Commento all’11° Mottetto [da “Le Occasioni”] di Eugenio Montale
L’anima che dispensa
furlana e rigodone ad ogni nuova
stagione della strada, s’alimenta
della chiusa passione, la ritrova
a ogni angolo più intensa.
La tua voce è quest’anima diffusa.
Su fili, su ali, al vento, a caso, col
favore della musa o d’un ordegno,
ritorna lieta o triste. Parlo d’altro,
ad altri che t’ignora e il suo disegno
è là che insiste do re la sol sol…
Validamente propedeutica all’undicesimo Mottetto, questa citazione da La tradizione del Novecento di P.V.Mengaldo:
E’ ben noto che i motivi musicali sono nelle “Occasioni” tra i più comuni “segni” tramite i quali il poeta riesce o si illude di riuscire a entrare in comunicazione quasi “medianica” con la donna amata, la cui anima gli sembra materializzarsi in quelle note a loro care e familiari.
Premesso ciò, i vocaboli insoliti che troviamo nella lirica, oltre al desueto “ordegno”, sono “furlana” e “rigodone”.
Indicano due festosi balli del folklore rispettivamente friulano e provenzale.
Se si salta alle ultime cinque parole del componimento, che sono anche cinque note musicali, e si va a vedere cosa ne dicono i filologi che se ne sono occupati, l’analisi si fa subito intricata.
Lo constatiamo esemplarmente dal bell’articolo di Cristina Ubaldini, I nomi e le donne, in un solfeggio, e lo incrociamo con la scoperta di Luciano Rebay secondo cui la canzone, famosa all’epoca, a cui appartiene il “disegno”, come egli scrive, dell’ultimo verso “do re la sol sol…”, sarebbe Portami tante rose, incisa nel ’34 da Ada Neri.
Ecco la parte del testo di interesse:
“So che fermarti è van,
so che tu parti doman,
non darti pena per me,
ma un dono sol vorrei ancor da te.
Amore, amor,
portami tante rose,
stasera ancor
tu dimmi tante cose.
Soffocherò il mio cuor
come pretendi tu,
potrai mentire ancor,
non piangerò mai più.
Amore, amor,
non piangerò mai più.
Che mai sarà di me?”
Ebbene, notiamo che la canzone in effetti è piuttosto conforme alla situazione di Montale, purché nel parallelismo si guardi al concetto e si prescinda dal sesso. Egli deve subìre la partenza di Irma perché sa che il motivo che la provoca (le Leggi Razziali) è di forza maggiore.
Cerca, se lo vediamo immedesimarsi nel testo di essa e porsi quale co-protagonista, di non farle pesare il suo (di lui) dolore al fine di non provocargliene dell’altro in aggiunta.
La rassicura dicendole che lui saprà affrontare l’evento con determinazione e coraggio.
Nell’ultimo verso però (staccato non a caso dagli altri a mo’ di frattura), fa intendere che il dialogo s’è trasformato in un “tra sé” (alla stregua di quando l’attore sul palco pur in presenza di altri personaggi, si rivolge esclusivamente alla platea e questa deve stare al gioco, fingendo che nessuno, pur essendo sul palco con lui, senta; semplicemente perché nell’intenzione dell’attore in azione, del regista nonché della logica della trama, non deve sentire) e pertanto si permette di lasciarsi andare alla verità vissuta in quel frangente: “Che mai sarà di me?”
Dal canto suo la Ubaldini riesce a proporre un’interpretazione anch’essa credibile, perché se è vero che le zeppe vocaliche che inserisce (lo vedremo tra poco) sono ad libitum, è altresì vero che sono in linea di continuità con le tante apocopi della canzone, ben 9 solo nel brano riportato!, e possono essere considerate un ricondurre alla completezza originaria la parola (la nota) con la stessa legittimità con la quale noi potremmo riportare alla completezza originaria, appunto, ogni apocope altrettanto liberamente operata, per esempio riconducendo van a vano; doman a domani; ancor ad ancora etc.
Ma per dire dell’esito della operazione di Cristina Ubaldini, è interessante annotare come quest’ultima sia stata confortata nell’avanzare la sua ipotesi dal sapere che Montale nel ’77 aveva dedicato alla sua musa del momento, Annalisa Cima, alcune poesie, tra cui una intitolata Die Fledermaus (“Il pipistrello”), sulla scorta della celebre operetta di Johann Strauss.
