Sulla presa del potere del Pd…

 
Sulla presa del potere del Pd
con l’aggiunta di qualche corollario

Sulla presa del potere del Pd
con l’aggiunta di qualche corollario

Rispondo in modo solo indiretto alle domande che mi rivolge il prof. Sguerso per evitare di scadere in una polemica personale che non mi pare si addica a questa palestra di voci libere. Da quando, qualche mese fa, ho iniziato a collaboravi ho apprezzato non solo l’intreccio fra temi di interesse locale e riflessioni di carattere generale ma anche la diversità dei punti di vista. E devo dire che sulle questioni che mi stanno a cuore il più delle volte mi sono trovato in disaccordo con gli articolisti. Ne ho preso atto e l’ho considerata un’occasione per mettere alla prova le mie convinzioni. Quot capita tot sententiae, senza che ciò significhi doversi schierare su campi opposti. Per quel che mi riguarda evito di etichettare le persone, anche perché non mi fa piacere essere etichettato. Se, per esempio, provo simpatia per Rizzo e condivido buona parte di quello che dice non è che, folgorato sulla via di Damasco, sono diventato comunista; se ho letto con attenzione e senza pregiudizi Mein Kampf e vi ho trovato qualche analisi corretta non per questo sono un neonazista; se ripongo una certa fiducia in Salvini e in Beppe Grillo non vorrei essere sospettato di dissociazione o crisi di identità: non sono né leghista né grillino. Mi picco semplicemente di essere un uomo libero e di giudicare con gli strumenti che ho. Poi, quando, finalmente, si andrà a votare valuterò a chi dare il mio voto, sapendo anche che, come mi è capitato nel passato, me ne potrò pentire.

Detto questo, vedo di chiarire, cercando di conciliare per quanto posso brevità e chiarezza, la mia posizione sulle tentazioni censorie che si avvertono in certi ambienti della maggioranza, sulla invasività del Pd che ha portato a termine la lunga marcia verso il potere del Pci e di rispondere alle altre obiezioni del collega sulla questione generale che avevo posto: il terrore che circola nelle stanze del potere per l’avanzare di quello che chiamano populismo e i tentativi scomposti di correre ai ripari. Per chiarire, non per polemizzare (anche se nelle obiezioni che mi sono state mosse c’è qualcosa di sconcertante come il riferimento alla lealtà di Togliatti che farebbe sogghignare qualche vecchia guardia del partito e l’attribuzione a Berlusconi  del ruolo di strumento di quell’establishment mondiale che l’ha fatto fuori ). 

 


 

Opinioni e verità nell’universo delle parole

Non avevo intenzione di scomodare Wittgenstein né Eco, tantomeno Abelardo o il suo maestro. Il primo, del quale suggerisco di meditare l’aureo assioma “di ciò di cui non si può parlare è bene tacere”, come filosofo è imbarazzante dal momento che nel Tractatus logico-philosophicus  sostiene una tesi diametralmente opposta a quella  delle Philosophische Untersuchungen; il secondo era accattivante con le sue Bustine di Minerva al tempo in cui l’Espresso e Panorama si contendevano i lettori. Diventò famoso grazie a un brutto romanzo cerebrale, anticipatore dei prodotti commerciali alla Dan Brown, con personaggi inerti, del tutto privi di anima e un impianto narrativo a più strati costruito a priori. Quanto agli altri,  requiescant in pace nel cimitero della storia e nel silenzio delle biblioteche. Intendevo semplicemente sostenere, anche un po’ ironicamente, che nessuno, meno che mai un qualunque Pitruzzella, si può arrogare il diritto di stabilire quali opinioni si possano esternare e quali no e mi sembrava che la mia fosse una pretesa ragionevole, senza bisogno di invocare la carta costituzionale. Che poi la libertà di esprimere le proprie opinioni sia di fatto limitata dalla possibilità di diffonderle è una circostanza incontrovertibile com’è del tutto evidente che, mentre l’accesso ai media tradizionali è ben custodito, il web ha le porte spalancate, il che a qualcuno può dispiacere.  Sul problema della verità non mi sono azzardato e non mi azzardo ora ad addentrarmi: la cosa migliore è attenersi all’etimo greca, evitare le menzogne, non alzare polverone e soprattutto non farne una variabile indipendente come Lama pretendeva di fare col salario. Ma i compagni mantengono la brutta abitudine di decidere loro qual è la verità e di variarla secondo l’utile del momento.

 

Ma Pd e Pci sono la stessa cosa?

