Sulla scuola

Sulla scuola
C’è aria di contestazione nel mondo della scuola. Protestano gli studenti, protestano i docenti, protestano i non docenti, i presidi, i genitori.

Sulla scuola

C’è aria di contestazione nel mondo della scuola. Protestano gli studenti, protestano i docenti, protestano i non docenti, i presidi, i genitori. Mancano i fondi, le strutture sono scarse, talvolta fatiscenti, non ci sono aule adatte, non riusciamo a coltivare i ricercatori. È un panorama desolante, che a dire il vero si ripete e si amplifica ormai da anni.

Non sono un esperto della scuola, ma mi sento di poter fare qualche speculazione sparsa, che magari potrebbe generare qualche pensiero meno che superficiale nei miei due lettori.

La scuola è stata quasi sempre nelle mani del potere. Persino il fascismo aveva dato rilievo alla riforma scolastica (è la riforma, si potrebbe dire, per antonomasia, quella di Gentile, corretta e adeguata al regime dalle “fascistissime” norme di Bottai). Le scuole dei borghi rurali nascono nel Ventennio, sono edifici spesso nuovi, dotati di alloggio per l’insegnante, arredati e muniti di cartine, libri e pertinenti ritratti del testone e del piccolo savoiardo. Prima d’allora la scuola era roba da borghesi, non solo come classe sociale, ma come coloro che abitavano nel borgo. A Cairo Montenotte si trovano, in archivio, accenni ad una scuola pubblica (gestita dal clero) già dalla fine del Settecento. Nell’archivio del plesso didattico si trovano pagelle e registri di fine Ottocento. Ma tutto il territorio dei boschi e delle colline savonesi (e, abbiamo ragione di pensare, dell’Appennino in genere) era totalmente ignorato dalle politiche scolastiche del governo centrale (sia stato sardo/sabaudo, napoleonico o restaurato…).

L’educazione dei fanciulli non c’era, o era occasionale, affidata a girovaghi che si guadagnavano vitto e alloggio leggendo, o insegnando un poco di abaco la sera, alla fioca luce del lume. Era il maestro, insomma, che si recava dai suoi studenti[1] secondo un modulo educativo pervenuto da prima ancora della rivoluzione francese.

Le comunità agricole erano consapevoli del valore dell’istruzione. Doveva essere importante saper leggere e scrivere, per non farsi fregare, per capire bene, per saper imparare, per poter comunicare con una lettera (dal fronte, dall’America, da una vicina città). E’ documentato in archivio a Cairo, negli anni seguenti alla Grande Guerra, il caso del maestro di Camponuovo, un certo Cadonà Bortolo, di Treviso, già furiere dell’esercito, che, da viandante, si inventa una scuola pubblica in quel borgo così lontano dal centro della cittadina. I bambini non avrebbero mai potuto frequentare la scuola, così lontana. Soprattutto nei rigidi mesi invernali. Il maestro Bortolo (ancorché contestato dal provveditorato perché sprovvisto di “patente per l’insegnamento”) viene riconosciuto nel suo ruolo, e la stessa comunità di poveri contadini si tassa per mantenerlo (probabilmente contribuendo “in natura” al suo sostentamento) e trova modo di far pervenire al sindaco di Cairo una petizione, una raccolta di firme (ed è commovente vedere quante croci vengono vergate da quelle dure mani di contadini e boscaioli) per chiedere un contributo, un riconoscimento ufficiale del lavoro del Cadonà, tributo che il comune non tarderà a riconoscere al maestro, dandone avviso al provveditorato (pur sempre contrario alla cosa).[2]


