Alcune note su “Upupa, ilare uccello calunniato” di Eugenio Montale

Upupa, ilare uccello calunniato
dai poeti, che roti la tua cresta
sopra l’aereo stollo del pollaio
e come un finto gallo giri al vento;
nunzio primaverile, upupa, come
per te il tempo s’arresta,
non muore più il Febbraio,
come tutto di fuori si protende
al muover del tuo capo,
aligero folletto, e tu lo ignori.

A vario titolo furono Ovidio, Parini, Foscolo e Carducci gli italici detrattori dell’upupa.
Una noméa immotivata che Montale vuole ribaltare, chiamando l’upupa “ilare uccello” in incipit e “aligero folletto” in explicit di componimento, in contrapposizione all’essere stata associata ad un’idea gotica e sepolcrale.
Certo, il suo fine non era solo questo. Anzi, rispetto a quell’altro di certificare come l’esile possibile spiraglio di felicità per i viventi sia acquisibile solo nell’ignoranza di essere nella primavera della vita e più in generale nell’ignoranza di cosa sia la vita, è senz’altro secondario.
I molti che la chiamano upùpa, le attribuiscono un nome sbagliato.
L’uccello che rota la sua cresta sopra l’aereo stollo del pollaio è l’ùpupa, con accento sulla terza sillaba.
Un po’ la stessa sorte riservata al cuculo, nella cattiva reputazione (meritata, nel suo caso, visto il suo parassitismo di cova) di ladro di nidi, e nel nome per esser comunemente pronunciato “cùculo”, cioè con l’accento sulla terza sillaba anziché sulla seconda; un errore avallato in letteratura da Corrado Govoni, il quale scrive nella poesia omonima:
“O cùculo, bel cùculo barbogio / che voli sopra il fresco canepaio…
Lì si nota il termine sdrucciolo appositamente dotato di accento per chiarire bene quale deve essere la pronuncia (per chiarire bene, in realtà, quale deve essere la pronuncia… sbagliata…!).
Ma non sta in ciò la questione che, sia pure in  modo alquanto particolare, facendo incrociare gli errori della lirica sul cuculo a quella sull’upupa, si connette con la lirica di Montale. Sta in altro, che pare meno fortuito.
Si tratta, per capirla meglio, di confrontare le due poesie. Quella di Govoni inizia:
“O cùculo, bel cùculo barbogio”, mentre quella di Montale inizia: “Upupa, ilare uccello calunniato”.
Abbiamo cioè una simmetria grammaticale in sequenza data dal sostantivo (per Govoni introdotto da una “O” vocativa), dall’aggettivo, da un altro sostantivo, da un altro aggettivo. Non una simmetria ma una notevole somiglianza, troviamo tra il secondo verso di Govoni e il secondo e terzo di Montale: “[…] voli sopra il fresco canepaio” vs “roti […] / sopra l’aereo stollo del pollaio”.
Poi un concetto simile. In Govoni: “tu [cùculo] sei la primavera pazzerella” e in Montale:“nunzio primaverile, upupa”.
Si è proceduto a questo confronto per mostrare l’eventualità che Montale (per forza lui visto che la raccolta “Poesie scelte” di Corrado Govoni anticipa di sette anni “Ossi di seppia”) nel comporre “Upupa, ilare uccello calunniato”, abbia assorbito qualcosa di “Cùculo”, magari anche l’idea, ripetiamo, comunque di importanza secondaria, per cui c’era da smentire una tradizione.
Al di là che l’ipotesi formulata sia vera oppure i paralleli tra i due componimenti siano casuali, si constata una situazione la quale, se non altro per la sua singolarità, vale la pena di essere segnalata.
Il cuculo segna la stagione, con il suo “ritornello gaio, / il vecchio ritornello d’orologio”. Ne richiama il trascorrere; lui vero, volando su un campo di canapa, e lui riprodotto, sporgendosi e ritraendosi dalla cavità di un orologio; ma sempre provocando in un modo e nell’altro chi vuole raggiungerlo per fermare il tempo della primavera-gioventù che passa e ti deride e fugge senza lasciarsi acchiappare: “Orsù, / venitemi a pigliar…cucù! cucù!”
L’upupa segna la stagione e il vento, ruotando la sua cresta “sopra l’aereo stollo del pollaio”.

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Si individuano anche altre evenienze singolari, ma su un piano che non coinvolge più la poesia di Govoni ma è tutto interno alla lirica di Montale.
In esso l’upupa assume una sua identità solo alla luce di un paragone assai particolare.
Infatti in genere accade che la copia sia copia, appunto, del vero, che fa da naturale modello.
Invece in questo frangente abbiamo un vero, l’upupa, che per chi guarda sta inconsapevolmente mimando un gallo, oltretutto finto, che a sua volta è stato fornito di una sagoma la quale vorrebbe farlo credere vero!
Questo uccello-banderuola, presumibilmente di ferro o di latta, data la sua figura schiacciata in un profilo, assume giocoforza la direzione del vento e la rivela, e alla fine l’immagine del gallo quasi surclassa e si imprime nella mente più di quella dell’upupa che doveva richiamare; le ruba la scena.
Forse per capire come ci riesca è opportuno aggiungere un ulteriore elemento: lo stollo del pollaio. E qui la cosa si fa davvero problematica, tanto che la critica non è riuscita a dire al riguardo una parola definitiva.
Anche perché Montale, pur a conoscenza delle perplessità di chi riteneva incongruo parlare di stollo del pollaio, non ha apportato alcuna modifica nelle edizioni successive a quella gobettiana del ’25.
Questo è un fatto che per un lato ostacola, ma per l’altro suggerisce: infatti se un poeta non fornisce una spiegazione di una incongruenza riscontrata in qualche suo verso, vuol dire che farlo  banalizzerebbe il verso stesso.
Se si ritiene di riuscire a trasmettere quello che veramente si è provato senza attenersi pedissequamente alla realtà, quella realtà è giusto non riproporla.
Comunque se il problema non è stato risolto, probabilmente è a causa di una questione lessicale, nel senso che si è inteso lo stollo come l’unità inscindibile di una pertica piantata nel terreno con un cono di paglia sistemato attorno.

