Umanità

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Alcuni amici abitano in un condominio, qui a Carcare. Al terzo piano c’è un appartamento di proprietà di una di quelle famose cooperative che praticano l’accoglienza dei rifugiati.

Umanità

Alcuni amici abitano in un condominio, qui a Carcare. Al terzo piano c’è un appartamento di proprietà di una di quelle famose cooperative che praticano l’accoglienza dei rifugiati. Si verifica insomma, uno di quei casi particolari di soggiorno di persone provenienti dall’estero, quasi sempre africani direi.

Ho provato ad ascoltare vari commenti dei coinquilini, ed altri a farmeli riportare dagli amici che qui abitano. In genere nessuno ha gravi rimostranze da fare. Diciamo che tutti si soddisfano nel pronunciare frasi sospese, giusto per poter dire, un domani: “Ah ma io l’avevo detto!”.

Invece fino ad ora (sono ormai anni che questi rifugiati risiedono per brevi periodi qui) non è successo niente. E questa però non è una notizia, e non può essere riportata sulle varie testate locali e non.


Le lamentele più forti si sono registrate quando, in un certo periodo, fra alcuni degli ospiti c’era chi cucinava con aromi penetranti e cotture piuttosto elaborate, tali da inondare il vano scala con afrori piuttosto inebrianti. Subito s’è levato un coro di proteste all’amministratore, ai gestori della cooperativa, i quali devono aver provveduto in qualche modo, e di odori di cucina non se ne son più sentiti, se si eccettua qualche italianissimo minestrone all’ora canonica.

Una simpatica e timorosa vecchietta, specialmente, ha annunciato di essere terrorizzata. Da quando c’erano loro, lei usciva di casa con sempre maggiore circospezione. Cercava di non incrociarli, di non vederli. Appena rientrava a casa chiudeva il portone a doppia mandata, fiduciosa che la serratura potesse bastare come baluardo tra la sua virtù e i selvaggi dell’appartamento contiguo.

Talvolta la timorosa vecchietta confidava ad uno dei miei amici: “Però non sono mica cattivi, sai. Pensa che mi salutano sempre e sorridono. Uno mi ha portato su la borsa della spesa, e un altro, un ragazzino giovane, mi saluta in francese e mi chiama maman…”. Poi dopo una breve pausa soprappensiero continuava con tono severo: “Ma come fai a sapere cosa pensano quella gente lì? Come fai a vederli in faccia? Non ci si può mica fidare?!”.

Solo per sentito dire, so che la stessa cooperativa ha vietato l’uso dell’ascensore a questi ragazzi. Forse a fin di bene, per evitare critiche o incidenti. E infatti nessuno di loro sale sull’ascensore. E questo mi fa venire in mente la segregazione ancora tragicamente attiva negli Stati Uniti negli anni Cinquanta e Sessanta. Il razzismo si coltiva nelle piccole cose.


La paura del diverso, la paura delle malattie, della morte, della sottrazione dei nostri beni, sono tutte ataviche, antichissime. In un villaggio un nuovo arrivato era visto con sospetto, tenuto ai margini, caricato se possibile di tutte le cose negative che il villaggio voleva tenere lontano da sé. Non c’è da stupirsi se ancora oggi la gente ha paura di un uomo con la pelle scura, che parla una lingua incomprensibile, che mangia delle cose detestabili. Caricare di inciviltà gli stranieri è un modo comodo ed efficace per rimarcare le virtù della nostra (povera) civiltà. Ma tutto questo, torno a dire, non stupisce, ed in qualche misura è probabilmente un metodo sociale per la protezione del villaggio, del gruppo, della famiglia. Intendiamoci: per secoli, l’ospitalità alle singole persone è sempre stata sacra quanto ovvia. Ripenso addirittura al mito di Bauci e Filemone, poverissimi coniugi, disposti a sacrificare i loro averi per accogliere due poveri viandanti sconosciuti, poi palesatesi in Zeus e Apollo (Metamorfosi, Ovidio, VIII libro). Quando in un villaggio arrivavano gruppi stranieri, allora veniva a galla il pregiudizio. Un uomo, due uomini, li puoi chiamare per nome, per soprannome. Ma una carovana, una masnada di briganti, un esercito, li puoi solo identificare con un pregiudizio, assumendo una caratteristica (in genere pessima) valida per tutti gli individui. Intendiamoci: è comodo ed efficace. Ha senso. Non è cattiveria gratuita. Saprai così che uomini armati e in divisa vorranno da te tutte le scorte. Che gli zingari potrebbero aggiustar le pentole ma rubare le galline. Che i francesi portano malattie veneree (lo stesso diranno loro di noi italiani…).