La morale di quel che la Storia ci insegna è che la scuola si può fare sempre e comunque. In mezzo al deserto, su una montagna, in una trincea (quanti soldati hanno imparato a scrivere proprio durante la guerra!), fra i boschi. Con aule ricche e riscaldate come in una stalla, come anche all’addiaccio. Quel che serve a che la scuola sia tale sono i docenti e i discepoli. Chi insegna deve aver voglia di farlo. Chi impara deve averne bisogno, sete di imparare. Da qui si dipana poi tutto il resto della pedagogia di ogni tempo. Tutto questo per dire che si potrebbe arrivare al punto di fare a meno di fondi e strutture per la nostra scuola. Potremmo fare a meno delle aule, dei libri e delle penne, delle cartelle, degli scuolabus, dei mappamondi e dei sussidi didattici di ogni tipo. E nonostante tutto la scuola potrebbe funzionare lo stesso. Ma quel che c’è di diverso rispetto a qualche anno fa, è che gli stimoli esterni sono cambiati, migliorandosi in potenza del segnale, onnipresenza, capacità di attrazione dell’attenzione. Non dimentichiamo un passaggio importante, che spesso viene (più o meno volontariamente) eluso: la scuola è il luogo istituzionale della formazione ma l’educazione dei ragazzi è un argomento ancora più complesso, al quale la scuola prende parte, ma a cui contribuiscono la società, la famiglia, i mass media.


Alla luce di quanto ora detto, ci rendiamo conto di quanto peso hanno i media nella formazione dei ragazzi? Cosa può fare una famiglia in cui i genitori lavorano entrambi (se sono fortunati)? E come si fa per essere presenti, come genitori, vigili non pressanti, attenti ai nostri figli, se sono (noi e loro) letteralmente bombardati da modelli, suggestioni, propaganda, spesso in uno stato di esaltazione permanente in cui tutto è al massimo del piacere, o al massimo del disastro. Vengono suggeriti (o imposti) modelli di bellezza, giovinezza, sviluppo economico, performaces che non sono realizzabili se non accettando gravissimi compromessi (penso all’ultima cronaca riguardante le ragazzine-squillo).

La scuola è insomma sotto grave assedio. Il sistema dei media attuale ci soddisfa nella necessità della conoscenza: basta digitare su un motore di ricerca e si viene a sapere tutto, si possiede tutto lo scibile (se ne ha l’impressione). I docenti sono sbatacchiati da una sede all’altra, mai di ruolo, perennemente precari, incalzati da problemi pratici e da un sistema che affievolisce (per non dire strozza) ogni velleità d’insegnamento, ogni passione per la docenza, ogni rapporto docente/discente che dovrebbe portare la soddisfazione e il piacere di fare un mestiere utile e sacro alla società. Ecco che, infine, è venuto a mancare il fondamento della scuola: la sete d’imparare con la voglia, il piacere d’insegnare. L’alunno non ha più bisogno di conoscere, il maestro non ci crede (quasi) più e la società non riconosce più il ruolo, il valore quasi sacro del maestro.


Con queste premesse quale riforma è possibile? Forse lo Stato dovrebbe occuparsi di più della istruzione superiore, partendo proprio dai gradi più alti della scuola, per assicurare una classe di intellettuali (in tutti i campi) al futuro. Insomma sostenere fortemente le accademie e la ricerca scientifica, reggendo chi vale, chi studia, chi è dotato. E contestualmente curandosi il meno possibile delle scuole primarie, augurandosi che i genitori (peraltro fin troppo impegnati a districarsi tra lavoro e impegni vari), riconoscano il senso e l’utilità della scuola pubblica. Certo non ce la potrebbero fare da soli. Occorrerebbe spegnere le televisioni e ridurre la connessione a internet e le coperture telefoniche a qualche ora al giorno. Ma i genitori non hanno l’autorità per farlo, e tutto sommato neanche gli interessa. E la cosa più grave è che neppure lo Stato ha questa autorità, perché ogni azione che reca un danno ad una impresa privata (telefonica) passa per un grave attacco alla democrazia.

Ma purtroppo non se ne esce: la scuola pubblica è destinata ad arenarsi miseramente. L’istruzione e l’educazione diventeranno sempre di più una questione personale, famigliare, privata. E chi non può, non ha tempo, non sa, avrà figli più ignoranti.

ALESSANDRO MARENCO


[1] A questo proposito si veda la storia registrata in A. Marenco, D. Montino Storie magistrali. Maestre e maestri tra Savona e Val Bormida nella prima metà del Novecento, ed. Comunità Montana Alta Val Bormdia, Millesimo 2008.

[2] Questa altra vicenda è raccolta e documentata in D. Montino (a cura di) La Storia dietro l’angolo. Luoghi e percorsi della Storia Locale. Istituto internazionale di Studi Liguri, 2011.

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