Che Pcd’Italia, Pci, Pds, Ds, Pd siano un’unica cosa, l’adattamento senza soluzioni di continuità di una stessa identica realtà è un truismo. Non mi risulta che il Pci sia mai stato messo in liquidazione.

Le sedi sono rimaste le stesse, i circoli sono ancora al loro posto, gli stessi i quadri, gli stessi i dirigenti, con l’unico avvicendamento costretto da “sora nostra morte corporale”. Occhetto non fondò un nuovo partito: si limitò a cambiare nome a quello vecchio, anche se lui personalmente era forse di un’altra pasta, tant’è che, quando da studente entrò nell’Ugi invece che in Università Nuova, non era semplicemente un infiltrato. L’organizzazione è rimasta la stessa. Il cambiamento più significativo è stato il progressivo venir meno della necessità di una doppia struttura, il partito palese e il partito ombra, i partito organico all’arco costituzionale e il partito organico al comintern, solo apparentemente sciolto nel 1943,  il partito dell’opposizione parlamentare e il partito che custodiva le armi ed era foraggiato dall’Urss. La caduta del muro di Berlino e l’implosione dell’Unione sovietica hanno reso più democratico il Pci, nel senso che si è dovuto rassegnare a dare la scalata al potere con gli strumenti della democrazia, ma non ci sono stati né una sua palingenesi né un suo ravvedimento


Le due vie per prendere il potere: la lotta armata e l’arma della democrazia

 

E vengo al comunismo italiano e al suo progetto rivoluzionario.

Il partito comunista nasce come partito rivoluzionario, sezione italiana della terza internazionale, e non ha mai perso né rinnegato questo suo stigma originario. Come tale. sovversivo, incompatibile con un sistema liberale e democratico, automaticamente fuori legge. Questa vocazione rivoluzionaria – eversiva – venne in qualche modo coperta durante la guerra civile dalla valenza antifascista, che creò un’alleanza di fatto con i partiti democratici e liberali. Per ragioni esclusivamente tattiche Togliatti, d’accordo con Stalin, volle trasformare il partito rivoluzionario in uno strumento di lotta parlamentare senza per altro mai, dico mai, smentire la sua matrice rivoluzionaria, che, al contrario, continuò a vivere con una sua struttura organizzativa e militare che nel gioco a scacchi dei comandi Nato e del patto di Varsavia  aveva una funzione precisa: la predisposizione lungo la dorsale appenninica di focolai insurrezionali e il sabotaggio dei porti di Livorno e Genova. E che, of course, si manteneva intatta nelle parole d’ordine e nel comune sentire dei militanti mentre faceva le sue prove generali nelle manifestazioni di piazza.  Ma le probabilità di successo di un’insurrezione popolare nel nostro Paese erano nulle nonostante le smanie di vecchi arnesi che non avevano dismesso gli scarponi e avevano nascosto il fucile in cantina  e dei loro nipotini ansiosi di emularli. Altro che “album di famiglia”. Se poi si desiderano dettagli, si provi a fare qualche domanda ai vertici militari in servizio qualche annetto fa.

Detto questo il volterriano Candid mi potrebbe chiedere: ma se queste cose sono il segreto di Pulcinella come mai tutta la dirigenza comunista dal dopoguerra a tutti gli anni Ottanta non è finita in galera per alto tradimento?  La domanda andrebbe girata alla magistratura.

 

 

Chi si è avvantaggiato degli anni di piombo e di tangentopoli

Sulla torbida storia delle brigate rosse e dei loro epigoni non voglio entrare. Quel che è certo è che dagli anni di piombo sono usciti un Pci molto più forte e molto più vicino al centro del potere  e una Democrazia cristiana molto meno anticomunista. Quel che è certo è che dopo tangentopoli l’unica struttura partitica rimasta in piedi è guardacaso il Pci mentre il grosso di quel che restava della Dc frantumata per sopravvivere si è adattata ad esserne fagocitata. Berlusconi è solo riuscito a ritardarne la conquista del potere con gli strumenti della democrazia ma è stato fatto fuori con strumenti che con la democrazia hanno poco a che vedere. Poi  è venuta l’ora del potere rosso, di un rosso apparentemente  sbiadito che  dell’originale mantiene la protervia, la bulimia di potere – e di denaro – ma non l’intelligenza. Che Renzi somigli poco ai vecchi leader comunisti sono perfettamente d’accordo. Non ne ha né lo spessore culturale né la taratura morale né le motivazioni ideali.  Dico il potere rosso, le istituzioni rosse e non l’Italia rossa perché il popolo italiano è stato ingannato e prevaricato: non c’è più alcuna corrispondenza fra eletti e elettori, politica e volontà popolare. I comunisti – o come li volete chiamare – comandano ora in Italia con un consenso che non è superiore a quello che avevano nei 


Ma quando uno Stato è totalitario?

