Su Mosè come persona e Mosè come eponimia (sesta parte)

Giacobbe e Rachele in un dipinto di Tanzio da Varallo

E’ opportuno adesso riportare finalmente in toto quel lungo brano della Genesi che già abbiamo citato in alcune sue parti, perché può aiutarci a mettere in evidenza certi aspetti riguardanti il nostro discorso:
– Disse dunque [Giacobbe]:
“Ti servirò sette anni per Rachele, tua figlia minore”.
Rispose Labano:
“E’ meglio la dia a te che ad un altro uomo. Rimani con me”.
Così Giacobbe servì per Rachele sette anni, e gli parvero pochi giorni tanto era l’amore che le portava. Poi Giacobbe disse a Labano:“Dammi mia moglie, perché è passato il tempo e io voglio entrare da lei”.
Allora Labano invitò tutta la gente del luogo e fece un banchetto. Ma la sera prese sua figlia Lia e la condusse da lui. Ed egli entrò da lei. Labano diede inoltre per serva a sua figlia Lia la sua serva Zilpa. Ma al mattino, ecco apparve che essa era Lia. Allora egli disse a Labano:
“Cosa mi hai fatto? Non è forse per Rachele che io ti ho servito? Perché mi hai ingannato?”. Rispose Labano:
“Non si usa così dalle nostre parti, che si dia la minore prima della maggiore. Compi pure la settimana con questa e ti daremo anche quella per il servizio che mi presterai per altri sette anni”. Giacobbe fece così; compì la settimana con quella ed allora Labano gli diede in moglie anche sua figlia Rachele. Labano diede inoltre come serva a sua figlia Rachele la sua serva Bila. Ed egli entrò anche da Rachele e amò Rachele più di Lia e servì Labano per altri sette anni. Ora, vedendo il Signore che Lia era disprezzata, la rese feconda; Rachele invece rimase sterile. Così Lia concepì e partorì un figlio al quale pose nome Ruben, perché disse:
“Il Signore ha visto la mia afflizione; ora mio marito mi amerà”.
Poi concepì ancora e partorì un figlio e disse:
“Il Signore ha inteso che io sono disprezzata e perciò mi ha dato anche questo”.
E lo chiamò Simeone. Ed ella concepì ancora e partorì un figlio e disse:
“Questa volta mio marito si unirà a me, perché gli ho partorito tre figli”.
Perciò lo chiamò Levi. Essa concepì ancora ed ebbe un altro figlio e disse:
“Questa volta loderò il Signore”.
Perciò gli mise nome Giuda. Quindi cessò di avere figli. Ora Rachele vide che non poteva partorire figli a Giacobbe, perciò Rachele divenne gelosa di sua sorella e disse a Giacobbe:
“Dammi dei figli, altrimenti muoio”.
Giacobbe si adirò contro Rachele e rispose:
“Tengo io forse il posto di Dio che ti ha negato il frutto del seno?”
Allora ella disse:
