Da animale a uomo (da eterno a morituro)

L’uomo dapprima ignora, al pari di tutti gli altri animali, che la sua vita ha un termine; poi, non appena lo scopre, si rammarica di averlo scoperto, e racconta a se stesso di avere colto un frutto che non doveva essere colto, perché Dio glielo aveva proibito: è il frutto dell’albero posto al centro dell’Eden: l’albero della vita.

Egli allora vorrebbe ritornare alla sua inconsapevolezza precedente, al suo Paradiso Terrestre fatto solo di cieco presente. Ma ciò non gli è più possibile perché il Signore, dopo averlo scacciato, gli impedisce di rientrarvi.

Ecco: l’uomo è ormai incastrato dalla scoperta più tragica che potesse fare. Invidierà d’ora innanzi gli animali, perché la loro ignoranza permette la loro eternità.

Ma indaghiamo ulteriormente e vediamo meglio cosa può significare cogliere il frutto dell’albero della conoscenza.

Noi sappiamo che come conseguenza di questo gesto Adamo ed Eva sono allontanati dall’Eden; e sappiamo anche che ciò fa parte di un mito.

Ora la difficoltà forse più notevole che si incontra è determinata proprio dalla particolare struttura concettuale su cui normalmente si reggono i miti: essi “saltano” continuamente dal piano metaforico a quello oggettivo. La conseguenza è che si rende impossibile assegnare a ciascun elemento del mito una valenza tale da permettere, alla fine, la costruzione di un racconto completamente metaforico.

L’altro fattore di difficoltà è determinato dalla funzione che ha il tempo, il quale nei racconti mitici non è mai relativo solo ai personaggi dei racconti stessi, ma coinvolge anche coloro cui il mito è diretto; di conseguenza le dimensioni temporali saranno tutte implicate, anche quella del futuro, in quanto la storia primordiale dimostra la sua verità proprio nell’accadere ancora, nel ripetersi senza fine, nel confermarsi nel tempo.

Il mito deve valere sia come esempio, sia come spiegazione di un meccanismo sempre in atto. Nel lavoro interpretativo di un mito, dimenticare o non sapere che esistono queste due difficoltà, significa andare incontro ad un sicuro fallimento.

Bisogna infine sottolineare come quel particolare mito che è il mito sacro, sia un genere letterario che ha il compito di giustificare l’esistente, e quindi di attribuire al fatto che qualcosa esiste proprio in quella forma, dei precedenti adeguati. Il mondo non può essere ingiustificato (nell’accezione anche di “non giusto”). Dunque il mito sacro non potendo spiegarci perché una cosa è giusta, ci spiega che una cosa è giusta perché è.

Se analizziamo gli oggetti presenti nel racconto della Caduta, vediamo innanzitutto come ci siano due alberi (o un medesimo albero denominato in due maniere diverse a seconda della funzione che assume nel racconto) al centro del giardino di Eden: l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male.

Dell’albero in quanto oggetto simbolico e della sua portata semantica, abbiamo moltissimi esempi. La forza vitale che lo pervade ne è la principale responsabile, perché è essa che gli permette di crescere e innalzarsi verso l’alto, di rifiorire e rinverdire in un ciclo infinito ad ogni primavera e di produrre frutti. Più di ogni altra cosa l’albero rappresenta l’eterno ritorno, e più di ogni altra cosa, perciò, può adattarsi a rappresentare l’eterno ripetersi della Caduta di Adamo ed Eva in ogni uomo dopo di loro, perché ogni uomo ha in essi non solo gli antenati, ma i prototipi.

Vi è poi il serpente che rappresenta la tentazione strisciante, e che si insinua prepotente nei pensieri. Il serpente che è un simbolo straordinario di vita e insieme di morte.

Di vita perché, continuando a vivere con un’altra pelle dopo la spoglia, rappresenta la voglia di eternizzarsi dell’uomo; di morte perché questa voglia mette l’uomo di fronte alla constatazione della sua fine ineludibile di individuo.