Il testo montaliano recita:
Indugi sulla porta nell’entrare,
sei come uno smarrito adolescente.
Con una aureola di cerchietti
fumiganti – ti circonfondo.
Oggi siamo ambedue convalescenti
faremo un nouveau jeu:
canterò un brano che dovrai
indovinare:
Fa re mi mi sol.
Il titolo, il titolo, su presto.
La vedo un po’ confusa
balbetta qualche cosa.
Poi tutto d’un fiato: il pipistrello.
Signora mi dispiace,
il tempo consentito è già passato.
E’ chiaro che “Fa re mi mi sol” viene cantato, e perciò risulta essere la “didascalia”, come molto acutamente sottolinea l’autrice dell’articolo, di ciò che non può essere riportato perché frutto di un’altra arte con caratteristiche intraducibili se non didascalicamente.
Ma quello che a noi importa è scoprire se dietro alla serie delle cinque note del Mottetto, ci potesse essere un gioco, un indovinello, un rebus, un’allusione, un piccolo o grande segreto riconoscibile solo da chi ebbe a condividerne gli antecedenti in una misura tale da ludicamente richiederne la riconoscibilità, in analogia con ciò che troviamo nella poesia del ’77 (anch’essa criptata dietro cinque note).
Insomma, le due composizioni, sorreggendosi vicendevolmente, permettono l’ipotesi che anche la seconda sia stata indirizzata prima che al generico lettore, ad una specifica lettrice. “Quale?”.
Ecco, con l’utilizzo delle zeppe vocaliche, la Ubaldini ci propone la trasformazione di “do re la sol sol” in “Dora è là solasola…”. Dove è la voce personificata di Dora (vedremo tra pochissimo a che titolo costei sia parte in causa) a rivolgersi a…Dora in terza persona.
Ed è una proposta plausibile, anche perché la discrasia tra un “là” con l’accento e uno senza nella pronuncia non esiste, in quanto il segno diacritico dell’ accento è utilizzato nella grammatica solo al fine di discriminare l’avverbio di luogo dall’ articolo; ma foneticamente, in quanto monosillabo, è di per sé necessariamente sempre presente.
Questo dà la possibilità di integrare l’analisi della Ubaldini con una considerazione legata proprio alle due funzioni del “là/ la“.
Infatti se lo si intende come avverbio avremo la lettura che ne fa la Ubaldini, cioè di Dora (dice Dora, ecco la spiegazione promessa alcune righe sopra, semplicemente perché Bobi Bazlen, un caro amico di Montale, aveva invitato quest’ultimo a scrivere una lirica dedicata a questa affascinante ragazza, in realtà mai personalmente incontrata dal poeta, il quale può ovviamente assolvere l’incarico con profondità e genuinità di sentimento, solo ispirandosi ancora, a distanza di quarant’anni, ad Irma); Irma che è là, negli States, pensata in solitudine.
Tuttavia, se lo si intende come articolo, avremo un’altra lettura, per la quale il senso sarebbe: “Dora è la sola sola”, vale a dire l’unica. Unicità indicata dal raddoppio aggettivale, nella lingua italiana uno dei modi per formare il superlativo assoluto.
Si noti che una simile ripetizione del termine “sola”, non accettabile nel parlato, lo è però in un testo cantato (nel parlato richiederebbe la ripetizione anche dell’articolo).
Ripetiamo a scanso di equivoci: Montale pensa a Irma. Se dice in modo cifrato (solfeggiato) “Dora”, è perché tra le note vi sono il DO e il RE (è vero, RE e non RA, ma si tenga presente come nella pronuncia della frase “Dora è [là / la] sola sola”, il “ra” di Dora e l’ “é” che segue, vadano in sinalefe, con una forte fusione delle due vocali. E questo è il massimo che la sequela delle 5 note gli permetteva).
In primo luogo dobbiamo adesso chiederci se, data per buona questa ipotesi di decifrare le note in termini di parole, sia corretta la decodifica che ne fa la Ubaldini: Dora è là sola sola (per dire che è molto sola, con il raddoppio aggettivale pronunciato in rapida successione e con i puntini di sospensione alla fine della lirica a rappresentarne la tristezza); o (meno probabilmente e tuttavia da non escludere a priori) la nostra: Dora è la sola sola (per dire che non ve n’è un’altra simile, con il raddoppio aggettivale pronunciato staccato e l’articolo “la” ripetuto idealmente anche tra i due aggettivi identici e, infine, con i puntini di sospensione a rappresentare l’amarezza del poeta).
