Conoscere, giudicare, ricordare

Kant le chiamava antinomie della Ragion pura. Sulle questioni che oltrepassano l’orizzonte del conoscibile, vale a dire i poteri dell’intelletto, non è possibile stabilire quale di due affermazioni contrarie sia vera. E ricordiamo che uno degli assiomi della logica classica recita: A o non-A, bianco o non-bianco, tertium non datur, non c’è una terza possibilità. E alla base della conoscenza, e della scienza, c’è il riconoscimento della possibilità teorica di dimostrare che è A o che è non-A: se questa possibilità non è data vuol dire che ci si è avventurati non in un territorio da esplorare ma in un territorio inesistente o comunque inaccessibile.

C’è un senso nell’universo  o un semplice gioco di forze? Tesi, antitesi: entrambe vere, entrambe convincenti ma non possono essere entrambe vere e non è ipotizzabile dimostrare la veridicità o la falsità dell’una o dell’altra.  Ma una cosa è conoscere, giudicare un’altra cosa. Conoscere significa ricostruire i fatti, e in questa materia vale il principio che i fatti rientrano nell’orizzonte del conoscibile: non sappiamo se Napoleone sia morto per cause naturali o sia stato avvelenato; non lo sappiamo ma potremmo saperlo se riuscissimo a trovare le prove, cioè a rimettere insieme i fatti. Però se Napoleone sia stato un avventuriero o un grande statista non ci sono fatti che lo possano dimostrare: ognuno è libero di pensarla in un modo o in altro e di cambiare opinione, perché, appunto, di opinioni si tratta. Non è però un’opinione che la campagna di Russia si sia risolta in un disastro: è un fatto.
E davanti alla vicenda ucraina è perfettamente legittimo provare simpatia e parteggiare per una delle due parti in conflitto. Quello che non è legittimo è il tentativo di alterare i fatti, nasconderli, prendere per buone notizie palesemente false. Ne ho sentite di tutti i colori da parte di signori che occupano posizioni apicali nella politica, nel giornalismo, negli organi istituzionali, nell’accademia. Non faccio nomi perché non ne vale la pena. C’è perfino chi ha sentenziato che Putin ha violato gli accordi di Yalta (!) dando l’impressione che non sapesse di cosa stesse parlando.

Fa comodo, soprattutto a certe cariatidi del sistema mediatico di regime dai trascorsi giovanili un po’ burrascosi, avere la memoria corta. Nel secondo dopoguerra il mondo cosiddetto libero doveva affrontare due problemi: la presenza di partiti comunisti all’interno e all’esterno l’Unione sovietica che li sosteneva. E per fronteggiare questi problemi esistevano la Nato, la Cia e i servizi segreti: tutto era in funzione antisovietica e anticomunista.  L’altra cosa che andrebbe fatta tornare alla memoria a quanti allegramente confondono le ragioni geopolitiche con le peculiarità dei regimi è la discontinuità fra il regime aristocratico della Russia zarista poggiante sulla servitù della gleba e una rigida compartimentazione in classi sociali, la Russia del socialismo realizzato e lo Stato sorto dalla sua implosione. Il phylum che unisce queste tre realtà è una consolidata compattezza etnica e linguistica che veicola una memoria storica agganciata alla tradizione cristiana e all’eredità bizantina, l’altra faccia dell’Europa da Diocleziano in poi. Con la presa del Palazzo d’Inverno si buttò via quel che di retrogrado rappresentava l’autocrazia ma insieme si spezzò la continuità di quella cultura in nome di una nuova religione, il marxismo riveduto e corretto da Lenin. Dimenticare la specificità di un regime giustificato, retto e ispirato a quella religione in tutti i suoi aspetti, dalla politica economica a quella sociale, dalla ricerca scientifica alla scuola, significa semplicemente travisare la storia.  Ricordo agli smemorati che la dottrina veniva prima, molto prima, della politica ed era quest’ultima a dipendere dalla prima e non, come accade di solito, il contrario (curioso paradosso per un marxista).

Ivan Pavlov

Tant’è che Pavlov, uno dei fondatori della psicologia moderna, rimasto borghese senza concedere niente al regime, viene da questi coccolato perché la sua attività di scienziato è in linea con  l’ateismo di Stato e i principi del materialismo; una cosa ridicola ma presente anche nel Pci finché non dové fare i conti coi preti operai, i don Milani e l’elettorato femminile: il comunista ortodosso però era ateo e materialista, e nel suo schematismo mentale si confondevano scientismo e industrializzazione.   Per un altro verso Makarenko, che pure era antiborghese, vicino al popolo e del tutto privo di vincoli col passato monarchico, fece una brutta fine perché sospettato di non condividere i dogmi del marxleninismo . Insomma la Russia sovietica è stato un esperimento – fallito – di organizzazione politica e sociale basato su una dottrina rigida e intollerante incarnata da un partito che coincideva con lo Stato: considerarla semplicemente un’autocrazia, una dittatura o un sistema autoritario è una sciocchezza e un falso storico: quello che la giustificava, la connotava e la teneva in piedi era l’utopia comunista.  Il pericolo per l’Occidente non veniva dalla Russia come Stato ma dal comunismo, dalla minaccia alla proprietà privata, alla libertà d’impresa, alla libera educazione, alla libertà di espressione del pensiero, alla libertà dello stile di vita. Il comunismo era una riedizione dell’integralismo religioso, dell’intolleranza, della pretesa di dividere gli uomini fra buoni e cattivi.  In cambio però lo stato sociale funzionava davvero, non come in Italia o nel paradiso americano della democrazia dove i poveri per campare frugano nella spazzatura e le università più serie sono precluse anche alla middle class: la povertà assoluta era sconfitta (per davvero e senza enfasi alla Di Maio), il diritto al lavoro, alla casa, all’istruzione, alla salute era garantito a tutti.  Non per niente oggi in Russia c’è una minoranza di emarginati che ha buoni motivi per guardare indietro con rimpianto.

