Commento al 18° Mottetto [da “Le Occasioni”] di Eugenio Montale

Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.

Un freddo cala…. Duro il colpo svetta.
E l’acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.

Anche senza farsi guidare dalla metrica o dalla rimica, ma già solo per la loro valenza lessico-semantica e grammaticale, il primo legame che si fa notare tra i singoli termini della poesia, è dato dalla catena sfolla – svetta – scrolla, per il senso deprivativo che li accomuna. E di questo testo, la deprivazione è il concetto cardine. 

Poesia di 8 versi, tutti endecasillabi tranne due settenari, uno per strofa, ma reciprocamente rispetto ad esse non simmetrici.
Come di consueto, nei Mottetti la seconda strofa va a deludere le attese o a opporsi alle, o quantomeno a deviare dalle, premesse della prima. La quale nello specifico è (e anche in questo caso siamo nella norma dei Mottetti) una invocazione a un oggetto.
Dobbiamo però innanzitutto un chiarimento lessicale riguardo il lemma, appunto, di tale oggetto.
Ebbene, notiamo che è indicato al singolare nonostante per la grammatica sia un nome difettivo a cui il singolare manca, e che è stato scelto “forbice” anziché il più corretto “cesoie”. I motivi formali possiamo individuarli:

– nel bisogno di un ritmo con ictus in 3^, 6^ e 10^, che accordando il verbo (“Non recidete, forbici, quel volto”) sarebbe invece passato a 4^, 6^ e 10^.

– nell’uso del plurale canonico, la parola “forbici” avrebbe automaticamente determinato la trasformazione, nel terzo verso, di “far” in “fate”, e altrettanto automaticamente l’impossibilità di ottenerne un endecasillabo.

Il motivo semantico invece può essere che rivolgersi tramite una personificazione ad un oggetto col singolare, dà l’idea di un’intimità maggiore: la responsabilità di una decisione è più naturale attribuirla ad una entità composta da due parti uguali e simmetriche se se ne parla al singolare piuttosto che se se ne parlasse al plurale, pur restando l’oggetto il medesimo.
Relativamente alla preferenza per forbice rispetto a cesoia (o cesoie), oltreché col “gioco” eci – ice di recidere e di forbice, la si può spiegare col fatto che essa può tagliare astrattamente un volto nella memoria come lo taglierebbe concretamente in una fotografia, mentre una cesoia si presta esclusivamente all’attività del contadino o del giardiniere nella potatura, e sarebbe pertanto adatta soltanto per la prima parte della metafora.

“Forbice” è un soggetto che straborda prepotente dalla prima strofa, la quale infatti da esso è completamente dipendente. Si impone al di là della grammatica, perfino come regista dei soggetti della seconda.
Il freddo che cala, il colpo che svetta, grammaticalmente soggetti, risultano, per così dire, “a servizio”, cioè incaricati di eseguire un ordine, senza (sempre in linea di prosopopea) decidere in autonomia. 
E anche l’azione dell’acacia di scrollarsi di dosso il guscio di cicala, a ben vedere non è altro che la conseguenza provocata dalla forbice.
Questo “deus ex machina” chi o cosa vuol rappresentare?
La forbice non inizia da ora il suo lavoro. E’ rimasto un solo volto “nella memoria che si sfolla”, perché tutti gli altri sono già stati recisi.
E che la “colpa” sia della forbice, si evince proprio dal richiamo eci – ice che da fonetico diviene concettuale tra le parole recidere e forbice, in cui i due gruppi di lettere sono contenuti.
Il termine “recidere” viene scelto perché a differenza di altri di per sé altrettanto e persino più appropriati, esprime un’idea di violenza e di lutto; e infatti è molto più vicino al verbo uccidere che non al verbo tagliare, sia in senso semantico che fonetico, e si adatta al fatto che nella seconda strofa la metafora farà riferimento a una persona (al poeta), non solo ad una pianta (l’acacia), e ancora rende bene l’idea del dispiacere e del lutto di cancellare qualcosa di amato e gentile.
Sappiamo dell’idiosincrasia di Montale per la ripetizione: di conseguenza dopo “volto” abbiamo “viso”, che la ripetizione la evita.
Da notare che non si tratta comunque di un mero evitamento. Infatti con “volto” ci viene data un’immagine la quale per trascinamento sarebbe rimasta in termini visivi, mentre Montale  con “viso” vuole ricondurci al campo sensoriale dell’udito.
Con volto si ha altresì una caratterizzazione attiva (è il poeta che compie l’azione di immaginarlo), mentre con “viso” si ha una caratterizzazione in cui è attiva lei, la donna amata, che compie l’azione di stare in ascolto.
Insomma si assiste ad una sorta di collaborazione spirituale tra i due amanti: sono entrambi coin-volti nell’ accordo segreto per tentare di salvarsi reciprocamente dall’impietoso lavorìo del tempo che passa; e per entrambi il desiderio condi-viso da chi guarda e da chi ascolta è quello di far sì che la nebbia di una memoria sempre più flebile non si spanda su tutto e tutti e nulla risparmi, neanche la persona più cara e ormai rara tra le tante che affollavano i pensieri e i ricordi, fra le tante che corrispondevano in un dialogo muto.
Il “grande suo viso in ascolto” è grande di un grande morale: perché profondamente intento all’ascolto, alla disponibilità.