Quello di totalitarismo è un concetto mal definito, nel quale il valore connotativo supera di gran lunga il significato denotativo: in questi casi il ricorso al vocabolario non serve a nulla. Io lo intendo, come comunemente si fa, per quello che ritiene di suggestioni fichtiane e hegeliane, reminiscenze  platoniche e tragiche esperienze storiche. Ma siccome fu lui nei primi anni Venti a introdurre il termine nel linguaggio della politica, vorrei ricordare che Giovanni Amendola  con totalitarismo intendeva riferirsi a un sistema caratterizzato “dallo spadroneggiamento completo e incontrollato nel campo della vita politica e amministrativa”. Chi se la sente oggi, nel nostro Paese, di negare che sia in atto una commistione fra industria pubblica e privata e fra politica, imprenditoria e sistema bancario, un intreccio fra magistratura e politica, la coincidenza del potere politico col potere dei partiti, o meglio del partito, l’ingerenza della politica, cioè del partito, nella scuola e nell’università?

Tutto questo insieme a un sistema sanitario al quale il cittadino deve obbligatoriamente contribuire, senza per altro averne un ritorno soddisfacente, un sistema pensionistico che ti mette in balia dello Stato, mezzi di comunicazione asserviti al potere, l’obbligo per i cittadini di pagare la televisione di regime. Ce n’è abbastanza per sospettare che ad Amendola questo sarebbe parso uno Stato totalitario. Per me lo è.

Che poi ci sia libertà di opinione, di associazione, di parola, come questo stesso sito dimostra, è fuori discussione (ma mentre lo scrivo il mio alter ego mi suggerisce di non sbilanciarmi troppo). Il potere, infatti,  è un muro di gomma e ha scoperto da tempo che le opinioni, le critiche, i mugugni non lo intaccano, ci rimbalzano sopra. Totalitarismo, quindi, e della peggiore specie: funzionale al benessere di pochi, cialtrone, supponente, arrogante. L’accademia della crusca ha dovuto aspettare che Renzi, che di quel totalitarismo è stato un’espressione coerente, si levasse dai piedi per poter sommessamente ricordare ai politici di non ricorrere ad anglismi inutili e fuorvianti. Ma dov’erano quei custodi della lingua quando veniva varato il jobs act? Anche questo silenzio, se mi si consente, è un segno di totalitarismo.

Una democrazia sui generis o un sistema totalitario?

Quando ho scritto che i compagni hanno occupato, okkupato, tutto l’occupabile tanto da far sembrare il ventennio una democrazia liberale non intendevo certo  difendere il regime mussoliniano. Se però si insiste nel non voler cogliere il tono paradossale della mia affermazione allora è bene chiarire che: il regime aveva un consenso plebiscitario; nonostante quel consenso Mussolini aveva lasciato in piedi un sistema diarchico, che, fra l’altro, lasciava al re il comando delle forze armate; la Chiesa manteneva un potere se si vuole eccessivo nel campo dell’educazione; la casa editrice di maggiore prestigio era scopertamente ostile al regime; la magistratura era sostanzialmente indipendente; i giornali non erano più asserviti al potere di quanto non lo siano ora e infine se – cosa che giudico deprecabile – qualche innocuo sovversivo venne spedito al confino, negli Stati Uniti i sovversivi finivano sulla sedia elettrica. Detto questo io non rimpiango il fascismo ma non nascondo che questa Italia di corrotti, incapaci, incompetenti mi fa ribrezzo. Comunisti e sindacati rossi hanno fatto della democrazia una plutocrazia, hanno creato disoccupazione, miseria, sfiducia, rassegnazione hanno creato nuovi ricchi e fatto arricchire quelli che già lo erano, hanno distrutto il ceto medio, hanno trasformato la scuola in un parcheggio e l’insegnamento in un lavoro socialmente utile per smaltire la disoccupazione intellettuale. E, dulcis in fundo, hanno consentito e favorito quella che continuo a considerare un flagello, l’invasione dei cosiddetti migranti

 