 Bauci e Filemone

La storia dell’umanità ci insegna che nessuno è straniero per lungo tempo. Le persone si mescolano, nascono nuove usanze, nuove tradizioni, che si trasformano continuamente. Ci sono esempi evidenti dappertutto. Ho già citato altrove il caso della nostra religione storica, il cristianesimo, della sua incarnazione in un arabo palestinese. Pensando anche a due dei suoi più illustri epigoni: sant’Agostino e san Paolo, uno algerino e l’altro turco.

Questi processi di integrazione e riadattamento non sempre procedono in pace. Anzi: sicuramente riequilibrare una società che si ricompone continuamente, che accetta contributi ed esporta contributi, vuol dire anche sopportare una dose di attrito, di difficoltà, anche di violenza. Ma se ora siamo qui, su questo mondo, è proprio perché alla fine si trova modo di convivere e di crescere.

Più recentemente, mi pare, il razzismo è stato istituzionalizzato. Voglio dire che ci sono e ci sono stati libri, riviste, congressi, partiti politici o movimenti di opinione che promuovono il razzismo. Ci sono state delle leggi (anche in Italia) che normalizzavano le differenze, le descrivevano definitivamente, prescrivevano attentamente cosa una persona di una certa razza poteva o non poteva fare.

Mentre il pregiudizio del vecchio villaggio era a misura d’uomo e finalizzato a integrare persone e culture, anche come detto con tempi lunghi e non senza difficoltà; il razzismo moderno è uno strumento politico, risponde ad una esigenza nata dalla gestione delle masse: dare un nemico comune; mostrare una categoria, un gruppo, una razza, come responsabile delle molte nefandezze; ridurre le persone ascritte a questo insieme in condizioni di povertà, in modo poi da giustificare qualsiasi intervento (“Sono come animali! Non meritano niente!”).

È un copione già tragicamente visto. Sappiamo che questa propaganda è efficace quando la gente comune perde il pudore per i pensieri che ha sempre covato in forma vaga e incompleta. Con questo clima morale e con la possibilità di condividere sui social i propri pensieri, abbiamo assistito a un florilegio di dichiarazioni gratuite e violentissime contro “gli altri”. Le stesse cose che si dicevano sottovoce, cercando di non farsi sentire, negli anni Sessanta e Settanta, a proposito di calabresi o siciliani o campani, dico le stesse cose, si sono sentite dire degli albanesi, dei rumeni e ora dei “neri”. Ma oggi i nostri campioni del pensiero televisivo hanno sdoganato la parolaccia e l’opinione portatrice di odio e di terrore. Per cui anche noi, nella nostra vita quotidiana, abbiamo un disperato bisogno di  enunciare odio, terrore e parolacce, perché questo è il modello che ci viene ispirato. Come se fosse parte di una soluzione ad un problema complesso ed enorme, e di cui continuiamo a non occuparci, fingendo di risolvere la questione recludendo e nascondendo il problema, come di solito fanno certi adolescenti, o spesso, gli adulti che non hanno avuto un’adolescenza.


Nelle ultime decine di anni abbiamo avuto alcuni politici al potere che ci hanno insegnato con forza ed entusiasmo che la liberà è il pieno diritto a fare ciò che si vuole, giustificato dal bisogno contingente: “Eh, ma devo pur lavorare!”; “Eh, ma se pago tutte le tasse allora chiudo!”; “Eh, ma se assumo in regola non ci guadagno più niente!”;  “Eh, ma mi fermo solo un momento, per prendere il caffè!”. Sono tutti aspetti dello stesso problema, che raccontano per accenni la deriva caotica nella quale proseguiamo, inetti, verso il gran pasticcio.