“Ecco la mia serva Bila. Entra da lei e partorirà sulle mie ginocchia; così anch’io sarò edificata per suo mezzo”.
Gli diede in moglie Bila sua serva e Giacobbe entrò da lei. Bila concepì e partorì a Giacobbe un figlio. Rachele disse:
“Dio mi ha fatto giustizia, ha ascoltato anche la mia voce e mi ha dato un figlio”.
Per questo lo chiamò Dan. Poi Bila, serva di Rachele, concepì di nuovo e partorì a Giacobbe un secondo figlio. E Rachele disse:
“Lotte divine ho sostenuto con mia sorella ed ho vinto”.
Perciò lo chiamò Neftali.
Allora Lia, vedendo che aveva cessato di avere figli, prese Zilpa sua serva e la diede in moglie a Giacobbe. E Zilpa, serva di Lia, partorì un figlio a Giacobbe. E Lia disse:
“Per fortuna”.
E gli pose nome Gad. Poi Zilpa, serva di Lia, partorì a Giacobbe un secondo figlio. Lia disse:
>“Per mia felicità, perché le donne si feliciteranno con me”.
E lo chiamò Aser.
Ora Ruben, al tempo della mietitura del grano, andando per la campagna, trovò delle mandragore e le portò a Lia sua madre. Allora Rachele disse a Lia:
“Di grazia, dammi delle mandragore di tuo figlio”.
Ma ella rispose:
“Ti par poco avermi portato via il marito, che vuoi portarmi via anche le mandragore di mio figlio?” Riprese Rachele:
“Ebbene, dorma pure con te questa notte in cambio delle mandragore di tuo figlio”.
Alla sera, quando Giacobbe tornò dalla campagna, Lia gli andò incontro e disse:
“Entra da me, perché ho pagato il diritto di averti con le mandragore di mio figlio”.
Così quella notte egli dormì con lei. E Dio esaudì Lia, la quale concepì e partorì a Giacobbe il quinto figlio. Allora Lia esclamò:
“Dio mi ha dato la mia mercede, per avere io dato la mia serva a mio marito”.
E lo chiamò Issacar. Poi di nuovo Lia concepì e partorì a Giacobbe il sesto figlio. Allora Lia esclamò:
“Dio mi ha fatto un bel regalo; questa notte mio marito starà con me, perché gli ho dato sei figli”.
E gli pose nome Zabulon. Infine partorì una figlia e la chiamò Dina. Allora Dio si ricordò anche di Rachele, Dio la esaudì e la rese feconda. Essa concepì e partorì un figlio e disse:
“Dio mi ha tolto il disonore”.
E lo chiamò Giuseppe dicendo:
“Mi aggiunga il Signore un altro figlio” – (Genesi 29, 18-35 e 30, 1-24).
Dunque Rachele si sentiva morire perché non poteva avere figli. Cosa vuol significare? Che oltre alla paura di perdere l’amore di Giacobbe il quale avrebbe amato di più colei, Lia, che con i figli gli dava l’immortalità, senza figli lei sarebbe finita con la sua propria morte; anzi, si sarebbe sentita come morta anche vivendo, perché priva di ogni considerazione sociale (e sappiamo quanto per il popolo di Israele essa contasse).

