Tra il boia e il buio
Dedicato a tutti coloro che lottano per la giustizia e la libertà. E in questo tragico momento della storia, per i russi che in Russia hanno il coraggio di sfidare il potere e la guerra scendendo in piazza contro il potere e la guerra.
Pensieri, disordinati come il suo respiro, di un prigioniero politico rinchiuso a oltranza in una cella d’isolamento completamente buia, fino a quando non confesserà crimini non commessi; fino a quando non confesserà che la libertà è un crimine; fino a quando la sua ragione non darà ragione alla Ragion di Stato.
Del prigioniero in oggetto non si conoscono né il nome né l’età.
Si sa soltanto che con altre migliaia è completamente solo.
Chiuso in questo spazio angusto
non più grande di due metri per uno,
per uno come me che sopra tutto
ama la libertà,
perdo i sensi,
e bràncolo nel buio
cercando di capire
dove la mia carne inizi e finisca,
e se sia.
Carne: terra di stenti,
di ossa rotte
dalle botte e dalla febbre.
Una febbre che anche nell’aguzzino sale
quando volentieri
nei giorni di festa
gioca con me, con la mia testa,
facendomi rullare il tamburo
della sua pistola alla tempia
(“Cosa vuoi che sia!?
Solo un’infausta probabilità su otto!”
dice irridente onnipotente).
“Non ci tieni”
– aggiunge –
“che rulli il tamburo
per un’esecuzione che abbia
un minimo di ambizione,
che faccia almeno
un po’ di rumore?”
Così ho il capo
che ininterrottamente
più del cuore mi pulsa,
simile ad una bomba dal cui ventre
scocca il processo che la scheggia;
e dopo è sempre la stessa storia
della disfatta della dignità
di un corpo che non si contiene
dal distribuire feci e urine,
mentre lo stomaco sbocca
allo sfintére della bocca,
vomito e sangue.
Via via, con i mesi e gli anni,
più blu si sono scolpite
sotto la pellicola
della pelle le vene;
il corpo diàfano evapora
e lascia la pesante anima in basso
a farsi sasso,
già quasi in vita morta,
sporta sulla vorace ingorda
gola del vuoto,
sporta come questo attimo eterno
mortissimo d’inferno.
Il nero non consente
sviluppi temporali:
dal suo occhio il per sempre cresce,
e il per mai:
l’identità assoluta non muta:
è il buio che mi rende
indistinto dal fuori di me,
da quello che ero, che sarò.
Io buio, io buia-mente.
L’idea mi fa tumultuante
un cervello che più non tiene.
E per un uomo fatto minerale,
sia pure il più duro, il più splendente,
sia pure dei diamanti il più tagliente,
l’essere costretto
a brevi ansanti ansiti è pur troppo:
manca l’atarassìa suprema
dell’inorganico,
l’apatìa primeva
dell’alga e del lichene.
Così resta soltanto l’attesa
di vivere fino a domani
purché l’oggi trascorra.
Anche se sarà
ineluttabile domani
volere che domani trascorra.
Così i giorni
mi passano come fossero anni,
e gli anni come fossero giorni:
il paradosso che mi porto addosso
in quest’adesso eterno.
Da quando la libertà divenne
solo un lontanissimo miraggio
perché l’unico raggio
(ostia grata attraverso una grata),
condiviso con i compagni di pena,
mi fu bandito,
penso desolato
al sole sussistere soltanto
come ciò che si smorta
sull’altra faccia del mio freddo muro.
Là una lucertola intenta alla caccia,
intinta di luce, la sua gorgia gonfia,
prepara la sua lingua prensile allo scatto
nell’aria calda e leggera.
Capire allora l’uso,
così testardo, di vivere,
non più sufficiente a vivere per niente:
ti si fa più incerta la coscienza di esistere;
ti si fa più sogno il reale;
più reale l’incubo.
E invero, non fosse per la sofferenza
che dà certezze altrimenti indimostrabili,
crederei d’essere morto.
La tomba: questa:
intorno, dentro.
Qui sono dimenticato.
Non esisto per nessuno.
Qui sono tremante e inerme,
come il marcio davanti alla bocca del verme.
Tra il boia e il buio non c’è differenza.
Il potere lo sa. E’ solo una fine più lenta.
E’ solo la stessa sentenza
sotto altra forma.
Ma io come farò a dire ancora no
se non ricordo neppure il mio nome?
