Alcune note su “Epigramma” di Eugenio Montale


Sbarbaro, estroso fanciullo, piega versicolori
carte e ne trae navicelle che affida alla fanghiglia
mobile d’un rigagno; vedile andarsene fuori.
Sii preveggente per lui, tu galantuomo che passi:
col tuo bastone raggiungi la delicata flottiglia,
che non si perda; guidala a un porticello di sassi.

Si nota subito che la lirica è divisa concettualmente in due parti di tre versi ciascuna.
La prima si concentra sul poeta (e recente amico) Sbarbaro, colto in una brevissima tranche de vie che Montale gli crea per mostrare tramite una scena naif, la natura più autentica e nascosta del suo essere.
Una concessione poetica benevola, che va oltre la realtà per consegnarcene lo spirito che la incarna. E’ l’emblematicità di un momento colto attraverso un epigramma.
Con esso si riesce a squadrare “da ogni lato” l’essenza dell’animo di Sbarbaro? Ovviamente no. Ma risulta importante ugualmente: proprio in quanto creato dalla fantasia di Montale, ci è sicuro documento di come questi vedeva l’amico di appena otto anni più anziano, ma già maestro per alcune suggestioni di fondo che vagheranno insistenti e pervadenti in “Ossi di seppia”.
Risicati nella poesia i riferimenti biografici del personaggio. Solo tre: il nome, l’età e l’attività.

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Il nome è in realtà il cognome, e in quanto tale era opportuno mitigarne la distanza affiancandogli quell’espressione, “estroso fanciullo”, che lo riporta ad una dimensione più intima ed amicale. Sbarbaro aveva nel ’23, presumibile data di composizione di “Epigramma”, sui 35 anni; e di estroso, nel senso di estroverso, aveva ben poco. Eppure le appena due parole con le quali viene tratteggiato, hanno la loro ragion d’essere. Basta intendere “estroso” nell’altro senso di possedere la capacità, l’estro del verso, ed ecco, si comprende come egli possa per “professione” rendere colorate con i versi le pagine bianche.
Di quelle pagine ne fa navicelle, berretti di carta da muratore miniaturizzate che affida al misto d’acqua e fango di un rigagnolo. Perché la sua poesia delle piccole cose ha in sé il torto e l’umiltà di non sentirsi destinata ad andare lontano trasportata dalla corrente di grandi fiumi, e il rischio che i gozzetti (siamo in Liguria o no?…) si incaglino in qualche piccola ansa è una piccola ansia.
Prima dei tre versi di quella che per contenuto si può considerare la seconda parte della lirica, data dalla esortazione e dalla preghiera al galantuomo-passante (che è anche un impegno che volentieri si accolla Montale stesso) affinché si preoccupi di salvaguardare “la delicata flottiglia” indirizzandola col suo bastone (per inciso: interessante l’accostamento tra questo gruppo di barchette un po’ sobbalzanti e incerte, e il deciso intervento del bastone che potrà guidarle al “porticello di sassi”; accostamento che richiama l’idea vagamente dantesca di un gregge condotto alla sicurezza dell’ovile dal suo saggio e provvidente archimandrita), vi è uno strano raccordo all’imperativo posto tra un punto e virgola e un punto fermo, che recita: “vedile andarsene fuori”.
Il soggetto, un “tu” sottinteso, viene richiamato all’improvviso, e ci sorprende.
In una breve proposizione di tre parole, veniamo informati di essere coinvolti, di essere già sul posto dal primo verso, e di essere stati spettatori del gioco di un fanciullo così seriamente calato nella sua fantasia che ci ha abbindolato e con le sue barchette colorate ci ha fatto scambiare per acqua corrente anche la fanghiglia.
E’ nel verso seguente che la funzione della nostra identità finora determinata solo da un verbo all’imperativo singolare,”vedile”, finalmente si palesa, e il soggetto si rinforza e definisce: noi siamo il galantuomo che passa.
Dopodiché anche il “Sii preveggente per lui” molto più che un comando, si rivela una raccomandazione.
Da parte di chi? Di un padre. Montale sente di dover proteggere l’amico Sbarbaro che, Cupìdo rovesciato, ha l’aspetto di un adulto ma dentro è un fanciullo; e siccome poeta, un estroso fanciullo. “Che non si perda”. C’è molta apprensione e affetto in quel “che” residuo di un “affinché” dimidiato su cui Montale si concede di escludere l’accento che la grammatica avrebbe preteso, causando un paragone troppo didattico e asettico.
Quanto può cambiare le cose una mezza parola!
E’ come se tra il poeta-locutore e il passante si instaurasse da subito un’intesa dovuta al medesimo sentimento di protezione per la “delicata flottiglia” e per il timido maestro d’ascia che l’ha modellata, per cui il “che non si perda”, lascia trapelare un sottaciuto “mi raccomando…!” come appunto quello di un padre (o una madre) che confessa le sue ansie per il figlio un po’ troppo svagato a chi potrà essere verso il figlio benevolente.
Sarà dunque un passante a salvare quelle carte colorate dai versi; però questa volta non si tratterà,
come in altri luoghi montaliani, di un individuo distratto che transita per caso, ma di una persona vigile, che si guarda attorno, convintamente collaborativa a trovare l’approdo in un porto sicuro e minuscolo per delle barchette piene di poesia.
Un porticello così come Montale immaginava lo avrebbe voluto Sbarbaro.
E Sbarbaro, con il titolo delle proprie opere in versi e in prosa: “Pianissimo”, “Rimanenze”, “Trucioli”, “Scampoli” , “Gocce”, “Quisquilie”, ne dà “Senza rumor di parole” eloquentissima conferma.

FULVIO BALDOINO

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