Alcune note su “Tentava la vostra mano la tastiera” di Eugenio Montale

Tentava la vostra mano la tastiera,
i vostri occhi leggevano sul foglio
gl’impossibili segni; e franto era
ogni accordo come una voce di cordoglio.

Compresi che tutto, intorno, s’inteneriva
in vedervi inceppata inerme ignara
del linguaggio più vostro: ne bruiva
oltre i vetri socchiusi la marina chiara.

Passò nel riquadro azzurro una fugace danza
di farfalle; una fronda si scrollò nel sole.
Nessuna cosa prossima trovava le sue parole,
ed era mia, era nostra, la vostra dolce ignoranza.

Già quel “tentava” iniziale, ci offre una avvertenza non indifferente per approcciare la lirica.
“Gl’impossibili segni”, poi (non più note, non più accordi, ma ormai poco più di tratti neri sul bianco della carta, meri glifi), calcano sul concetto e lo impongono ulteriormente.
“E franto era / ogni accordo come una voce di cordoglio”: uno straordinario tocco di maestrìa suscitata da una sintonia tra sentimento e forma particolarmente evidente in questo verso, per cui “cordoglio” fa rima interna con “accordo“, e , contemporaneamente, fa rima alternata con foglio.
Il poeta è lì, ad ascoltare, e a constatare la sorpresa. Subito peraltro trasformata in tenerezza nei confronti di chi, avvezza alle note, si ritrova senza un preciso motivo, spaesata, e non sa più dominare una realtà per lei altrimenti scontata e consueta.
Solidale con lui, raggiunto da quelle note incerte c’è tutto un piccolo mondo attorno, imbastito a tutto tondo indicandone il rappresentante minerale (“ne bruiva / oltre i vetri socchiusi la marina chiara”) , animale (“Passò nel riquadro azzurro una fugace danza / di farfalle”) e vegetale (“una fronda si scrollò nel sole”).
Lì accade per partecipazione e sim-patia ciò che per l’intrinseco male dell’esistere e per indifferenza accade in “Spesso il male di vivere…”, anche là dimostrato dai rappresentanti dei tre regni della natura a darci ciascuno, in sineddoche, la parte per il tutto.
Ognuna di queste cose vive l’imbarazzo a suo modo, sempre venato dal sotterfugio di un sorriso dell’io lirico:
-La “marina chiara” si schiara, bruendo, la voce; e c’è da scommettere che lo farebbe fino alla raucedine se servisse a coprire quelle note stonate all’intorno.
-La fronda si scrolla nel sole anche se potrebbe continuare a sonnecchiare, perché non riesce a restare nel suo torpore senza scuotersi di dosso, come un cane uscito dall’acqua, il disagio della sconosciuta amica persa tra le note.
-Oltre il riquadro dato dai vetri socchiusi c’è il cielo e c’è il mare, e una piccola comitiva di farfalle passa e su questo sfondo improvvisa una danza, indecisa e imprevedibile come è normale per ogni volo di farfalla, fatto da brevi segmenti zigzaganti, interrotti, a scatti ripresi; e perdonati per questo loro assurdo procedere, a causa della bellezza leggera propria di chi li traccia.

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Le farfalle però non esprimono soltanto l’allarmarsi della marina o della fronda per colei di cui in giro, fin dove arriva il suono della tentata melodia, giù giù fino alla spiaggia, si palesa la difficoltà, ma aggiungono a ciò la rappresentazione visiva del suono che nell’aria si diffonde, e inconsapevolmente si propongono a modello, dicendo con la loro danza franta ed esitante per natura, disorientante, che si può lo stesso essere belle.
Il disagio che Montale suole trovare tra sé e la natura, eccezionalmente in questa lirica viene relegato in un angolo nascosto, mentre lo si trova esplicito tra la natura e lei che lotta seduta davanti ad un pianoforte refrattario.
Sembrerebbe che la funzione di mediatrice-protettrice di altre poesie montaliane la donna qui non l’ abbia, perché è lei stessa ad avere bisogno di essere protetta, lasciando così il poeta privo di qualsiasi scudo.
In realtà l’aiuto che ella gli porge è persino più grande perché, pur senza volerlo, gli evidenzia un quadro in cui la natura partecipa con lei e per lei del suo imbarazzo. Una natura che non può far nulla, ma vorrebbe. Non Naturante ma Naturata, e cioè in ogni ente, vittima di sé come concreto individuo funzionale all’astratto sovraindividuale, coda di quel cane cosmico che si morde la coda.
La pianista “inceppata inerme ignara”, riesce ad offrire al poeta uno squarcio di speranza che non vi siano congiurati nel male di vivere, che non vi sia deliberata persecuzione.
Non è tanto, ma non è neppure poco, considerando che tra i mali non compare l’indifferenza, di tutti il più avvilente.
Se “Nessuna cosa prossima trovava le sue parole” è perché questa prossimità è quasi evangelicamente intesa.
Gli umani (il poeta stesso), il drappello delle foglie di un ramo, gli animali, le ondine (c’è il sole, l’acqua è limpida, il vento non soffia) mormorano, comunicano, partecipano; di più, parteggiano. Come in un cartoon lirico che sa essere lieve senza togliere spessore.
Insomma, la protagonista di questa defaillance musicale non è idealmente lasciata sola. Le cose prossime sommessamente fremono, cioè fanno tutto quanto è in loro potere di fare, e con lei com-patiscono.
Nel farlo pagano un prezzo: pèrdono, tranne le farfalle, la loro naturalezza; smarriscono per un tratto il loro linguaggio come la donna ha smarrito il suo davanti allo spartito. Condividono:”ed era mia, era nostra, la vostra dolce ignoranza”.

FULVIO BALDOINO

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One thought on “Alcune note su “Tentava la vostra mano la tastiera” di Eugenio Montale”

  1. Caro amico, ho letto con piacere quest’altra tua impeccabile lettura montaliana: seguendo letteralmente la trama (il ricamo) della composizione del poeta ne hai colto e raccolto, se così posso dire, le cromie e le risonanze come si trattasse di ona sonata per pianoforte, la stessa che la pianista “smarrita” tentava di interpretare sulla tastiera. Belle tutte le immagini evocate, soprattutto quel volo zigzagante ed esitante delle farfalle (tema caro anche a Guido Gozzano, poeta, come sai, ammiratissimo da Montale). Nel tuo puntuale e approfondito commento non poteva mancare la nota filosofica: in questo caso il pertinente richiamo alla Natura naturans e alla Natura naturata di spinoziana memoria.

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