Di ipotesi se ne sono avanzate parecchie.
La nostra è che nel tempo (sebbene non si tratti di un fenomeno frequente) si è cominciato a parlare di stollo anche per una pertica disgiunta dalla sua primitiva funzione di compattare la paglia, per cui si potrebbe in effetti pensare ad un pollaio con uno stollo, cioè a qualcosa che nei fatti non è estraneo alla realtà di una fattoria o di una casa di campagna, in quanto a volte tra esso e le pareti del pollaio si innestano i posatoi per le galline.
La lunga asta piantata a terra dunque,”fora”e si prolunga oltre la copertura del pollaio, e  in cima ad essa può andare il gallo ad annunciare il giorno, o essere messa una banderuola (per esempio un finto gallo…) a segnalare il vento.
Serviva qualcosa che rendesse ben visibile le mosse dell’upupa, e non poteva essere un albero, con tutti i rami e le foglie, e comunque troppo grande per darle visibilità e permetterle di stagliarsi nell’immagine e nell’immaginazione; avrebbe perciò dovuto essere un palo, che sarebbe risultato però poco credibile: troppo funzionale, troppo piantato lì apposta per adattare la  scenografia alla bisogna e senza nessun’altra utilità.
Lo stollo invece la visibilità la ha e la dà.
Se l’upupa, conosciuta anche per “galletto di marzo”, non avesse avuto questa parte da protagonista, un qualsiasi paletto sarebbe andato bene perché lei vi si posasse. Lo vediamo in “Quasi una fantasia”, sempre in “Ossi di seppia”:“Filerà nell’aria / o scenderà s’un paletto / qualche galletto di marzo.”
Tuttavia prima di continuare con queste note, vale la pena far notare che il poeta ha voluto paragonare l’upupa ad un gallo finto anziché ad un gallo vero, in tal modo rovesciando la dialettica del binomio modello-copia e nonostante il gallo non abbia bisogno di essere di latta per ruotare la sua cresta e girare al vento.
Il gallo (nelle sue due versioni vero-finto) può fungere da “doppio” dell’upupa perché entrambi hanno una cresta e movenze simili e perché se il gallo rappresenta chi regola la vita del pollaio e il passaggio dalla notte al giorno, l’upupa  regola ciò che, animale o vegetale, nella cerchia più vasta della campagna o del bosco, le sta attorno e ne spia i movimenti leggendoli come un diniego o un consenso a svestire i panni invernali e indossare i pantaloncini corti della primavera, e addirittura a fermare l’avvicendarsi delle stagioni:“[…] / upupa, come / per te il tempo s’arresta, / non muore più il Febbraio, / come tutto di fuori si protende / al muover del tuo capo /.
“Upupa”, termine ben evidenziato in prima posizione di verso al primo verso, porta con sé la disgrazia di contenere due “u” (la vocale foneticamente più posteriore e chiusa) e due “p” (una consonante occlusiva, cioè anch’essa chiusa). Non stupisce che suoni cupo.
E poi quel becco lungo e ricurvo da maschera del Medico della Peste non aiuta a salvarla dal pregiudizio, anche se nulla toglie alla sua bellezza ed eleganza.
Montale, serio e impassibile nella celebre foto di Ugo Mulas, la affronta e la ama con l’amor proprio con cui si ama ciò che ci somiglia.

FULVIO BALDOINO

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One thought on “Alcune note su “Upupa, ilare uccello calunniato” di Eugenio Montale”

  1. Mi pare ci sia ben poco da aggiungere a questa nuova analisi-commento di un testo montaliano, tanto breve quanto profondo e ricco di echi letterari e di significati filosofici, come quello proposto oggi dal prof. Baldoino. Una volta di più rimango ammirato dalla sua capacità di cogliere le analogie, i doppi sensi, le valenze fonosimboliche del testo poetico esaminato, a cominciare dalla sottolineatura onomatopeica delle due “u” e delle due “p” del nome “upupa”., che in parte spiega ma non giustifica la fama di uccello notturno e di malaugurio di cui ha goduto (si fa per dire) presso i poeti ricordati nel suo ottimo commento dal prof. Baldoino,. Nel breve ma intensissimo testo montaliano “l’ilare uccello calunniato” assurge a una specie di divinità in grado di fermare, sia pure di un attimo, il tempo, e in ogni caso di regolarne la scansione del prima e del dopo, del giorno e della notte, delle stagioni e persino delle variazioni climatiche. L’upupa, in questi versi montaliani, diviene un uccello sacro, un piccolo dio in grado di vincere la morte del Febbraio e di attingere l’eternità dell’istante, e tutto questo senza ombra di amor proprio o di vanagloria: ” e tu lo ignori”. Ma non lo ignora il poeta che sa quanto effimera sia la felicità di un istante.

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