Si assiste, nel brano citato, ad un duello in cui vince chi riesce a generare di più.
Lia e Rachele sanno che i figli sono importanti nella loro società, tanto che chi ne è privo si sente umiliato profondissimamente. Per questo sono disposte a ricorrere alle loro schiave.
Ma perché per quella società, e quindi per loro che a quella società appartengono, avere figli sia tanto importante, non lo sanno.
Lia e Rachele non sanno che il disonore che alternativamente provano perché non possono avere tutti i figli che vorrebbero, è dato dal timore di non contribuire sufficientemente al progresso della società, dal timore di non fare la loro parte nel rendere numeroso come le stelle del cielo il loro popolo; dal timore di non fare la loro parte nel farlo arrivare al cielo.

Anche Giacobbe, come noi oggi, moltiplica le sue paternità senza sapere e senza domandarsi perché. Se a tal proposito si fosse posto delle domande, sarebbe andato contro al massimo dei tabù, perché avrebbe dovuto rispondere allo stesso modo di come tutti, se fossero in grado di essere radicalmente sinceri, dovrebbero rispondere: per il desiderio di non finire mai, di essere eterni.

Ma si può desiderare di essere eterni senza desiderare di essere Dio?
Siamo già troppo avanti, siamo già dove Mosè non vuole che si arrivi, per cui egli forse non permette neppure a se stesso di capire distintamente.
Facendosi dare l’ordine da YHWH (il corsivo al fine di ribadire come, trattandosi, appunto, di un ordine, si possa aggirare il divieto della sfida a Dio) di crescere e moltiplicarsi, Mosè si garantisce la gratitudine e l’obbedienza del popolo, e il rafforzamento politico-militare della nazione; ma nello stesso tempo carica una tendenza che va al di là  della semplice strategia politico-miliare, e che ha una valenza più globale e profonda, una strategia di tipo teo-antropologico che per più di tremila anni informerà la concezione del mondo occidentale, e che tuttora la informa. Essa tuttavia è, per paradosso, un messaggio che non deve essere decodificato neppure dal mittente: deve essere solo trasformato operativamente.
Si abbia scolpita nella mente l’immagine di Eva che coglie il frutto proibito. Si sia contriti per questo, e si sconti la punizione. Si sa di aver commesso un peccato; non si sa bene quale; ma il non saperlo è funzionale proprio a poterlo reiterare.

Lia, pur di avere un figlio, accetta di dare le mandragore di Ruben alla sorella, che in cambio le cede il diritto di trascorrere la notte con Giacobbe. Ed è un cambio che ha il suo tornaconto, perché quella notte Lia concepisce Issacar. Poi Lia concepisce ancora due volte e nascono Zabulon e Dina.
Rachele ha anch’essa il suo profitto, perché concepisce Giuseppe. “Iddio mi ha tolto il disonore” (Genesi 30, 23), afferma.
Rachele non concepisce Giuseppe se non tempo dopo; non in virtù della mandragora, ma solo perché Dio si ricorda di lei. Con questo si vuol significare che se è lodevole la determinazione di Rachele, è però Dio, e non lei, a decidere quando potrà avere un figlio. Finalmente ella conta qualcosa agli occhi di Giacobbe (che rappresenta il popolo di Israele e le dodici tribù da cui è composto) anche per la sua maternità e non soltanto per la sua bellezza. Conta per Giacobbe e conta per la società, perché contribuisce all’espandersi e all’affermarsi della  stessa.

Ma qual è il motivo per cui Dio solo a un certo punto decide di esaudire Rachele rendendola feconda? A nostro avviso, e in accordo con quanto si è andato dicendo, Dio la esaudisce perché ella dimostra, come già aveva fatto Giacobbe con le lenticchie per ottenere la primogenitura dal fratello Esaù, e con le pelli dei capretti poste sulle braccia per ottenere la benedizione del padre Isacco, di sapersi arrovellare fino allo stratagemma, di saper affinare l’intelligenza, di saper anche temporaneamente rinunciare pur di contribuire alla grandezza del suo popolo.
Dio la premia allora con un figlio, e la felicità di Rachele consiste, sebbene lei non lo sappia, nel sentire di avere partecipato all’opera di Dio, all’autoedificazione di Dio, all’autodeificazione del popolo. Insomma, così come Giacobbe dimostra di aver capito che una cosa meno concreta e non immediatamente fruibile quale la primogenitura rispetto ad un piatto di lenticchie, ha più valore di quest’ultimo, allo stesso modo Rachele dimostra di aver capito che essere onorata dalla sua gente, cioè essere pensata come colei che contribuisce alla crescita del popolo e al costituirsi di una nazione, vale la rinuncia ad una notte d’amore; che il bene sociale futuro, deve essere anteposto al bene individuale immediato.

Operare, consapevolmente o no, per il bene sociale futuro, è partecipare alla costruzione di Dio. Pertanto Dio si realizza (a questo punto è quasi superfluo precisare che “si realizza” è da intendersi nel senso passivante di “è realizzato” e, insieme, nel senso riflessivo di “realizza se stesso”) attraverso l’apporto che ciascun individuo dà alla società. Quando l’individuo ostacola o non incrementa o frena il progresso sociale, allora ostacola, non incrementa o frena il divenire di Dio. Ecco anche in ciò la fusione strutturale di religione e politica per gli Israeliti.