Nella seconda strofa, la fusione di forma e contenuto viene mirabilmente mantenuta.
Con la tecnica pascoliana della paratassi, l’autore (che scrivendo questo Mottetto doveva in particolare avere in mente “Il gelsomino notturno” del poeta romagnolo) riesce, pur senza interporre alcun connettivo, a condurci all’identificazione tra la prima scena, del tutto mentale, e la seconda, descrittiva di un episodio agreste.
Egli avrà probabilmente preso spunto proprio da esso, vedendolo come una provocazione-invito-aiuto della natura (o chi per essa) per aver modo di costruire ed esprimere la sua visione del lutto memoriale, sicché la breve immagine di un contadino impegnato nella potatura, assurge a paradigma pedagogico che tenta di educare alla rassegnazione di dover perdere, prima o poi, tutto. Anche il ricordo di chi amiamo, senza neanche l’eccezione che nei “Sepolcri” ancora poteva permettersi Foscolo: “e, tranne la memoria, tutto”…).                                                                                  
“Un freddo cala…” ovvero il freddo della lama che taglia. E implacabile svetta, cioè trancia la parte apicale della pianta.Da evidenziare che il verbo svettare è da intendere rovesciato, ossia non nel significato più usuale di innalzarsi sopra qualcosa, in questo caso la chioma; ma nell’altro di tranciarla via dal tronco, e di conseguenza, per contrasto e addirittura per uno scherno involontario delle cose, lasciarla finire in basso tra il fango.
Con la parte mozzata, cade anche il guscio lasciatovi da una cicala, la sua controfigura trasparente. 
Ma “Un freddo cala” è anche da intendersi come il freddo dell’inverno imminente, testimoniato dalla “prima belletta di Novembre”, a indicare la fine irreversibile della bella stagione, di quella in cui la cicala nella sua breve vita poteva ancora diffondere il suo richiamo d’amore, mentre di essa ora è rimasta soltanto l’esuvia, secca e vuota. 
“Un freddo cala… Duro il colpo svetta” è la caustica risposta alla preghiera racchiusa nella prima strofa. Fulminante per rapidità, tale che sembra essere data prima ancora che la richiesta abbia finito di essere espressa; e folgorante per risolutezza, tale che richiama per la sua irrevocabilità e irremovibilità la condanna “di cui le Piche misere sentiro /  lo colpo tal che disperar perdono.” (Purgatorio. Canto I, 11-12)
Data questa risposta, bisogna considerare come valutare quel “da sé” del secondo verso della seconda strofa.
Il contesto parrebbe presentare l’acacia e la cicala (sottolineiamo il legame costituito dall’anagramma sillabico tra il primo lemma, l’acaci[a] e il secondo rovesciato di cicala, lacaci). L’aspetto fonetico si rivela funzionale a quello semantico.
Ciò viene confermato dalla drammatica sorte che accomuna i due lemmi e dalla identificazione che ne consegue.
Il “da sé” risulta insieme complemento di moto da luogo (dal ramo di acacia alla belletta) e complemento d’agente (che indica il provocare qualcosa da parte di una persona, quale appare l’albero nella prosopopea).
Dura legge darwiniana della sopravvivenza! La parte più bella (più in alto) dell’acacia viene tagliata via per la salute della pianta, e quest’ultima a quel punto, di propria iniziativa (da sé) scrolla via (da sé) “il guscio di cicala”, ovvero quello che sono le ingombranti vestigia di qualcosa che sarebbe più di impedimento che di incoraggiamento a vivere; un retaggio che lega al passato e a quello imprigiona.>
E dunque, alla fine, si hanno due concetti in contrasto, come le onde per un  mulinello di venti.
Sono espressi dai versi:
“non far del grande suo viso in ascolto / la mia nebbia di sempre” vs “E l’acacia ferita da sé scrolla / il guscio di cicala”.>In essi emerge il rimorso anticipato del poeta, declinato tra le tante identità che si prestano come le polimorfe espressioni della sua persona, per la colpa che presentisce di commettere, proprio lui, di adempiere alla metafora delle forbici; di finire per essere il killer di ciò che vorrebbe salvare.
Se disgraziatamente lo fosse, se cioè ripagasse cancellando in una grigia nebbia indistinta quel viso che vediamo proteso all’ascolto, nitido e stagliato, e preponderante e benevolente su tutto, allora commetterebbe lo stesso crimine dell’acacia (di nuovo l’io-lirico che come un attore si cambia d’abito e ricompare sul palco a interpretare un altro personaggio) la quale per curarsi della ferita, getta via la parte morta che gliela ricorda, diventata un involucro di vuoto troppo pesante.
Paura, colpa, desiderio, preventivo rimorso, rabbia, resa. Tante cose.
In quel contrasto, s’è detto, di fusione e confusione delle onde di un mare in tempesta, che si rincorrono e accavallano e scontrano ma che ugualmente, proprio in virtù del loro coesistere tormentato, riescono a dare una cifra, un messaggio di sincerità, scevre da qualsiasi strategia che voglia mostrare filiforme la sfuggente matassa del ricordo.

