Alcune note su “Non rifugiarti nell’ombra” di Eugenio Montale

Non rifugiarti nell’ombra
di quel folto di verzura
come il falchetto che strapiomba
fulmineo nella caldura.

E’ ora di lasciare il canneto
stento che pare s’addorma
e di guardare le forme
della vita che si sgretola.

Ci muoviamo in un pulviscolo
madreperlaceo che vibra,
in un barbaglio che invischia
gli occhi e un poco ci sfibra.

Pure, lo senti, nel gioco d’aride onde
che impigra in quest’ora di disagio
non buttiamo già in un gorgo senza fondo
le nostre vite randage.

Come quella chiostra di rupi
che sembra sfilacciarsi
in ragnatele di nubi;
tali i nostri animi arsi

in cui l’illusione brucia
un fuoco pieno di cenere
si perdono nel sereno
di una certezza: la luce.

Premettiamo che affronteremo questo testo soprattutto rifacendoci all’aspetto grammaticale e sintattico, determinanti per la sua comprensione più di quanto accada in altri “Ossi”.
Senza chiarire questo aspetto, la lirica, già di per sé alquanto ermetica, lo risulterebbe a un punto tale da permettere interpretazioni per contenuto assai lontane tra loro e persino divergenti.
Al contenuto ovviamente accenneremo, senza però avventurarci in approfondimenti azzardati.

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Il componimento è costituito da sei quartine con versi di varia lunghezza, senza un ritmo rimico preciso e con presenza di rime o quasi-rime, talché alla fine si ha un testo spigoloso, sincopato, che Montale non fa niente (anzi…!) per rendere più canonico e rotondo.
Diamo un’occhiata per toccare con mano:
-nella 1^ strofa, il vocabolo ombra viene fatto rimare con piomba
-nella 2^, canneto, viene fatto rimare con l’ipermetra sgretola, e addorma con forme
-nella 3^, pulviscolo viene fatto rimare (molto alla larga) con invischia
-nella 4^, onde viene fatto rimare con fondo, e disagio con randage (relativamente a quest’ultima coppia, è opportuno far notare oltre la quasi-rima, il plurale “randage” usato al posto di “randagie” con la “i” in desinenza, quando è proprio quest’ultimo termine il plurale corretto; sicché si ha la strana situazione in cui si devia dalla norma incorrendo in un “errore” grammaticale il quale, quantomeno visivamente, rende il verso meno armonioso che se ci si fosse attenuti alla regola)
-nella 5^, rupi viene fatto rimare con nubi
-nella 6^, brucia ha un qualche sentore di rima con luce, e cenere è vocabolo marcatamente assonante e consonante con sereno nonché, nelle lettere interessate, palindromo.
Ecco: non è che si possa dire di trovarci dinnanzi ad un testo propriamente regolare…

