Commento al 9° Mottetto [da “Le Occasioni”] di Eugenio Montale

Il ramarro, se scocca
sotto la grande fersa
dalle stoppie –

la vela, quando fiotta
e s’inabissa al salto
della rocca –

il cannone di mezzodì
più fioco del tuo cuore
e il cronometro se
scatta senza rumore –

. . . . . . . . . . . . .

e poi?
Luce di lampo
invano può mutarvi in alcunché
di ricco e strano. Altro era il tuo stampo.

Tre sono le espressioni rare: “fersa”, “fiotta” e “salto della rocca”.
“Fersa”, cioè frusta, si differenzia nella forma per una sola lettera da “ferza”, ma il significato è il medesimo. Montale nella sua scelta si lascia prendere per mano da Dante, poiché tutta la prima strofa è un calco dantesco, come si constata leggendo il XXV canto dell’Inferno dal verso 79 all’ 81:

“Come il ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa”.

A questo punto l’intera strofa del Mottetto si può parafrasare così:
“Il ramarro, se si lancia da una stoppia all’altra quando il solleone sferza coi suoi raggi il campo con i resti del raccolto…”. Etc.
Un’immagine la quale oltreché alla Commedia, ci riporta a un’ambientazione tipica dell’autore degli “Ossi”.
L’utilizzo di “fersa”, perciò, non determinato da ragioni metriche ma concettuali e semantiche.
Dire “fersa” anziché ferza dunque richiama le Malebolge dell’Inferno, e perciò il fuoco e l’insopportabile calore; ma anche l’uso dei contadini di bruciare le stoppie, ovvero i residui rimasti sul terreno dopo il raccolto, la qual cosa evidentemente, di nuovo, insiste sull’idea di un caldo soffocante.
C’è da aggiungere che “ferza” trasmette un’idea di violenza voluta (l’azione del fustigare) che con la “s” di  “fersa” viene attutita. Pare un fatto secondario, ma è lo stesso Dante a sostenere che per rendere validamente l’ambiente dell’Inferno la lettera “z” era particolarmente adatta in quanto foneticamente molto dura e penetrante.
E’ così che “la grande fersa” viene ad essere forse l’espressione più emotivamente coinvolgente, facendoci immaginare una pesante cappa invisibile e presentissima che tutto avvolge; dimostrando con questo tutto il suo potere, senza però il desiderio di dimostrarlo.
“Sotto la grande fersa”: cioè lo scatenarsi calmo del potere del sole.
Con ciò il poeta vuole evitare di trasmettere un’idea di prepotenza, preferendole invece un’idea di prepotere.
Ed ecco schiudersi “la divina indifferenza”, grandiosa nella sua impassibilità.
Una natura che impressiona proprio per essere così potente da dominare il tutto nonostante paia dormiente.
Sempre nella prima parte del componimento vi è almeno un’altra cosa da sottolineare, ovvero come dal punto di vista semantico ci sia un verbo che sembra fuori posto.

