LE RAGIONI DI PUTIN

Fin dall’inizio dell’ “operazione militare speciale” di Vladimir Putin in Ucraina, oltre al coro pressoché unanime di voci  che, in Occidente,  si è levato contro il Presidente  di tutte le Russie, in carica da almeno una ventina d’anni, si sono registrate subito alcune voci fuori dal coro che, invece,  hanno riconosciuto le buone ragioni che lo hanno indotto a procedere verso la suddetta operazione militare, la quale, come sappiamo, in Russia è vietato chiamarla guerra (come se, cambiando le parole, si potessero cambiare le cose).

Alcune le ha formulate il Presidente medesimo, altre i più importanti membri del suo governo e autorità religiose come il patriarca di Mosca Cirillo I.  Buone ragioni condivise da una parte non esigua dell’opinione pubblica italiana, che vede in Putin l’uomo forte che non ha bisogno di chiedere ma,  e da qualche intellettuale bastian contrario per carattere o per vocazione o per una  inguaribile sindrome di narcisismo secondario,  che “ragiona con la propria testa”, sulla scorta dell’adagio amicus Plato … con quel che segue, convinto di combattere la sua giusta battaglia, come ha dichiarato uno di loro, contro la dittatura del pensiero unico  Ma vediamo almeno alcune di queste ragioni addotte da Putin: 1) l’Ucraina era diventata un pericolo per la Russia a causa dell’alto numero di neonazisti infiltratisi nei ranghi dell’esercito e delle istituzioni politiche di quel Paese contrario all’indipendenza del Donbass russofono e russofilo, a sua volta contrario all’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea; è già questa sarebbe stata una ragione sufficiente per sottometterla, onde sventare il pericolo di una loro invasione militare del Donbass.

2) Infatti il ministro degli Esteri Lavrov ha ricordato, in un’intervista trasmessa da Russia Today, che l’esercito ucraino stava preparando un’invasione su larga scala nella regione del Donbass est denominata “Piano B”. 3) L’ipotetica realizzazione di tale piano non avrebbe trovato ostacoli nella comunità internazionale nonostante l’evidente violazione del diritto all’autodeterminazione dei popoli. 4) Lavrov  ha toccato anche l’argomento dei biolaboratori segreti finanziati dagli Stati Uniti. 5) A riprova, nella città liberata di Mariupol c’erano dei laboratori che gli americani hanno abbandonato e smantellato in gran fretta per non lasciare tracce. 6) L’Occidente sta combattendo  una guerra per procura contro la Russia servendosi delle mani, del corpo e del cervello dei neonazisti  ucraini. 7) L’Ucraina era ormai di fatto una longa manus degli Usa (come d’altronde la stessa Europa) e il presidente Zelenskyj un burattino teleguidato da Washington. 8) Come ha riconosciuto anche Papa Francesco, la Russia aveva ragione a sentirsi accerchiata dalla Nato che si muoveva in Ucraina come a casa propria, “abbaiando” ai confini della Santa Madre Russia da un territorio storicamente e culturalmente di sua appartenenza.