A livello popolare per lungo tempo si è visto nel protopeccato un peccato sessuale. Nel mito di Adamo ed Eva si fa intendere, poiché vengono chiamati rispettivamente “uomo” e “donna”, che la punizione riguardi tutti gli esseri umani, per cui il peccato dei progenitori ricadrebbe sui figli e sui figli dei figli. Ciò può apparire ingiusto. In realtà questa che ci pare un’ingiustizia, ci viene in soccorso. Essa significa non che il peccato delle prime due persone le quali hanno tramite procreazione e scienza individuato la possibilità di un varco verso l’immortalità e l’onnipotenza ricade su di noi, ma che tutti noi, attraverso la procreazione e la scienza, o comunque almeno attraverso la scienza (qualsiasi individuo umano, anche il meno ideativo ed attivo, in qualche misura è sempre inevitabilmente “faber”), sempre lo ricommettiamo.

Il protagonista (per il racconto biblico, uno dei due) si chiama Adamo, ma se lo chiamassimo Prometeo non cambierebbe molto: a Prometeo, ogni volta che gli viene mangiato dall’aquila inviata da Zeus, ricresce il fegato (il coraggio, la superbia, l’ardire della sfida).

Per riacquisire il vero senso del testo biblico relativo alla vicenda dei progenitori, non più criptato da una interpretazione che tende a considerarlo una sorta di favola, per quanto estremamente significativa, bisogna riportarlo nell’ambito del genere letterario del mito, dove è più agevole evincere che per Adamo ed Eva si tratta di un peccato di superbia, consistendo nel voler diventare eterni e onnipotenti come Dio attraverso la procreazione e la scienza.

Non lasciamoci dunque ingannare dall’aspetto del serpente (e dalla eventuale analisi psicoanalitica relativa) vedendo il protopeccato come il peccato da associare alla sessualità tout court. Esso è invece da ricollegarsi alla colpa per il tentativo dell’uomo tramite, appunto, la sessualità (ma la sessualità volta alla riproduzione), di perpetuarsi, attendendo nel frattempo che ogni nato nella sua vita agisca impegnandosi a dare il suo piccolo o grande apporto anche sul versante dell’onnipotenza.

Il frutto poi è ciò che viene fatto germogliare dalla conoscenza divina del bene e del male, da quella conoscenza che, lo si è visto prima, è la forza vitale dell’albero.

Ora che ci risulta più agevole ricostruire il significato complessivo del racconto della Caduta (sappiamo cosa rappresentano gli oggetti che vi compaiono; sappiamo, trattandosi di un mito, che l’interpretazione non deve svolgersi secondo un procedimento univoco e rigido, come più frequentemente accade nelle favole; sappiamo il collegamento che la mentalità corrente all’epoca degli autori cui si deve la Genesi e mantenutasi in buona parte fino a noi, stabilisce a proposito dei concetti di dolore, male, peccato), concentriamoci su quello che è il nodo centrale del racconto: l’aver raccolto il frutto proibito. La Bibbia in Genesi 3, 7 dice che solo allora si aprirono gli occhi ad Adamo ed Eva, e che solo allora essi si accorsero con vergogna di essere nudi. Precedentemente, in Genesi 2, 25, il testo recita: << E ambedue erano nudi, l’uomo e la sua donna, ma non ne avevano vergogna>>. La disubbidienza implica subito almeno queste due cose: la chiarezza intellettuale (per occhi si intendono ovviamente gli occhi della mente), e il sorgere del sentimento della vergogna. Perché? Che cosa è accaduto?

E’ accaduto  che Adamo ed Eva hanno scoperto l’inesistenza di Dio. Ora sanno che il male è stato scoprire di essere soli. Essi ora si vedono infinitamente piccoli e insignificanti di fronte all’immensità e onnipotenza del Nulla.

Erano nudi, ma non se ne preoccupavano perché non sapevano di essere nudi, non sapevano quanto fragili fossero. Quando l’albero della conoscenza glielo rivela, ecco che si vergognano, ecco che ciascuno dei due si vergogna per la sua insufficienza di fronte al mondo e la sua caducità ed impotenza di fronte alla morte.