Dopo la prima strofa che esorta ad affrontare la luce faticosa della verità, ne abbiamo una seconda che fa balenare il sospetto di una complementarietà con la lirica “La farandola dei fanciulli sul greto”.
Là si rimpiangeva “l’età d’oro, florida, sulle sponde felici”, qui si invita ad avere il coraggio di lasciare l’ingannevole infanzia (dell’anima) per la maturità del disinganno.
Lo fa pensare la rima, che, si è visto, tra canneto e sgretola, pur di essere, è ipermetra.
Insomma, risulta molto importante lasciare il canneto dei giochi infantili (“cresceva tra rare canne e uno sterpeto / il cespo umano nell’aria pura” ) e guardare, leopardianamente, con sfida eroica e perdente “le forme / della vita che si sgretola”.
Ed è un richiamo intertestuale che è un rovesciamento.
Certo, non è l’unico richiamo di questo tipo. Potremmo pensare a “Il canneto rispunta i suoi cimelli” dove (a parte il riferimento a un comune luogo che individua un gruppo più o meno esteso di canne) “un albero di nuvole sull’acqua / cresce poi crolla, come di cinigia” fa endiadi con “un fuoco pieno di cenere“.
Oppure ancora la chiusa di “Portami il girasole” dove “Portami il girasole impazzito di luce”, non arriva all’endiadi, ma fa comunque il paio con “si perdono nel sereno / di una certezza: la luce”.
Non è l’unico richiamo, si diceva, ed è anche quello meno esplicito, quasi nascosto.
Proprio per questo abbiamo creduto che fosse importante palesarlo.
Come si è in precedenza fatto notare, non è una poesia di cui è facile decodificare precisamente il messaggio, perché gli input che riceviamo sono piuttosto di un contenuto sghembo.
La parafrasi diventa un compito arduo, forse impossibile, se si resta alla lettera e non si procede ad una lettura che si attivi per raccordare i suggerimenti sospesi tra le righe.
Quando, per esempio, Montale nella terza strofa scrive: “Ci muoviamo in un pulviscolo / madreperlaceo che vibra, / in un barbaglio che invischia / gli occhi e un poco ci sfibra /”, è passato  inopinatamente dal soggetto in seconda persona singolare alla prima plurale, e noi dobbiamo assecondarlo  immaginando che ci abbia già arresi alla sua convinzione che “E’ ora di lasciare il canneto / stento che pare s’addorma / e di guardare le forme / della vita che si sgretola”.
Il canneto da lasciare è un correlativo della indecisione esistenziale. E’ “stento”, per cui riesce a produrre solo un’ombra (una difesa, una fuga) rada, ovvero debole. Bastevole però ad adagiarci. Ma non si può restare sempre lì, in una vita di compromesso, in un’esistenza da Peter Pan.
O ci si rifugia nell’ombra come il falchetto, o ci si immerge nella verità e varietà della vita, nel qual caso, appunto, “Ci muoviamo in un pulviscolo…”.
E che cosa accade? Che ci rendiamo conto di come non sia sufficiente aver fatto fronte al cambio di numero grammaticale, perché serve anche far fronte a uno scarto temporale.
Se quel “Ci” significa che siamo diventati, noi lettori, soggetti, quel “muoviamo” significa che ci è stato fatto fare, volenti o nolenti, un salto logico-temporale, perché il poeta ci costringe alla sua percezione sghemba e non ci risparmia la fatica di capire come, deciso che “è ora di lasciare il canneto”, già ci ritroviamo catapultati a muoverci “in un pulviscolo / madreperlaceo che vibra […]”.
Non c’è la decisione e poi l’attuazione di essa. Il presente si fonde col futuro. E’ un “Fiat” genesiaco. Detto. Fatto.
Scorrendo le strofe, arriviamo alla quarta, dove vediamo replicata perfettamente in tutte le altre un’unica onda: l’ora più calda inaridisce ed impigra, cioè fissa. Toglie al mare la fantasia di cambiare il suo volto e, di riflesso, di cambiarcelo.
Il paradosso è che da questo mare solido si rischia di essere  inghiottiti, perché il “gorgo” è “senza fondo” proprio in quanto non ha fondamento. E’ lì, privo di ragione nel suo statico ripetersi. Sta. Ma non dice e non dà.
E’ anche per questo che “non buttiamo già in un gorgo senza fondo”, è connotabile soprattutto come un’esortazione a non farsi invischiare dallo spirito del meriggio.
Connotazione più problematica è invece legata al “già” di “non buttiamo già […]”. Si tratta di un avverbio che potrebbe valere, e non è così scontato scegliere, come “ormai”, oppure “infatti”, oppure “fin da ora”, oppure (anteponendolo a “non buttiamo” e inserendo una virgola alla fine del verso precedente), “suvvia!”
Alla fine si potrebbe supporre che con questa espressione il poeta debordi un po’ dal vocabolario, facendo assumere alla parola un significato sostanzialmente individuabile nella frase:”non buttiamo in modo sconsiderato in un gorgo senza fondo…”
E a questo punto entra in gioco la punteggiatura.
Vi è un quantomai inconsueto uso del punto e virgola nel bel mezzo di un paragone, che lo spezza, lo forza, e quasi lo rende irriconoscibile:
“Come quella chiostra di rupi / che sembra sfilacciarsi / in ragnatele di nubi; / tali i nostri animi arsi / in cui l’illusione brucia / un fuoco pieno di cenere / si perdono nel sereno / di una certezza: la luce.”
Perché quel segno di interpunzione quando sarebbe stato molto più fluido usare la virgola o addirittura fare a meno anche di quella?
Non sappiamo rispondere se non con una congettura, la quale chiama in causa la struttura logica e metrica delle ultime due strofe, interamente utilizzate a costituire un paragone.
Orbene, il 1° termine di paragone è chiaro, nonostante sulle prime si resti un po’ sviati dal “Come” iniziale, comunemente posto ad avvio del 2°.
Il punto confusivo sta nel fatto che non c’è corrispondenza tra l’esaurirsi del 1° termine di paragone con la prima delle due strofe finali. Ne consegue che viene a crearsi uno stacco logico divaricato dallo stacco metrico della strofa.
Preso atto di questo, risulta poi consequenziale come Montale per evidenziare la situazione, abbia marcato con un’interpunzione di forza media, ciò che di per sé non richiedeva interpunzione, o al massimo la richiedeva debole, sotto forma di una semplice virgola.
Senza questo escamotage sarebbe stato naturale, quantomeno a una prima lettura, ritenere 2° termine di paragone: “tali i nostri animi arsi”, salvo però doversi stupire di non trovare alla fine del verso (che è anche fine della strofa) un punto fermo dopo il quale passare all’ultima quartina per essere accolti con un assurdo: “In cui” che la grammatica proprio non ammette e che non permetterebbe un messaggio sensato.
Insomma, versi, questi conclusivi, che hanno una loro ragione, ma che per poterla realizzare hanno finito secondo la nostra modesta ma spassionata opinione (amicus Plato, sed magis amica veritas…) per essere un po’ farragginosi, perdendo la linearità e naturalezza di quelli iniziali e centrali.
Infine, in relazione al contenuto, è opportuno aver chiaro che il verbo “brucia” all’interno dei versi 1° e 2° dell’ultima strofa, è coinvolto in una metonimia, e che la frase acquisisce senso soltanto se intendiamo questa voce verbale come “alimenta”.
Ora siamo finalmente in grado di parafrasare la seconda parte della similitudine. Così:”tali i nostri animi arsi in cui l’illusione alimenta un fuoco pieno di cenere”.
Animi che però non inceneriscono sulla scia delle loro illusioni. Perché si perdono-salvano nella luce, e facendolo ci immergono nel grande dilemma degli “Ossi di seppia” : se la luce sia più benefica o malefica; se Lucifero sia più angelo o più diavolo.

