paolo dice “Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene, c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo, infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rm 7, 18-19); ma dice  anche che non avrebbe conosciuto la concupiscenza se non si fosse trovato davanti al comando della legge che proibisce addirittura i desideri carnali, e proibendoli, li stimola: “Quando infatti eravamo nella carne, le passioni peccaminose, stimolate dalla legge, si scatenavano nelle nostre membra al fine di portare frutti per la morte”. Ora, siccome l’espressione “stimolate dalla legge” potrebbe indurre in errore i destinatari romani “diletti da Dio e santi per vocazione” della lettera, Paolo spiega che il peccato non può mai essere imputato alla legge di Dio, che è santa,  ma soltanto alla debolezza della “carne” che prende occasione da questo comandamento per scatenare ogni sorta di desideri; evidentemente anche per l’Apostolo non c’è come la proibizione di fare qualcosa per far nascere il desiderio di farla: “Il peccato, infatti, prendendo occasione dal comandamento, mi ha sedotto e per mezzo di esso mi ha dato la morte”. Proprio come era successo ai destinatari della sua lettera: “Quando infatti eravate sotto la schiavitù del peccato, eravate liberi nei confronti della giustizia. Ma quale frutto raccoglievate allora da cose di cui ora vi vergognate?”. E’ presto detto: il frutto di quella  libertà è la morte: “Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santificazione e come destino avete la vita eterna.


Perché il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore”. Dunque la morte, secondo San Paolo, è il frutto avvelenato del peccato, non della legge, perché “la legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento”. Ma allora come è possibile che il male, cioè il peccato, si serva del bene, cioè della legge o del comandamento, per dare la morte? O che il bene, cioè la legge e il comandamento,  lasci che il male, cioè il peccato,  si serva di lui per dare la morte? Ma San Paolo nega cheil bene possa mai essere causa di morte: “Ciò che è bene è allora diventato morte per me? No davvero! E’ invece il peccato; esso per rivelarsi peccato mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché il peccato apparisse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento”. Per mezzo della legge, dunque, il peccato rivela  la sua vera natura: “Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato”. A questo punto San Paolo confessa di non riuscire a capire se stesso; o meglio,  non riesce a capire perché fa quello che non vuole e non fa quello che vuole. Questa lacerante contraddizione non può spiegarsi se non con la presenza di due leggi che si combattono nella sua anima, una è la legge di Dio, l’altra è quella del peccato: “Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che  è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rm 7, 22-24). Dal momento che lo “schiavo” non può liberarsi da solo, non c’è che da sperare nell’intervento sovrannaturale dello Spirito; ma questo intervento pare che non sia possibile senza il libero assenso e la volontà dello schiavo di liberarsi dalle sue catene invisibili, cioè senza la sua conversione (metanoia). Per la Chiesa cattolica romana non c’è salvezza per chi non vuole essere salvato;  per  quelli che vivono in Cristo Gesù, invece,  non c’è più nessuna condanna, “poiché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte…” (Rm 8, 2). Ma come è avvenuto che cadessimo schiavi della legge del peccato e della morte? Di chi è stata la prima colpa? Ho trovato una suggestiva interpretazione del peccato originale nel bel libro di Mario Brelich Il navigatore del diluvio (Adelphi, 1979). 


“E’ difficile farci un’idea – asserisce Brelich – di com’era  l’uomo, immagine di Dio, prima della sua caduta, e che cosa lo distingueva dagli altri animali, dai rettili e dagli uccelli del cielo, che tutti quanti dispongono di un’anima viva e di un certo grado d’intelligenza. Nemmeno dobbiamo supporre un’intelligenza superiore nei nostri primi progenitori, dato che essi erano, appunto, immagini, vale a dire forme chiuse e perfette, non destinate a ulteriori sviluppi. Quella differenza  essenziale non doveva, certo, risultare dalla loro conformazione fisica o psichica, bensì dalla loro situazione nell’Eden”. La differenza consisteva nel fatto che per gli animali non era previsto nessun frutto proibito da parte di Dio, mentre all’uomo era stato espressamente vietato di cibarsi dei frutti di un certo albero. Perché? “L’albero proibito era una pianta di meravigliosa potenza; si chiamava l’albero della scienza del bene e del male, oppure l’albero dell’onniscienza: colui che mangiava del suo frutto diventava partecipe e padrone delle connessioni cosmiche. Intuiva  tutti i piani e le intenzioni di Dio, intravvedeva nell’esistente il nulla, indovinava nell’essere il divenire, era contemporaneamente mezzo e fine, accogliendo in sé l’armonia scaturita dai contrasti dell’universo. Colui che si nutriva di quel frutto, diventava parte integrante ed organica del Tutto in tal misura da non sentirsi più parte, bensì tutto…”.

Insomma, Adamo, cibandosi di quel frutto “sarebbe potuto, col tempo, divenire Dio – se Dio gliel’avesse permesso”. Ma Dio non solo non gliel’ha permesso, ma, come sappiamo,  ha maledetto e fatto irosamente cacciare Adamo  ed Eva dall’Eden, cioè dalla originaria condizione di innocenza e di assenza di peccato. Perché? Perché creare l’uomo libero sapendo (o non lo immaginava?) l’uso che avrebbe fatto del suo libero arbitrio?

Non gli bastavano gli angeli (e lasciamo adesso stare la questione degli angeli ribelli)? Che cosa si aspettava da un uomo e da una  donna fatti in quel modo, cioè troppo inclini a infrangere i divieti e a disobbedire ai comandamenti divini? Che progetti aveva su di loro? Lo sapremo un giorno?

Altra questione: è ancora possibile la salvezza di tutta l’umanità?

Ovvero, sarà mai possibile  la vittoria definitiva del bene sul male? E’ concepibile l’esistenza di un bene assoluto di contro a un male altrettanto assoluto? Sarà mai possibile l’assimilazione senza residui dell’uomo a Dio, cioè la santità universale?

O me sventurato! Chi mi libererà da questo corpo  votato alla morte?

   FULVIO SGUERSO      

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