Sempre le stesse domande si rincorrono
nei circuiti del cervello,
dove la pazzia vieppiù
spadroneggia su me,
innocuo e innominato.
Nato non fossi mai!
Sarebbe stato meglio essere niente
che un dato da non più tener presente;
che saperti ignorato,
così com’è destino prima o poi,
e come è giusto, forse,
dai pensieri di chi ebbe ad amarti.
Ma poiché il nulla prevale senza risparmio,
senza risparmio lo abbraccerò con un abbraccio,
con un laccio di reciproca morte.
Questo vado pensando
intanto che fermo trascorro.
Così mi passano i giorni,
così la vita.
Così la vita mi passerà.
Spero assurdamente in ciò che ero.
Ormai vecchio,
guardo nel punto più lontano dello specchio,
sognando di ritornare alla libertà di allora.
Spero in tutto tranne che in quest’ora,
che è un adesso-per-sempre,
che è un adesso-per-mai.
Però no, non così!
Ora che so su cosa il mondo regge,
di che pasta il potere e la sua legge,
quale sia la demenza che protegge i sani,
e come sia difficile e crudo
resuscitare i vivi…
Hanno chiuso la cella
e m’hanno lasciato lì.
Io spero sempre ma non so in cosa.
Forse la speranza
si stanzia su se stessa.
Ma quando l’ultimo barlume di illusione
si spegnerà come la fiamma smunta
nel lume giunto all’ultimo petrolio,
o quando il coltello senza punta
rinuncerà davanti al duro pane,
o quando lo sterco a un cane
sarà sollecitato
nel più nascosto angolo del prato
perché non intralci
l’andirivieni del cieco consenziente
o dell’indaffarato indifferente,
mi si mostrerà nudo il muro,
e quella che è la mia prigione
potrà liberarmi.
Contro quel muro, se avrò coraggio
(e ce ne vuole tanto per l’oltraggio
che forse fuori è maggio),
la mia testa mai abbassata.
Contro quel muro, se avrò forza
più delle forze che mi resteranno
per vivere,
più dei grumi grigi
che si attaccheranno alla parete
come la carne della lumaca
alla suola di una scarpa distratta.
Contro quel muro
il mio capo mai domo, mai chino.
Sarà una brutta parte che mi faccio,
l’ultima, la più dura e pietosa:
per preparar la tomba alla mia tomba,
diventarmi aguzzino, di me farmi becchino.
Ma il manichino tragico, supino,
l’altro aguzzino, quello potente
della sua patente al potere,
non mi vedrà genuflesso acquiescente
neanche alla fine.
E’ eroismo il suicidio
per chi come me
dovrebbe altrimenti tradire e tradirsi?
Non so. Ma, signore e signori,
da là fuori
avete mai dato
spazio sufficiente all’immaginazione,
per voi medesimi vedere incatenati
da un carceriere il quale,
voi per le braccia appesi,
attizza sotto i vostri piedi brace?
Ebbene, è stato questo l’intrattenimento
che m’hanno riservato;
e quello opposto:
dell’affondarmi il volto,
io appeso, nell’acqua capovolto,
fino allo spasmo.
Resistere e soffrire
fino a svenire.
Ma sarei crudelissimo,
un diavolo camuffato da santo,
se a me chiedessi ancora tanto.
Sono un uomo,
e sarebbe disumano.
Questo è quanto direi se m’ascoltaste.
Se io non fossi immerso nel silenzio,
se voi non foste immersi nel rumore.
Nasconderanno il mio cadavere,
lo so.
Il mio sacrificio non darà messaggi,
né ai più né ai meno saggi.
Inutilmente morirò.
Diranno calunniandomi
che dopo aver vigliaccamente tramato,
la giustizia col suo braccio
m’ha fatto tremante vigliacco,
e che questa è l’equa
fine degli iniqui.
Inutilmente dunque morirò.
Ma quanti inutilmente vivono?
Quanti cadaveri passeggiano
e da sempre fetenti e putrefatti
pensano al di là
di questo mio muro,
a un loro futuro tranquillo e sicuro,
d dopocena giocati a carte,
di giorni voltati dall’altra parte?!
Sì, inutilmente morirò,
e in quel preciso istante
farò del muro un cielo di silenzio.
Il nulla è più forte
della morte.
Inutilmente morirò,
ma in quel preciso istante
io non lo saprò più.
Avrò finito di morire,
e volerò nel nulla.
In quel preciso istante.