FULVIO BALDOINO

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One thought on “Alcune note su “Non rifugiarti nell’ombra” di Eugenio Montale”

  1. Questa nuova lettura-commento del prof. Baldoino di un testo poetico montaliano di ardua, mi si passi il bisticcio, lettura tanto a livello formale quanto a livello simbololico-filosofico, fa pendant con la precedente, cioè “Arremba su la strinata proda” , dove il poeta si rivolge al “fanciulletto padrone” per dissuaderlo dal prendere il largo con le sue barchette di cartone destinate a sicuro naufragio; invece in “Non rifugiarti nell’ombra” la consegna è quella di non fare “come il falchetto che strapiomba / fulmineo nella caldura….”, ma ” di lasciare il canneto / stento che pare s’addorma / e di guardare le forme/ della vita che si sgretola.” Si tratta dunque di uscire dalla minore età (dal canneto dell’infanzia) e di guardare con coraggio e sguardo fermo le apparenze fugaci della realtà che dura l’éspace d’un matin . Dal mondo incantato dell’infanzia senza tempo si passa alla comune condizione umana di precarietà, incertezza, disincanto: nella terza strofa, come opportunamente osservato nel commento, alla seconda persona singolare subentra la prima plurale: “Ci muoviamo in un pulviscolo / madreperlaceo che vibra..” come se “ci” ritrovassimo tutti in una specie di nuvola primordiale in cui il mondo deve ancora prendere forma e corpo, che fa pensare al prof. Baldoino all’atto della creazione al “Fiat” della Genesi. Una nuvola amniotica in cui luce e ombra trapassano continuamente una nell’altra e in cui i nostri “animi arsi” dalla calura del meriggio estivo, a un certo punto, non si sa come, “si perdono nel sereno / di una certezza di luce.” E qui anche il pur acuto commentatore si ferma, come fosse anche egli abbagliato da quella luce non più naturale ma metafisica.

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