Biden e Zelenskj

E fin qui abbiamo considerato il punto di vista interno alla narrazione russa, difficilmente distinguibile dalla propaganda di guerra; ma, se ci fermassimo qui, avremmo il punto di vista di una parte sola e per di più viziato dalla volontà manipolatoria di una delle due fazioni combattenti, di modo che non arriveremmo mai a capire i veri motivi di un conflitto tanto feroce quanto apparentemente insensato. Vediamo allora di considerare la questione da un punto di vista esterno alla narrazione putiniana, partendo dalla storia tormentata dei rapporti tra Ucraina e Russia. E’ vero che la “Santa Russia” ebbe i suoi natali a Kiev, capitale dell’antica ‘Rus’, che divenne cristiana nel 988, quando Vladimir il Grande si convertì e si battezzò nelle acque del fiume Dnpr, a Kherson, vicino a Odessa, con la famiglia. La Rus di Kiev è dunque all’origine della Russia odierna; ma da allora ai giorni nostri è passata tanta acqua, anche rossa di sangue, sotto i ponti del Dnpr: nel Medioevo la regione fu il luogo centrale della cultura degli slavi orientali con la federazione tribale della Rus di Kiev, che costituì il fondamento dell’identità ucraina. A causa della frammentazione in diversi principati, nel XIII secolo e della devastazione provocata dall’invasione mongola della Russia, l’unità territoriale crollò e l’area fu contesa, divisa e governata da potenze diverse, come la Confederazione polacco-lituana, l’Austria-Ungheria, l’Impero ottomano e il Regno russo. Nei secoli XVII e XVIII prosperò un Etmanato ( entità statale) cosacco, ma il suo territorio fu infine smembrato tra Polonia e Impero russo. Come ricostruisce lo storico Massimo Vassallo nella sua Breve storia dell’Ucraina . Dal 1914 all’invasione di Putin (Mimesis edizioni) il difficile cammino dell’indipendenza ucraina comincia nella seconda metà dell’Ottocento quando, sotto il dominio dell’ Impero austro-ungarico la regione della Confederazione polacco-lituana venne denominata regno di Galizia e Lodomeria. La Galizia ebbe la stessa funzione del Regno di Sardegna riguardo all’Indipendenza italiana: diede asilo agli esuli dell’ Ucraina russa, accolse i nazionalisti e permise la sopravvivenza della loro lingua quando, , per circa un quarantennio, l’ucraino fu bandito nell’ Impero russo.

8 dicembre 1991, i presidenti di Russia, Bielorussia e Ucraina firmarono l’accordo

Dopo la rivoluzione d’ottobre l’Ucraina divenne una delle quindici repubbliche dell’Unione Sovietica, perse ogni autonomia e la sua lingua venne soppiantata nell’uso quotidiano dal russo. Bisogna arrivare allo sfacelo dell’Unione Sovietica – quando l’8 dicembre 1991, i presidenti di Russia, Bielorussia e Ucraina firmarono l’accordo che ne sanciva la dissoluzione – per ritrovare un’Ucraina indipendente che non voleva più avere niente a che fare con i sovietici. La Crimea e il Donbass mantennero il loro attaccamento ai simboli sovietici, considerandoli parte essenziale della propria identità. La prima a buttare alle ortiche i reperti russi fu proprio la Galizia, nel resto dell’ Ucraina occidentale e nella capitale Kiev il rigetto degli emblemi dell’ Impero russo fu più lento e venne accelerato solo dalla rivoluzione arancione, il movimento di protesta non violento, sorto all’indomani delle presidenziali  del 21 novembre 2004, nelle quali risultò in vantaggio Viktor Janukovyc, fedelissimo di Putin. Sennonché lo sfidante Viktor Juscenko contestò i risultati, denunciando brogli, e chiese ai suoi sostenitori di restare in piazza fino a che non fossero state concesse nuove consultazioni.

Viktor Juschtschenko Viktor Janukovyc 

A seguito delle proteste, la Corte suprema ucraina invalidò il risultato elettorale e indisse nuove elezioni dalle quali risultò vincente proprio Juscenko, con il 53 per cento dei voti. La desovietizzazione proseguì così il suo cammino. L’abbattimento  definitivo delle statue degli eroi sovietici e persino di quelli russi ottocenteschi si realizzò con la rivoluzione ucraina del2014, scaturita dalla sommossa di Kiev di nuovo contro Janukovic, tornato al potere nel 2010, che si era rifiutato di firmare un accordo con l’Unione europea, preferendo un prestito russo, e i cui fili erano tirati dal burattinaio Putin. Dopo la fuga di Janukovic venne introdotta una democrazia multipartitica e si tennero regolari elezioni con il mandato di sconfiggere la corruzione dilagante. Fu così che alle presidenziali del 2019 stravinse a sorpresa l’attore televisivo Volodymyr Zelenskyj, con gran dispetto di Putin. Il quale, da parte sua, pubblicò, il 12 luglio del 2021, un intervento intitolato “Sull’unità storica di Russia e Ucraina” . Questo scritto va dritto al cuore della questione russo-ucraina, che non è la paventata adesione alla Nato dell’Ucraina o la secessione e l’indipendenza del Donbass, ma la negazione dell’indipendenza del popolo ucraino come entità a sé stante, quindi della sua stessa esistenza di fatto e di diritto. E ora ditemi voi quali trattative di pace  siano possibili su queste basi.

Fulvio Sguerso

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