Alcune note su “Ciò che di me sapeste” di Eugenio Montale

Ciò che di me sapeste
non fu che la scialbatura,
la tonaca che riveste
la nostra umana ventura.

Ed era forse oltre il telo
l’azzurro tranquillo;
vietava il limpido cielo
solo un sigillo.

O vero c’era il falòtico
mutarsi della mia vita,
lo schiudersi d’un’ignita
zolla che mai vedrò.

Restò così questa scorza
la vera mia sostanza;
il fuoco che non si smorza
per me si chiamò: l’ignoranza.

Se un’ombra scorgete, non è
un’ombra – ma quella io sono.
Potessi spiccarla da me,
offrirvela in dono.

Tra tutte le liriche dei cosiddetti “Ossi brevi”, siamo in presenza della più autobiografica e introspettiva.
Una pagina di microdiario in versi nella quale Montale, così schivo e allergico all’intimismo tout court, rappresentando uno scotto non da poco da pagare in nome della verità, si confessa ma non rinuncia allo scudo del suo caratteristico ermetismo, scevro comunque dal gioco carsico delle analogie.
L’incipit è sulla linea di un qualche brano tratto da una qualche Prefazione ad un romanzo di Pirandello.
L’apparenza infatti è l’ossimoro di un peso che solleva nel nascondere la propria identità.
La scialbatura, la mano di calcina che difende-opprime il poeta e che inganna coloro che credono di conoscerlo, viene paragonata a una tonaca.
Un paragone che ci induce per il suo stesso automatico imporsi, a ricondurci al proverbio secondo cui l’abito non ci dà conto di quanto degno ne sia il monaco che lo veste.
Orbene, una tonaca in quanto tale dovrebbe sancire la preminenza dello spirituale sul mondano dopo un itinerarium mentis di illuminazione.Qui, invece, risulta la maggior responsabile della mancanza di coerenza e aderenza tra essere e apparire, tra interiorità ed esteriorità. Da cui la denuncia montaliana di dover vivere non un’umana avventura, ma “un’umana ventura”, con tutta la mancanza di intenzione che quest’ultima ha rispetto la prima, con la quale condivide solo l’aleatorietà.
Tonaca. Da cui intonacare. Cioè scialbare. La prima strofa è costruita tutta a stretto giro.
Poi si apre alla seconda agganciando un termine: telo.

PUBBLICITA’

Da una parte potrebbe significare qualcosa di simile alla cupola del cielo delle stelle fisse oltre il quale di giorno regna l’azzurro che pacifica gli animi, non attinto a causa del solito multiforme sfuggente sigillo, estremo e perciò più insolente nella sfida a trovare l’ultima cifra della combinazione.
Dall’altra richiama la tonaca: soltanto facendo a meno della veste che ci accompagna nel nostro umano percorso, scoprendo la nostra vergine nudità, al modo della pubblica esposizione di Francesco, senza sovrastrutture, senza infingimenti, senza ipocrisie, è possibile l’acquisizione del “limpido cielo”. Come dire che la libertà (e forse la felicità) non sta nello stracciare il telo che ci separa dal cielo, ma nel dismettere la veste che ci riveste.