Nell’Eden l’uomo agiva seguendo l’istinto; fuori dall’Eden deve scegliere di volta in volta, tra mille incertezze e difficoltà, con la propria ragione.

Egli dopo aver mangiato dell’albero del bene e del male, sa che il bene era non scoprire la sua impotenza e solitudine, e il male avere fatto questa scoperta.

E’ una scoperta analoga a quella della morte, come si vede. Una somiglianza determinata dall’esserne, in un certo modo, la causa? O la conseguenza? O forse determinata da una nascosta identità?

L’uomo comprende di essere la parte più sofisticata (non necessariamente la migliore) della natura, ma nello stesso tempo capisce che il Nulla è molto più forte, incomparabilmente più forte di lui.

Per sottrarsi al Nulla, Adamo ed Eva vorrebbero realizzare essi stessi l’idea di quel Dio di cui hanno bisogno e che non c’è. Non appena sono sfiorati da questo pensiero, però, la loro vergogna si moltiplica, perché loro così irrilevanti ed insignificanti, si sentono ridicoli e tragici a voler competere con l’infinità del Nulla, nel tentativo disperato di non esserne assorbiti.

Per la Bibbia i genitali sono da associarsi all’idea di vergogna. Non è un caso. E’ infatti proprio attraverso la possibilità di procreare data dai genitali che Adamo ed Eva cominciano ad architettare un piano che consiste nel mirare ad una continuazione dell’uomo che potrà avere fine solo nell’eternità, in cui il tempo, e quindi la stessa continuità,  non avranno più ragion d’essere.

Ed è un piano che li costringe ad avere sempre dinnanzi agli occhi il loro essere delle nullità che vorrebbero vincere il Nulla.

Quello dei progenitori è l’horror vacui dell’individuo consapevole della sua pochezza, contrapposto al Nulla inconsapevole della sua onnipotenza.

Di horror vacui abbiamo svariati casi nella Bibbia. Vogliamo citare emblematicamente l’episodio dell’annunciazione ad Abramo: <<Dopo queste cose, la parola del signore fu rivolta ad Abram in visione dicendo: -Non temere, Abram, io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà assai grande -.

E Abram rispose: -Signore Iddio, che cosa mi darai tu, mentre io me ne vado solo, ed erede della mia casa sarà questo Eliezer di Damasco?-

Disse ancora Abram: -Ecco, tu non mi hai dato prole, ed ecco, un servo della mia casa sarà mio erede-.

Ma ecco, la parola del Signore gli fu rivolta dicendo: -No, non sarà lui il tuo erede, ma colui che uscirà dai tuoi lombi, questi sarà il tuo erede-.

Poi lo condusse fuori e gli disse:- Guarda il cielo e conta le stelle, se puoi – e aggiunse: -Così sarà la tua discendenza- >>. (Genesi 15, 1-5)

E l’episodio delle figlie di Lot:

<< Poi Lot salì da Soar e andò ad abitare sulla montagna insieme con le sue due figlie, perché temeva di rimanere a Soar, e dimorò in una spelonca, lui e le sue due figlie. Ora la maggiore disse alla minore: -Nostro padre è vecchio e non vi è uomo sulla terra che si unisca a noi, secondo l’usanza di tutta la terra. Vieni, diamo da bere del vino a nostro padre e poi giaciamo con lui: così daremo vita a una discendenza da nostro padre -.

Quella notte stessa, dunque, diedero da bere del vino al loro padre, il quale non si accorse né quando ella si pose a giacere con lui, né quando si levò. E avvenne ancora che l’indomani, la maggiore disse alla minore: – Ecco, la notte scorsa ho giaciuto con mio padre; diamogli da bere del vino anche questa notte e tu va’ a giacere con lui: così daremo vita a una discendenza da nostro padre -.

E anche quella notte diedero da bere del vino al loro padre e la minore andò e giacque con lui ed egli non s’accorse né quando ella si pose a giacere, né quando si levò.