L’accoglienza,  il razzismo, la Patria

Già; i migranti. Su questo punto ho già scritto molto e non voglio ripetermi. Ora pare che anche Bergoglio si ponga qualche domanda. Ma io sto dalla parte di chi predica nel deserto non di chi scopre in ritardo i propri errori e versa lacrime di coccodrillo dopo aver causato il danno. In sintesi: c’è un tam tam che percorre l’Africa: in Italia si viene accolti, alloggiati, nutriti e rivestiti; tanto basta per spingere migliaia di giovani a  tentare l’avventura. Aggiungo anche che in Italia si può esercitare la prostituzione in una maniera molto più remunerativa che in terra africana e in Italia si può anche spacciare droga senza correre grossi rischi. Sotto certi aspetti quindi l’Italia per molta gente può sembrare l’Eldorado. Io ho una grande ammirazione per gli africani che lavorano, soffrono, combattono giorno per giorno per “qualcosa che vale” – come scriveva tanti anni fa Robert Ruark –,  per il sogno di un’Africa libera dalla corruzione, dalla fame, dall’invadenza dei neocolonialisti, dai capi asserviti agli interessi francesi o americani. Questi che vengono come parassiti, per sfuggire alle loro responsabilità, che rinunciano a impegnarsi per la loro terra, questi che sono incoraggiati e indirizzati dai movimenti e dagli Stati islamici vanno solo rispediti a casa loro. Alla domanda provocatoria sulle differenze di razza non rispondo. Quanto alla Patria, quello è un valore naturale e non saranno certo omuncoli come Soros e gli altri burattinai della globalizzazione no borders a distruggerlo.

Personalmente non ho mai confuso razze, culture, ceppi linguistici e sono persuaso che Darwin e, più di lui, il cugino Galton abbiano imboccato delle strade senza uscita e incanalato la ricerca verso direzioni sbagliate. Ma se di razzismo si vuole parlare nel contesto della pressione migratoria alla quale è esposta l’Europa, allora dico chiaro e tondo che i primi razzisti sono proprio i buoni, i caritatevoli, quelli che predicano l’ospitalità, intimamente convinti che i negri siano degli eterni fanciulli di cui prendersi cura, incapaci di badare a se stessi, bisognosi della nostra protezione, buoni al massimo per attività che non richiedono competenze e responsabilità e non dico altro per buona creanza e rispetto per i frequentatori di questo sito. Io, che razzista non sono, non faccio nessuno sconto agli africani. Pretendo che affrontino le loro difficoltà e i loro problemi senza scaricarli addosso agli altri, che si rimbocchino le maniche, che si decidano ad attuare a casa loro una politica demografica razionale, che mettano fine alle loro lotte tribali.

Riguardo alle differenze culturali, quelle sono un dato di fatto che può determinare conflitti e incompatibilità quando investono aspetti delicati della vita associata come i rapporti uomo donna, il ruolo della religione, la tolleranza e il rispetto per la diversità.

La storiella degli opposti estremismi

Roberto Fiore mi interessa il giusto, cioè zero. Considerarlo un pericolo per la democrazia mi sembra umoristico, come le sentenze con le quali è stato condannato. Dico quello che vedo e quello che leggo: a spaccare le vetrine, a prendere a sassate i poliziotti, a bloccare le strade sono solo ed esclusivamente le bande rosse. Tornerebbe comodo che si fronteggiassero rossi e neri per ripetere la vecchia solfa degli opposti estremismi, casseur contro casseur, ma non è così.  E torna comodo di fronte a qualsiasi sussulto di opposizione non pilotata, non consentita, non organizzata e finanziata dai compagni tirare in ballo gli ideologi neri degli anni di piombo, poco o punto conosciuti ma avvolti in un’aura maligna di dicerie incontrollate, di complotti fumosi, di attentati reali o supposti, non rivendicati o di dubbia paternità. In un passato non abbastanza lontano che non fa onore al nostro Paese hanno occupato le cronache con le loro gesta personaggi della peggiore specie, usciti da sindacati malati e università allo sbando. Lasciamoli perdere una volta per tutte e cerchiamo piuttosto di ficcare bene nella testa delle nuove generazioni che la lotta politica si fa  nelle cabine elettorali, non nelle piazze e men che mai con le bombe.