L’autore continua nella terza strofa retrocedendo alla forma arcaica di “ovvero”, che è poi quella del suo étimo: o vero. E tra i due significati che a seconda del contesto può assumere (“cioè” e “oppure”), gli attribuisce senz’altro il secondo, e lo fa mettendo in conto la sussistenza di un’altra possibile verità, che il sigillo gli impedisse di conoscere: il bizzarro procedere della sua vita e “lo schiudersi d’un’ignita / zolla che mai vedrò”. Sicché, se non la vedrà, non la conoscerà; e se non la conoscerà, resterà incognita.
Dopo aver fantasticato di un Cielo concessogli dagli dei Celesti, ora considera una Terra concessagli dagli dei Ctonii. Questo quello che avrebbe voluto.
Fuori dal sogno, ciò che resta è soltanto una scorza. Poco? Pochissimo? Non è detto.
Manca la conoscenza, è vero, ma è proprio questa ignoranza che permette al fuoco di mantenersi vivo. In un certo senso è amore.
Conoscenza come fuoco che non si smorza; come Eros figlio di Poros e Penia, mai placato nel suo ardore disperato e insaziabile. Non a caso Montale si preoccupa di porre l’accento tonico sulla “o” di falòtico: “O vero c’era il falòtico / mutarsi della mia vita”.
Il mutare stravagante della sua vita è determinato dal bisogno insopprimibile di conoscere.
E’ un falò che alimenta e soprattutto rende esausti, sicché il poeta sente di non essere riuscito a riempire un vuoto conoscitivo e di essere da tanto tempo così invischiato in esso, in questo ruolo fallimentare, da essersi abituato a restare nella forma senza attingere mai all’essenza; da sentirselo drammaticamente sempre più suo, come la divisa per Giovanni Drogo nell’attesa dei tartari.
L’io lirico è pressoché rassegnato a tutto ciò. La sua ombra e la scialbatura, il nero inconsistente dell’una e il bianco altrettanto inconsistente dell’altra si toccano, com’è giusto che sia per i due estremi di un cerchio che si chiude. Egli vorrebbe liberarsi di entrambe, senza tuttavia annientarle o cancellarle, per farcene dono.
Sarcastico omaggio?
Forse più semplicemente imitazione di quel mare che deposita sulla spiaggia sotto forma di osso spolpato, il monito per chi ha avuto l’ardire di esistere.
FULVIO BALDOINO

Condividi

One thought on “Alcune note su “Ciò che di me sapeste” di Eugenio Montale”

  1. Con quest’altro osso di seppia entriamo in una specie di labirinto introspettivo e filosofico che, come opportunamente osserva il prof. Baldoino, fa pensare alla dialettica pirandelliana tra finzione e realtà, apparenza e verità, esterno e interno e, soprattutto, ombra e luce: “la tonaca che riveste / la nostra umana ventura.”. Come si vede il tema è destinale e anche ontologico: se dietro la “scialbatura” non c’è niente e l’ombra è la sostanza e la sostanza è l’ombra allora i mondo cade nel nulla. Tuttavia l’ombra come metafora del negativo da sola non si regge, perché l’ombra è dipendente dalla luce: al buio non c’è nessuna ombra, come l’ombra è assente dalla luce piena. In senso morale, se consideriamo platonicamente la luce come immagine del bene e l’ombra come immagine del male, questo significa che nel contesto di questo “osso breve” l’ombra è simbolo del male di vivere. “L’io lirico – chiosa il commentatore – è pressoché rassegnato a tutto ciò. La sua ombra e la scialbatura, il nero inconsistente dell’una e il bianco inconsistente dell’altra si toccano, com’è giusto che sia per i due estremi di un cerchio che si chiude”. Già, ma che senso ha un cerchio che si chiude sul nulla? Infatti “Egli vorrebbe liberarsi di entrambe, senza tuttavia annientarle o cancellarle, per farcene dono”. Ma di che dono si tratta? Del male di vivere? Del nulla? “Se un’ombra scorgete, non è / un’ombra – ma quella io sono “. A questo punto il poeta poteva finire qui la sua sofferta “confessione”. Perché ha voluto aggiungere questi due enigmatici ultimi versi: “Potessi spiccarla da mi, / offrirvela in dono.” ? Il prof. Baldoino giustamente si pone la stessa domanda: “Sarcastico omaggio?”. Evidentemente no. La soluzione del commentatore è poetica e ontologica allo stesso tempo; “Forse più semplicemente imitazione di quel mare che deposita sulla spiaggia sotto forma di osso spolpato, il monito per chi ha avuto l’ardire di esistere.” Questo il viatico per chi nasce e si affaccia alla vita. ignaro del male che lo aspetta.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.