FULVIO BALDOINO

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2 thoughts on “Commento al 18° Mottetto [da “Le Occasioni”] di Eugenio Montale”

  1. Questo diciottesimo Mottetto, come rileva con la sua consueta sensibilità e acutezza interpretativa di questi brevi ma profondi e. a tratti, impervi testi montaliani, è senza dubbio uno dei più tristi e sconsolati: ci parla dell’inesorabilità del tempo che tutto “recide”, o uccide, anche i ricordi più belli e che sembravano incancellabili dalla “nebbia di sempre”; o, se si preferisce, dell’impossibilità di fermare l’istante felice che passa per non tornare mai più. Baldoino pone giustamente la questione sul significato simbolico della “forbice”: chi la tiene in mano?, chi può recidere “quel volto” amato che ancora resiste “nella memoria che si sfolla”? Chi se non il poeta stesso, baudelairianamente insieme vittima e carnefice, coltello e piaga, cesoia e ramo secco? Siamo di fronte a un triste “idillio” autunnale, in cui riecheggiano rime rare come “volto/ascolto”; “sfolla /scrolla”; “svetta/belletta” parola, quest’ultima, già presente in Dante: “or ci attristiam ne la belletta negra”( Inf, VII, 124) e in D’Annunzio, in uno dei madrigali dell’estate in “Alcyone”, intitolato, appunto: “Nella belletta”. Preziosismi consueti in questi mottetti così finemente analizzati dal prof. Baldoino.

  2. Caro amico, anche tu come me alla domanda su chi tenga in mano la forbice, rispondi: “Il poeta stesso”.
    Ma ciò non significa che egli sia padrone delle proprie scelte, le quali perciò sono sue solo per modo di dire. L’io-lirico si trova un po’ nella situazione di un malato di Alzheimer: sa che quello stesso pensiero con cui desidera ricordare qualcosa o qualcuno, si “dimenticherà” di questo desiderio… E, cosa più angosciante, sa che non gli serviranno nodi al fazzoletto…!

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