Così le due figlie di Lot concepirono dal loro padre. >> (Genesi 19, 30-36)

Dallo sconforto di Abramo all’incesto delle figlie di Lot, corre uno stesso filo: la paura che con la morte cali sull’individuo per sempre il silenzio, che nessuna parte di sé resti viva tra i vivi.

L’amore dei genitori per i figli, ad un esame serio che non sia una spiegazione tautologica (“amo mio figlio perché è mio figlio”), è dovuto in larga parte proprio al conforto grandissimo che i figli danno loro di sapersi mantenuti in vita dopo che saranno morti.

Avere un figlio e poi un nipote, e un pronipote, e insomma una discendenza, cos’altro significa se non “Io sarò ancora”?

Nel Pentateuco molti sono i luoghi in cui viene esaltata l’importanza di avere una discendenza. Essa è utilizzata da Dio come premio  (se egli la concederà) o come castigo ( se egli la negherà); anche perché nel Pentateuco, non è contemplata l’idea di Paradiso Celeste, di premio per chi nella sua vita sulla terra si è comportato rettamente.

Può sembrare assai strano, ma nonostante la sua portata tutta terrena, la blandizie o la minaccia che per un dato personaggio la discendenza ci sia o manchi, assume straordinario rilievo ed arriva a sfiorare l’ossessione. Un rilievo che non è supportato da nessuna vera giustificazione. A meno che non s’interpreti l’avere una discendenza secondo il modo che abbiamo individuato. Ma ecco allora alcuni esempi in sequela di passi biblici che ci paiono evidenziare il concetto or ora riferito:

<< Tutta la terra che tu vedi la darò a te e alla tua discendenza per sempre. Farò la tua discendenza come la polvere della terra: se uno potrà contare la polvere della terra, allora potrà contare anche la tua discendenza >> (Genesi 13, 15-16).

<< Quindi l’Angelo del Signore disse ancora: – Io moltiplicherò grandemente la tua discendenza, tanto che per la moltitudine non si potrà contare ->> (Genesi 16, 10).

<< Ti renderò grandemente prolifico, ti farò diventare nazioni e dei re usciranno da te >> (Genesi 17, 6).

<<…io ti colmerò di benedizioni, moltiplicherò la tua discendenza come le stelle del cielo e come la rena che è sulla spiaggia del mare e la tua discendenza possederà la porta dei suoi nemici, e nella tua discendenza saranno benedette tutte le nazioni della terra, in premio dall’aver obbedito alla mia voce >> (Genesi 22, 17-18).

<<E benedissero Rebecca dicendole: – Tu, nostra sorella, possa diventare migliaia di miriadi e la tua progenie occupi la porta dei suoi nemici->> (Genesi 24, 60).

E, per mostrare che il discorso non coinvolge solo la Genesi, anche alcuni rimandi: (2 Samuele 44,7) ; (Salmi 37, 33-38); (Salmi 89, 4-5); (Deuteronomio 28, 62-63).

Inoltre avere dei figli significa sentirsi il Dio che si fa a livello sociale, e anticiparlo con una capacità creativa (procreativa) propria, a livello individuale. Un uomo e una donna che dal nulla danno l’essere; dall’inesistenza, l’esistenza! Che producono qualcuno a propria immagine e somiglianza!

Non è sufficiente per sentirsi, sotto la spinta del desiderio, dell’illusione o dell’orgoglio, in qualche misura divini?

La prole quindi non è solo l’antidoto contro la solitudine del presente (e solitudine è mancanza di scopi, di significati) per cui ci si dà un ruolo da tutti (anche da se stessi, soprattutto da se stessi) riconosciuto e rispettato, quale quello di genitore. E’ anche l’antidoto contro l’idea insopportabile di non essere mai esistiti per il mondo che resta se si muore senza lasciare una traccia, confusi tra la massa anonima di coloro che con la morte hanno perduto la loro storia e il loro nome.

E che perciò non essendo più è come se non fossero mai stati.

Fulvio Baldoino

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