Una sinistra senza bussola
Quando eventi di portata storica impongono cambi di paradigmi e di direzione, la sinistra brilla per il suo disorientamento, finendo col seguire il percorso sbagliato. Occasioni di rilevanza strategica perse, finendo col favorire gli avversari proprio nei momenti più propizi per vincerli. La prima occasione mancata è stata quella del Sessantotto, come descritto dal filosofo Diego Fusaro in “Minima Mercatalia”, in particolare negli illuminanti capitoli finali, dedicati proprio alla svolta sessantottina, che la sinistra credette di cavalcare, mentre pose soltanto le basi per la propria graduale decomposizione. Ne riporto qualche stralcio, anche se questo libro meriterebbe una ben più ampia recensione.
“Il Sessantotto fu un ricco e variegato fenomeno di protesta che si rivolse contro la borghesia (con la sua morale autoritaria, paternalistica, conservatrice, ecc.), ma non contro il capitalismo: paradossalmente esso finì per agevolare la dissoluzione della borghesia come classe dialettica capace di coscienza infelice e l’imposizione di un nuovo sistema assoluto-totalitario, in una logica illogica di totale integrazione della democrazia nel capitalismo.[…] Per ironia della storia, il Sessantotto, che doveva produrre l’emancipazione dal capitalismo, ha invece generato l’emancipazione del capitalismo dagli ultimi residui dialettici di destabilizzazione che albergava al proprio interno. […] Il proletariato occidentale, contrariamente alle previsioni di Marx, si è rivelato il soggetto sociale più facilmente integrabile nel sistema capitalistico di produzione e di esistenza […] con l’accettazione della forma merce come unico orizzonte simbolico e reale.” A questa “disintegrazione consumistica” delle classi subalterne e alla loro corrispondente integrazione nel capitalismo, per sua natura non coincidente con alcuna classe sociale, la sinistra dette il suo sostanziale apporto, senza rendersi conto che era diventata il cavallo di Troia del suo secolare antagonista. Essa ha concorso al “transito dalla trasformabilità del mondo alla trasformabilità della propria vita individuale”, con ciò allineandosi al modello religioso, che non riscatta la povertà, ma ne allevia marginalmente i disagi con le elemosine, mentre spegne ogni velleità di riscossa con la promessa di una vita ultraterrena, tanto più gratificante quante maggiori le tribolazioni sopportate in vita. Ciò che accomuna i due ambiti è “la rinuncia a cambiare il mondo, sostituita dall’imperativo a cambiare se stessi”. Ciò che li differenzia è che la visione capitalista, fatta propria dalla sinistra post-sessantottina, consacra la merce come valore assoluto (più come valore di scambio che come valore d’uso), mentre la religione loda la rinuncia ai beni mondani, privilegiando quelli spirituali, sia pur a proprio vantaggio ed escludendo dalle rinunce le sue alte gerarchie.
Fusaro rileva come Pasolini fu il primo, e forse il solo intellettuale che avvertì la deriva totalitaria che il Sessantotto aveva inaugurato, sia diagnosticandone la natura iper-capitalistica, sia affermando che “nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi”, aggiungendo che “la tolleranza dell’ideologia edonistica voluta dal nuovo potere è la peggiore delle repressioni della storia umana, una vera dittatura sulle coscienze”. L’autore raffronta poi “l’analisi di Pasolini con quelle di Gilles Lipovetsky, che ha identificato nel ’68 la prima rivoluzione indifferente della storia umana, una rivoluzione molle e lassista, senza programma o finalità se non l’inaugurazione di un capitalismo post-borghese, post-proletario, assolutamente permissivo e nichilista, caratterizzato dalla vittoria dell’individualismo [di massa, come direbbe Elemire Zolla] e dall’irreversibile privatizzazione della sfera sociale. […] Dal ’68 in poi, la cultura di sinistra, con il suo nichilismo relativistico, accetta integralmente il mercato e non ha alcun limite morale e religioso da contrapporre all’integrale avvento del valore di scambio.”
La seconda, grande occasione mancata si ebbe 20 anni dopo, a partire dal 1989, quando l’implosione del sistema comunista sovietico, unico contraltare ideologico al capitalismo (pur essendone la sua variante statalizzata, e proprio in quanto tale votata al fallimento), portò al “monoteismo del mercato”, evincendo, dal crollo del comunismo reale, l’ormai indiscutibile validità del sistema antagonista, liberal-privatistico. Questa conversione ideologica, politica e sociale portò il popolo della sinistra, in preda a convulsioni esistenziali, ad abbracciare il nemico di ieri, benedicendo i suoi valori, espressi nei titoli di Borsa, anzi di una Borsa avviata verso la deregulation e la crisi sistemica esplosa nel 2007.
Crisi che rappresentò la terza occasione non colta, visto che avrebbe dovuto fornire l’estro per colpire al cuore il capitalismo finanziario, in fase di netto superamento dell’economia reale, chiedendo a gran voce la consegna della sovranità monetaria alle competenze dello Stato, considerando che la moneta è la linfa vitale di una nazione. Senza tale opposizione, lasciata esclusivamente in mano alla nuova destra -peraltro in forma blanda e timorosa-, il capitalismo mostrò, una volta di più, la capacità di risorgere dalle proprie ceneri; e infatti, senza modifiche, se non di facciata, dei regolamenti borsistici, tutto riprese come prima. Tanto che neppure il flagello di una pandemia è riuscito ad imporre misure di contenimento dello strapotere finanziario. Anzi: ci siamo indebitati ancora di più: lo Stato verso i “mercati”; singoli e aziende verso banche e strozzini. Anche se il distinguo destra/sinistra sembra malamente applicarsi al M5S, metodi e proclami portati avanti con irruenza, sia nelle piazze sia in rete, avevano fatto sperare milioni di italiani, ai quali i grillini avevano promesso di “aprire il Parlamento come una scatola di tonno”. Anche la loro anima “di sinistra” ha perso l’occasione irripetibile di cambiare l’assetto della politica, spazzando via tutti i suoi congeniti difetti. Al contrario, l’appiattimento sul sistema fu sofferto, ma comunque portato avanti in nome del prevalente interesse individuale, perdendo totalmente la faccia. E l’attuale lacerazione interna verte più che altro sul divieto statutario del 3° mandato: si sta così bene in Parlamento, lavorando –si fa per dire- pochissimo e guadagnando moltissimo. Perché non restarci ad libitum?
Continua Marco Giacinto Pellifroni 27 giugno 2021
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