A questo punto comprendiamo meglio come tra Lia e Rachele abbia potuto verificarsi una tale lotta alla discendenza da coinvolgere persino le loro schiave: un uomo che non dissoda la terra, che non la irriga, che non costruisce case, che non inventa nuovi utensili e nuove tecniche, che non combatte il nemico, è colpevole; una donna che non genera è inutile (già abbiamo comunque precisato che il compito dell’uno e dell’altra, schematicamente attribuiti, non sono però così escludenti). Un uomo e una donna di tal fatta non favoriscono il processo di indiamento.

L’ebraico antico è una lingua che presenta notevoli difficoltà agli studiosi moderni. La coniugazione del verbo essere è una di queste.
La traduzione forse più consueta della parola “YHWH”, il nome che Dio stesso rivela a Mosè nell’episodio del roveto ardente di Esodo 3, 14, è “Io sono colui che sono”. Tuttavia, come si è poc’anzi detto, una delle tante traduzioni possibili è “Io sono colui che sarò”: un nome-frase che metterebbe in luce il divenire e quindi l’imperfezione divina del Dio che se sarà, ancora non è.
Tale traduzione collima e suffraga perfettamente il contenuto della strategia mosaica, mettendolo a nudo. Ma paradossalmente, proprio perché collima e suffraga e mette a nudo, la traduzione più verosimile resta a nostro avviso “Io sono colui che sono”.
Ben difficilmente infatti Mosè avrebbe scelto come nome di Dio un nome quale “Io sono colui che sarò”, così rivelativo dei suoi (di Mosè) piani, dal momento che si tratta di un nome riferito da colui il quale, affinché Dio sia, cerca di convincere la sua gente che Dio è!…

La complessità del problema è però tale che è necessario aggiungere come una traduzione probabilmente più rispondente sarebbe quella che riuscisse a trasmettere il significato complessivo dato dall’amalgama dei significati particolari del verbo essere nei tre tempi: passato, presente e futuro. In quest’ultima accezione si ha un modo a-temporale o onni-temporale di intendere il presente, vale a dire, per esemplificare, quel modo che ci suggerisce, nella proposizione “I felini sono quadrupedi”, che non si sta parlando, per il solo fatto di usare il presente, solamente dei felini di adesso, ma anche di quelli futuri e di quelli passati.
“Io sono colui che sono”, dunque, sta a significare anche “Io sono colui che è stato” e “Io sono colui che sarò”. Ovvero, “Io sono l’eterno”. E’ questo infatti il nome-frase che dice di un Dio trascendente, perfetto e sempre presente. Di un Dio al quale, nelle intenzioni di Mosè, gli ebrei avrebbero dovuto credere.

Cammino nel deserto del popolo di Israele verso la Terra Promessa

Al di là degli indizi per l’esatta interpretazione del nome di Dio, resta che se la gente di Israele (in prospettiva, l’ecumene occidentale o, in prospettiva estrema, l’ecumene tout court) avesse scoperto (scoprisse) che YHWH si nasconde dentro di lei, avrebbe rinunciato (rinuncerebbe) ad essere Dio: Il fine troppo ardito e la delusione di sapere che YHWH ha odiato, ha ucciso, ha avuto paura, e che tuttora provoca queste cose e le subisce, la avrebbe abbattuta (la abbatterebbe) fino alla rinuncia.
Mosè ha predicato Dio come Altro dall’Uomo. E così doveva predicare se voleva che il suo progetto di acquisizione minima avesse successo; se voleva cioè che una massa dapprima eterogenea di dodici tribù diventasse comunità, e si fortificasse, e combattesse decisa e convinta, e vincesse, e finalmente arrivasse sulle rive del Giordano, e poi lo guadasse e decennio dopo decennio, secolo dopo secolo, realizzasse una promessa che le era stata fatta.
Ma, ed è questo uno dei nodi che complicano enormemente l’operazione di dipanare la logica della strategia mosaica, coloro che generano figli e coloro che danno il loro apporto al progresso tecnico-scientifico, non sanno che in realtà stanno commettendo un peccato contro il Dio oggetto del loro culto; che stanno attentando alla sua trascendenza e presenza.

FULVIO BALDOINO

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