Le regole sono fondamentali per garantire la libertà individuale. Le regole vanno promulgate con questa intenzione e vanno osservate e fatte osservare con rigore.

Questa dovrebbe essere la bandiera (più del tricolore, ormai un po’ frusto) in cui riconoscersi e da esporre, consegnare nelle mani di qualsiasi umano dovesse mai sbarcare in Italia. E forse ci sarebbe bisogno anche di rispiegare alla popolazione che le regole sono costruite secondo altre regole, che non si possono fare leggi a caso, così, come uno si sveglia al mattino.

Penso che sia giusto che lo Stato si occupi dei rifugiati, come di chi soffre in genere. Penso che i cittadini che non conoscono il problema, potrebbero pure tacere. Penso che ancor più dovrebbero tacere i giornalisti che fanno scandalo continuamente su notizie che non esistono. Penso che qualunque reato vada perseguito secondo la legge, identificando e fermando secondo le direttive ricevute. Penso che non ci voglia indulgenza nel perseguire i reati, ma anche che nel perseguire i malviventi sia necessario il rispetto che dobbiamo a tutti gli uomini. Penso che dovremmo essere abbastanza maturi per comprendere che non ci sono razze, al mondo. Non ci sono: scientificamente la parola “razza” non ha senso. Meno che mai per l’uomo.

  

In questa ridda infinita di movimenti e variazioni demografiche, in tutti i tavoli di concertazione, nei congressi, nelle tavole rotonde in cui si approfondisce la questione del migranti, manca sempre un attore. Ci sono i politici, le forze dell’ordine, le ONG, la Chiesa Cattolica o talvolta altre confessioni religiose, ci sono gruppi di cittadini, ci sono persino gli estremisti. Non ci sono mai, mai i responsabili (se non del tutto, in parte) di chi scava il coltan, di chi trivella petrolio, carbone, uranio, diamanti, rame, chi vende armi. Di chi coltiva intensivamente cotone, mais, albero della gomma, di chi infine scarica i rifiuti industriali dove prima c’era una coltivazione diventata improduttiva. Di chi costruisce dighe enormi contro il parere dei residenti. La campagna africana, così sfruttata, muore, socialmente e agronomicamente. La gente abbandona i vecchi villaggi e si accalca nelle baraccopoli a ridosso delle grandi città. Promiscuità, sporcizia, caos, facilitano le malattie, il commercio dei corpi.


Tutta ottima manodopera per fare la guerra ad un vicino.

“Aiutiamoli a casa loro” può essere, in queste condizioni, solo un slogan.

Queste persone, quando si sentono in un paese in pace, con un tetto sulla testa, ascoltano la musica, cercano di vestirsi bene, come tutti gli altri ragazzi della loro età. Cosa fanno di sbagliato? Esistono. Ci sbattono in faccia quanto sia storto e mal fatto questo mondo mezzo obeso e mezzo rachitico. E dovremmo chiederci, la domenica mentre ci avviciniamo alla chiesa, quali sono le responsabilità, quando è cominciato tutto questo, quanto ci entriamo anche noi.

Non ho soluzioni da proporre, non sono così preparato. So, però, che non ci sono soluzioni definitive, conclusive. So che in natura e nella storia dell’umanità non ha mai vinto il più forte, ma quello che si è adattato e ha trovato le soluzioni migliori, traendo vantaggi da situazioni di crisi. Non ci saranno muri, blocchi navali, filo spinato che possano risolvere una situazione del genere. Mettiamocelo bene in testa.

Il danno profondo e grave che è stato fatto e si continua a fare, per responsabilità dei giornalisti approssimativi e caciaroni, dei razzisti, degli individualisti cinici, dei retori della purezza della razza e della tradizione, è la morte annunciata della misericordia e della compassione. Al di là delle soluzioni possibili, dei problemi effettivi, delle difficoltà di convivenza, perdere queste virtù equivale a perdere umanità, a incamminarsi sul sentiero del nichilismo, quello che ammette qualsiasi nefandezza. Non solo agli “altri”, ma anche a noi.

    ALESSANDRO MARENCO

 

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