Le colpe del comunismo non sono di quelli che nel comunismo hanno creduto

 

Quando mi riferisco al comunismo, al Pcd’Italia, Pci, Pds, Ds, Pd e ne denuncio le malefatte non nego che fra i comunisti, ad ogni livello, ci siano e soprattutto ci siano stati, uomini e donne di grande valore personale. Mi spingo anche oltre: posso ammettere che uomini come Gramsci o lo stesso Togliatti credessero veramente che l’abbattimento delle frontiere e l’edificazione di una patria socialista comune fossero il futuro di un’umanità affrancata dalla soggezione al capitale, libera dal bisogno e in cui ogni individuo fosse messo in grado di vivere la propria esistenza nella pienezza delle proprie potenzialità. Ho avuto il piacere tanti anni fa di conoscere Bruno Widmar che diceva che il comunismo gli aveva insegnato ad essere un uomo libero e non ho motivo di credere che non fosse in buona fede. Del resto mio padre, che era un uomo onesto e disinteressato fino al limite della dabbenaggine, uno che dopo l’8 settembre credette bene, lui che fascista non era stato, di indossare l’uniforme della guardia repubblicana per non cedere alla tentazione del tutti a casa o si salvi chi può, ricavandone  l’unico vantaggio di essere massacrato da un gruppo di militari tedeschi che  terrorizzavano i passanti nel centro di Firenze e di  rischiare di nuovo la pelle a guerra finita ad opera di partigiani, portuali che avevano tutti indossato la camicia nera d’ordinanza quando conveniva farlo, mio padre dico, si accostò al Pci diventandone un dirigente di sezione fino ai fatti di Ungheria, convinto anche lui degli ideali di giustizia sociale, di libertà e bla bla bla. Anche nella polemica politica più aspra è necessario mantenere la capacità di rapportarsi all’altro, di vedere nell’altro la persona e non l’avversario o, peggio, il nemico, e, soprattutto, bisogna guardarsi dall’identificare la persona con le idee che professa o con la parte a cui congiunturalmente appartiene o crede di appartenere. Io sono intransigente nei confronti di idee che giudico deleterie, di progetti politici che sono miseramente falliti, delle menzogne con le quali si cerca di irretire il popolo e di mistificare la storia ma so bene che ci sono storie personali che giustificano posizioni anche irrazionali, persone animate dal desiderio di vedere il bene anche dove non c’è, e a volte, specialmente nei giovani,  una sana ingenuità che va rispettata.   

Non si devono temere le idee ma i comportamenti

Le idee si cambiano, le persone restano; sono i comportamenti a segnare la nostra storia personale, a fare di noi quelli che siamo, non le opinioni che professiamo, inevitabilmente condizionate dai dati che possediamo, dalle notizie che abbiamo recepito, dall’autorevolezza di chi ci ha informato. Non me la prendo con lo studentello che simpatizza per il movimento no global  – del resto io non sono tenero con la globalizzazione – ma  col frequentatore dei centri sociali, l’incappucciato, il no global che riconosciuto Borghezio cerca di buttarlo giù dal treno in corsa o impedisce a chi vorrebbe ascoltarlo l’ingresso nel locale dove sta parlando, perché quello sì è un pericolo per la democrazia e il mio sospetto è che sia solo uno strumento manovrato dal partito.

In democrazia non si deve aver paura delle parole. Se uno pensa, dice o scrive che i fascisti non devono parlare è solo un mascalzone e un imbecille ma sono anche imbecilli e mascalzoni quelli che ci passano sopra, che fanno finta di nulla. Chi ha paura delle parole non è solo è un vile ma un violento della peggiore specie. Ma quella canaglia che nella città, la mia,  che si diceva  essere la più rossa d’Italia – dopo essere stata la più nera – pretende di zittire ogni voce fuori dal coro non è per conto suo capace di distinguere una voce dall’altra, non sa da sé quando e per cosa si deve mobilitare, non è in grado di decifrare autonomamente il più elementare concetto: deve essere imbeccata come un cagnaccio ottuso e aggressivo condizionato dal comando del padrone: attacca! Alla domanda chi sia il padrone non è difficile rispondere.

E non perdiamo il gusto di ragionare sine ira ac studio

Non credo, caro Sguerso, di averla convinta e, del resto non era mia intenzione modificare i suoi atteggiamenti. Spero però di averle chiarito i miei. Un mondo dove tutti la pensassero allo stesso modo non farebbe per me.  Semplicemente volevo mostrarle prospettive diverse con la convinzione di fondo che se le idee non coprono interessi concreti, se non sono la foglia di fico per nascondere le proprie vergogne, se si è in buona fede, le opinioni sono sempre rispettabili, si può pacatamente discuterne e magari imparare qualcosa l’uno dall’altro.

p.s.

Premetto che il refuso è sempre in agguato e giusto ieri ho privato Nietzsche di una esse,  ma “altra cosa è…altra cosa è” al posto di “una cosa è…un’altra è” è buona lingua calcata sul latino e attestata anche nel siciliano “Autru est parari i motti autru est muriri”, tanto per rimanere sul tema iniziale. Non me ne voglia se sono un po’ pignolo: è il nostro mestiere.

 

Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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