Come se non bastasse, ad un discorso così complesso, si aggiunga il particolare di una virgola, tutt’altro che insignificante nell’economia semantica di un solo verso, che nella prima stesura della poesia Montale inserisce tra la penultima e l’ultima nota del solfeggio, ma che nella versione successiva elimina.
Segno di una scelta sofferta del poeta che vorrebbe di quel sentimento dire tutto ma è costretto a dire solo un aspetto? Dell’indecisione se preoccuparsi più della solitudine di Irma o più della perdita incalcolabile da lui subìta di una donna irripetibile?
La lirica è di due strofe. Nella prima tutto è funzionale a preparare il primo verso della seconda, ovvero il perno su cui ruota il Mottetto.
E’ l’anima della donna che si fa voce e la voce illumina all’intorno.
Degno di nota il contrasto tra “chiusa passione” (ovvero un amore che non ha sbocchi né speranze), e l’ “anima che dispensa”, cioè diffonde, vita.
Dalla prigione in cui si sente relegato, la mente vola alla libertà che essa di rimando con immediatezza viene ad evocare tramite la figura dell’amata.
Bisogna allora situare quest’anima affinché possa espandersi e coinvolgere.
C’è bisogno della strada dove gli immaginari furlana e rigodone vengono pensati in atto, ossia danzati.
Ecco: il tempo che passa diventa la “stagione della strada”.
Riguardo il richiamo a doppio filo tra voce e anima, è un legame che, non costrette, le stringe, e dà loro l’occasione “su fili, su ali, al vento, a caso, […]”, innescata dall’ispirazione poetica o dal richiamo suscitato magari da un comunissimo oggetto (“ordegno”), a reclamare la loro presenza. Ma non è un linguaggio che tutti sono capaci o sono disposti a capire, e tu (il soggetto è sempre la voce-anima che coinvolge anche il poeta perché un tempo vi si unì cantando con Irma la stessa melodia) insisti nel tuo canto do re la sol sol…Vox clamantis in deserto!
Il poeta dal canto suo non può non constatare, volente o nolente, disarmato e disarmante, le (almeno) due dimensioni della realtà: la sua di quando ritrova la voce-anima più intensa ad ogni angolo, e quella della gente che affolla il corso e non vede e non sente.
Questo mottetto rappresenta l’esempio più estremo del “trobar clus” che caratterizza tutta la sezione de “Le occasioni” intitolata, appunto, “Mottetti”, e che per questo obbliga il puntiglioso e rigoroso interprete a cercare nel contesto biografico del poeta e nelle interpretazioni di altri sottili e acuti esegeti dell’opera montaliana gli spunti non tanto per un’altra esegesi ma semplicemente per enucleare i motivi, proprio nell’accezione musicale, che emergono nella breve e quanto mai intensa “composizione” lirica, quasi un'”aria”, anche qui nell’accezione musicale del termine. D’altronde è il poeta stesso che dissemina il suo breve testo (stavo per scrivere “la sua partitura”) di indizi e di richiami musicali: dalle festose danze popolari (furlana e rigodone) , alla “voce” che si diffonde e ritorna sull’aure e “Su fili, su ali, al canto, col / favore della musa o di un ordegno (un grammofono? Azzardo), / ritorna lieta o triste…” E, dulcis in fundo, con la sequenza delle cinque note (“do re la sol sol”) che chiudono il mottetto e sulle quali si sofferma in particolare l’ipertesto del prof. Baldoino, riportando e commentando l’ardita interpretazione dell’italianista e filologa Cristina Ubaldini. Quanto al senso cifrato di “Parlo d’altro, / ad altri che t’ignora…”, Baldoino puntualmente e opportunamente chiosa: “Il poeta dal canto suo non può non constatare, volente o nolente, disarmato e disarmante, le (almeno) due dimensioni della realtà: la sua di quando ritrova la voce-anima più intensa ad ogni angolo, e quella della gente che affolla il corso e non vede e non sente”.