Alcune note su “Spesso il male di vivere ho incontrato” di Eugenio Montale

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e le nuvole, e il falco alto levato.

Di una lirica così conosciuta e sviscerata, dibattuta e interpretata, non si ha certo la presunzione di aggiungere qualcosa che oggettivamente, sia pur in maniera minimale, pretenda una qualche originalità.
Ma la poesia ha la caratteristica di non essere unidirezionale, per cui, ed è questo uno dei suoi misteri e del suo fascino, apre in colui che come lettore ne fruisce, canali emotivi e conoscitivi fino ad allora impraticati, i quali si moltiplicano richiamandosi a vicenda e, qualche volta, riuscendo a riallinearsi, pur provenendo da prospettive diverse, a quell’interpretazione che l’autore stesso darebbe dei suoi versi.
Con questo spirito in cui è chiaro come alcune cose il poeta trasmette volendolo e alcune trasmette senza volere, e in cui deve essere altrettanto chiaro che queste ultime non sono meno sue perché anche nostre, vale la pena di rileggere le due famose quartine del testo.
Cominciamo col notare come nell’elenco di ciò che fa da correlativo oggettivo del male di vivere di questa lirica in cui la descrizione funge da dichiarazione filosofica, manca l’uomo.

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Egli, sovraindividualmente assunto nella persona del poeta, col suo occhio che come una macchina da presa esplora e come un sonar scandaglia, prende appunti, a preventivo e consuntivo, della realtà, la quale, come si diceva, non ha bisogno di lui per essere disperante. Egli ne prende semplicemente atto.
Il giudizio sull’uomo sulle prime pare sospeso, perché dell’uomo esplicitamente non si parla, ma in realtà basta richiamare la figura del cavallo stramazzato per ricondurci a chi lo costringe a una fatica tale da stramazzare, ed ecco che dell’uomo si dice, e dicendo si rincara la dose, che va solo e sempre in una deriva senza sconti: il male di vivere è diffuso in ogni interstizio dell’esistere, pervicace e pervasivo e, di ritorno, invasivo.
L’uomo per sopravvivere non si fa scrupoli di rendere più impervio il vivere dell’altro, di chi non può competere con il suo potere. Non importa che l’altro sia un cavallo, o, si può immaginare, un altro uomo a cui come al cavallo possano essere messi basto e briglie.
E tuttavia, gli occhi del poeta, occhi che paiono quasi autonomi dalla persona di cui sono occhi e che paiono quasi avere una loro autonomia acquisitiva che immediatamente vede e registra con l’obiettività cruda di una sentenza, non imputano all’uomo il male di vivere. Il che semmai aggrava la sua situazione esistenziale, perché significa che essa è naturale, proprio nel senso di essere propria della natura, che ne è la cifra.
E di questo linguaggio cifrato il poeta si fa latore, passandolo in rassegna, e rassegnandovisi.
Il suo è un climax che non risparmia nulla, andando dal regno minerale dell’acqua che fatìca a scorrere nella strozzatura, al regno vegetale della foglia che cerca di difendersi dall’arsura, al regno animale del cavallo.
Il “Bene non seppi” non è (ci fa obbligo la puntualizzazione sintattico-lessicale), al di là di quello che di primo acchito potrebbe sembrare, la sottolineatura da parte dell’autore di un sentimento di incertezza derivante dall’intendere “Bene” come avverbio, per cui la proposizione suonerebbe press’a poco “non conobbi bene, non conobbi con esattezza”. Si tratta invece di un sostantivo. Pertanto il significato è: non ho conosciuto un bene più grande del prodigio (cioè del fenomeno che contrasta con la legge consueta delle cose) dell’indifferenza.
Ma non basta. Per correttamente intendere i primi due versi della seconda quartina, bisogna procedere ad una ulteriore sottolineatura, evidenziando come il verbo “schiude” sia ambiguo; non in sé, ma nell’economia della frase.
Infatti si può pensare sia che il prodigio schiuda la divina Indifferenza, sia che la divina Indifferenza schiuda il prodigio.
Il messaggio nella sostanza non cambia. Quello che il prodigio svela della divina Indifferenza, o quello che la divina Indifferenza svela nel prodigio, è comunque un quadro di incomunicabilità e distacco, che si coniuga nei termini di perdurante estraneità degli enti allo spirito: la statua, cioè la persona disincarnata e disanimata, nella sonnolenza (che rima con Indifferenza…) del meriggio; la nuvola che in quanto tale è evanescente, il falco che dall’alto del suo volo non partecipa alla rappresentazione della vicenda ineludibile ed eterna del mondo e la guarda da lassù, in silenzio, e senza neppure sapere di farne parte.

FULVIO BALDOINO

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