Infatti il ramarro più che scoccare in realtà compie l’azione di scattare. Tuttavia proseguendo nella lettura e giungendo alla terza strofa, si capisce la ratio della scelta.
Lì troviamo il termine “scatta”, il quale, se fosse stato utilizzato anche prima, avrebbe dato adito ad una ripetizione. E sappiamo che Montale aborre le ripetizioni…
Neanche si può pensare che tutto avrebbe potuto essere risolto invertendo scocca e scatta, perché se è vero che il verbo “scoccare” è proprio soprattutto di un ambito temporale, è altrettanto vero che scoccano le ore, non i centesimi di secondo del cronometro, così com’è vero che il primo oggetto a venire in mente alla lettura del verbo “scocca” è la freccia.
In virtù di questa associazione di idee, si ha dunque che il ramarro va da una stoppia all’altra con la velocità di una freccia. Perciò, nonostante la perplessità che può suscitare in un primo momento, Montale individua perfettamente i termini e il posto che devono occupare.
D’altra parte non avrebbe potuto utilizzare nulla di diverso.
Sebbene ticchettare a rigore non sia difettivo, è tuttavia impraticabile alla terza persona singolare del presente. Dire che il cronometro ticchetta (e, sulla scia, immaginare qualcuno così sensibile a livello uditivo da sentirne il rumore) può sopravvivere solo in un ambito comico o caricaturale. Detto ciò, l’autore con appena due settenari e un quaternario, riesce a creare un’atmosfera di  solitudine e silenzio estesi e maestosi, perché è il sole che dirige e domina la pervasività illimitata di sé sulla terra, e nonostante sembri costringere ad una sorta di siesta corale, il segno della vita che si agita nel soffoco di quell’immobilismo esiste, ed è dato dalla corsa del ramarro il quale, con i suoi scatti furtivi, quasi a fuggire le saette del sole, si rifugia spostandosi da una stoppia all’altra.
La prima strofa si conclude con una lineetta; ma poi la seconda non inizia con la maiuscola.
Come dire che la lineetta si avvicina più al punto e virgola che al punto fermo. E così sarà anche per quella seguente e per la terza.
Una tale modalità significa che la descrizione di un’immagine è conclusa, ma che il concetto  espresso assume senso solo se inserito in quella descritta nella seconda strofa, e in quelle, e sono due strettamente legate tra loro, della terza, visto che la lineetta, di nuovo, è l’unico segno di punteggiatura presente prima dello stacco reso dalla fila di puntini di sospensione.
Uno stacco funzionale a rappresentare l’idea che l’elenco di paragoni di cui il poeta si serve per impostare un confronto con la quartina in explicit (che potremmo appunto considerare, da sola e affrontata a tutte le altre, come un secondo termine di paragone), potrebbe continuare.
Possiamo dunque suddividere la lirica in due blocchi, l’ultimo dei quali corrisponde all’ultima strofa.
Nel primo blocco si nota un gioco di contrapposizioni concettuali, proprio al fine di dimostrare che  nessuno dei modi con cui si può vedere la realtà, può equivalere per qualità a quello dichiarato nell’ultimo.
Il quadro viene declinato dapprima sul senso della vista che individua la velocità del ramarro e, per contro, la lentezza della vela che “fiotta”.
D’obbligo allora chiarire  il significato di “fiottare”, termine del gergo marinaresco relativo ai natanti, tra cui ovviamente le vele, delle quali si dice che fiottano perché beccheggiano nel loro lento procedere ostacolato dal mare mosso.
La vela, sineddoche di barca, sparisce “al salto della rocca”, ovvero al cambio di vento una volta doppiato il promontorio, e il suo sparire è visto come inabissarsi; non perché affondi, ma perché psicologicamente la sua difficoltà e fatica ad avanzare fa pensare che quanto avviene in orizzontale (lo sparire della barca dietro il promontorio) avvenga in verticale a causa di un’onda più alta, che la farebbe impennare di prua e perciò, superata la cresta, con movimento conseguente e simmetrico, di poppa.
La terza strofa è basata invece sul senso dell’udito: il colpo di cannone a segnalare il mezzogiorno risulterebbe in iperbole più debole del battito del cuore dell’amata; e in antinomia il cronometro, che invece il tempo sa segnarlo nel massimo silenzio.
Ma la forbice offerta da quegli esempi di grande velocità e grande lentezza nonché di fragore e silenzio, e se fosse necessario di tanti altri, si infrange su due parolette: “e poi?”.
Così la parte conclusiva della poesia ci anticipa retoricamente che non ci sarà un poi che valga la pena.
Ciò lo rivelerà un lampo, da intendersi principalmente come “lampo di genio”, come intuizione che sa debanalizzare il quotidiano, il quale pur registrando l’eccezionalità di eventi (che siano di carattere minimalista non significa affatto che siano valorialmente ultimi nella sinfonia del mondo, come non è ultimo il violino rispetto al contrabbasso…) riuscirà anche a vedere e a far vedere (cose, significati, richiami, evocazioni, convocazioni…) ma mai a far giungere questi “miracoli” a segnare la realtà come sapeva e saprebbe fare Clizia, dotandola di connotati più ricchi e sorprendenti.
Per citare Montale con Montale:”[…] sei lontana e però tutto divaga / dal suo solco, dirupa, spare in bruma”.
E’ confermato allora che non c’è nessuna “luce di lampo” che riesca a squarciare il velo di Maya dell’esistere tanto quanto la donna che si cela sotto le sembianze dell’elitropio, perché, lei sì,  saprebbe portare un autentico lampo di luce.

FULVIO BALDOINO

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2 thoughts on “Commento al 9° Mottetto [da “Le Occasioni”] di Eugenio Montale”

  1. Questo nono mottetto è certamente uno dei più “soggettivi” anche se composta da immagini visive e acustiche tratte dalla realtà “oggettiva”. Qui la donna amata (Clizia) viene evocata quasi di sfuggita due volte: con le espressioni “tuo cuore” e “tuo stampo”. Nel suo commento Baldoino insiste sul valore fonosimbolico di parole come “scocca”, “fersa”, “scatta”, “lampo”, “stampo”. e sul contrasto tra “fragore e silenzio” in relazione agli attimi fuggenti scanditi esternamente dal “cannone di mezzodì” e dal “cronometro…senza rumore”, e interiormente dai battiti del cuore. Ma così il tempo dell’orologio come il tempo interiore (o la “durata” per citare Bergson) risultano vani se in essi non v’è l’impronta “della donna che si cela sotto le sembianze dell’elitropio”. Da notare che a impreziosire stilisticamente questo mottetto, oltre all’evidente citazione dantesca rimarcata dal prof. Baldoino, provvede anche una meno evidente citazione shakespeariana: : “a sea- change / into something rich and strange” (La tempesta, atto I).

  2. …E infatti Bergson è uno dei tre o quattro filosofi più frequentati da Montale, e uno tra quelli che ne hanno maggiormente costituito la poetica.

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