Quindi, chiusa la parentesi sovietica, la Russia cessa di essere un pericolo per l’ordine sociale europeo  e occidentale, i partiti comunisti privi dello Stato guida si sgonfiano o si trasformano e la rivoluzione diventa roba da terzo mondo. La Russia risorta dalle sue ceneri avrebbe dovuto tornare ad essere uno Stato europeo fra Stati europei ma non può riprenderei il suo posto perché la guerra mondiale ha annichilito vinti e vincitori e tutti, dal Regno Unito alla Francia, dalla Germania all’Italia, sono diventati succubi dell’economia e della politica americane. Ma l’orso russo, troppo grosso e indigesto anche senza i satelliti finiti in un’altra orbita, impedisce allo zio Sam di farsi un boccone dell’Europa e lo mette di fronte a un dilemma: continuare in un nuovo scenario la politica di Yalta rinverdita a Pratica di Mare e rispettare gli accordi di Minsk, proseguire insomma con una politica distensiva col traguardo della messa al bando delle armi nucleari, il superamento della politica dei blocchi, la rinuncia ai ruoli di Super Potenza e di gendarme del mondo o schiacciare l Russia prima che finisca per attrarre verso di sé gli altri Paesi dell’Europa restituendo loro, mutatis mutandis, l’autonomia di cui godevano prima della guerra. Il primo corno del dilemma è il De profundis per l’imperialismo americano e, per riflesso, la fine della finanza globale e del duopolio cinoamericano.

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Che è comunque, a mio parere, una strada obbligata per quanto lunga e irta di ostacoli, una strada che l’attuale amministrazione americana cerca in tutti i modi di rendere impraticabile.  In linea di principio e di fatto il concetto di superpotenza non sta in piedi, non regge culturalmente storicamente e politicamente. Checché se ne dica la piccola Olanda è uno Stato più solido e più rispondente alle funzioni di un’organizzazione statuale, quindi più “potente”, del subcontinente indiano. Quando sento parlare dell’India come superpotenza mi viene da ridere; se poi le si attribuisce anche lo status di democrazia si scade nel grottesco: più aumentano i suoi abitanti più aumenta la loro povertà relativa e assoluta; più i suoi abitanti acquistano coscienza dei loro diritti e raggiungono un minimo di benessere più forte diventa il sentimento di identità e le spinte centripete cominciano a prevalere; c’è già stata la linea di frattura del Pakistan, ma è solo un inizio tanto più che l’idea che i conflitti si risolvano nell’urna è sconosciuta da quelle parti. Poi gli analisti di cose militari si possono divertire a contare jet, carri armati, sistemi missilistici e portaerei ma resta il fatto che la popolazione indiana è un’accozzaglia di lingue, comunità, tradizioni, un ventre molle in endemico conflitto con il suo vicino islamico anch’esso con una forza militare inversamente proporzionale alla sua solidità e alla sua tenuta sociale. C’è da augurarsi che questi Stati, che siano o no potenze militari, riescano a sfamare i loro popoli altrimenti sì che diventeranno una minaccia ma per la loro debolezza non per la loro illusoria forza.

Con ciò non intendo svalutare il ruolo dell’India, che ritengo decisivo per bloccare, sul piano politico e culturale prima che militare o economico, l’aggressività e le pretese egemoniche americane.. Semplicemente mi rifiuto di accettare l’idea che la sorte del pianeta debba essere considerata una faccenda fra grandi potenze. Dirò di più: sono convinto che il concetto stesso di “Grande Potenza” o di “Super Potenza” debba essere respinto come privo di senso. E, per tornare all’India, la patria di Gandhi rappresenta anche simbolicamente il tramite con le nostre radici, la culla della civiltà universale e il modello di quella resilienza della quale straparlano i media. All’arroganza del potere militare e finanziario  l’India si contrappone rifiutando il confronto sul terreno  del suo avversario per rimanere sul proprio, quello della tradizione, dei valori immutabili dell’umanità e della spiritualità non compromessi dalla latente conflittualità, dalla fragilità istituzionale e dalla povertà di massa. Quella indiana, insomma, mi sembra la più coerente e genuina alternativa al nichilismo corrotto e distruttivo americano. Un’alternativa rinforzata, per motivi diversi, dalla convergenza di interessi di altri grandi Paesi che insieme rappresentano numericamente e geograficamente (ma non è questo il punto)metà del pianeta. In questo quadro diventa riduttivo considerare la Russia il braccio armato della Cina. Questa è la prospettiva americana, che guarda al mondo come uno scacchiere di guerra reale o virtuale. Ad essa, se l’umanità vuole avere un futuro e un futuro degno di essere vissuto, va sostituito il multicentrismo all’interno di una comune civiltà umana che si riconosce nella diversità, nella reciproca curiosità e nel reciproco rispetto. E in cui si possa senza ipocrisia porre il tema drammatico dei consumi, della dilapidazione delle risorse,della qualità della vita, della salvaguardia dell’ambiente.

Pierfranco Lisorini

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