SIAMO UN POPOLO DI MINORENNI?

La risposta è sì; lo aveva già visto e spiegato il Leopardi nel suo Discorso sopra lo stato presente del costume degl’Italiani , scritto tra la primavera e l’estate del 1824, e il bello (o meglio il brutto, il triste, il drammatico, il tragicomico, l’incredibile, il disarmante, il desolante, scegliete voi) è che, al netto dell’aspetto linguistico-formale per forza di cose datato, potrebbe benissimo essere stato scritto oggi: noi italiani siamo, per la maggior parte, sempre gli stessi di allora: egocentrici, cinici, retorici e indifferenti e insensibili all’opinione che gli altri popoli hanno di noi; insomma, noi italiani (per la maggior parte, non tutti, sia chiaro!) siamo dei grandi menefreghisti.
Ma ascoltiamo il Leopardi:   “Primieramente dell’opinione pubblica gl’italiani in generale, e parlando massimamente a proporzione degli altri popoli, non ne fanno alcun conto. Corrono e si ripetono tutto giorno cento proverbi in Italia che affermano che non s’ha da por mente a quello che il mondo dice o dirà di te, che s’ha da procedere a modo suo non curandosi del giudizio degli altri, e cose tali. Lungi che gl’italiani considerino, come i francesi, per la massima delle sventure la perdita e l’alterazione dell’opinione pubblica verso loro, e siano pronti, come i francesi ben educati, a soffrire e sacrificar qualunque cosa piuttosto che incorrere anche a torto in questo inconveniente; essi non si consolano di cosa alcuna più di leggieri che della perdita eziandio totale (giusta o ingiusta che sia) dell’opinione pubblica, e stimano ben dappoco chi pospone a questo fantasma i suoi interessi e i suoi vantaggi reali (o quelli che così si chiamano nel linguaggio della vita), e chi non si cura di incorrere per amor di quello in danni o privazioni vere, d’astenersi da piaceri, ancorché minimi , e cose tali. Insomma, niuna cosa, ancorché minimissima, è disposto un italiano di mondo a sacrificare all’opinione pubblica, e questi italiani di mondo che così pensano ed operano, sono la più gran parte, anzi tutti quelli che partecipano di quella poca vita che in Italia si trova”.

Da questo quadro tracciato da Leopardi con una precisione da entomologo appare chiaro che anche oggi, “la più gran parte” degli italiani che agisce nello spazio pubblico, cioè la piccola, media e alta borghesia del commercio, delle professioni, degli affari e, ahimè, della politica e dell’amministrazione statale antepone il proprio interesse privato, i propri desideri e le proprie ambizioni al bene comune e persino al proprio buon nome. Anche il Guicciardini descrive la realtà degli italiani del suo tempo nella Storia d’Italia (1537-1540) dove tratta  del declino degli Stati italiani, progettati  alla stregua di vere e proprie opere d’arte, ma fragili dal punto di visto etico e strategico: “Mancava la forza morale; supplì l’intrigo, l’astuzia, la simulazione, la doppiezza. Ciascuno pensava al proprio particulare sì che nella tempesta comune naufragarono tutti. La consuetudine nostra non comportava che s’implicassi nella lotta tra i principi, ma attendesse a schierarsi, ricompagnandosi chi vinceva secondo le occasioni e le necessità.

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Noi abbiamo bisogno di intrattenerci con ognuno de’ potenti e mai fare offesa ad alcun principe grande”. A sua volta Francesco De Sanctis, cinquecento anni dopo, chiosa così questa famosa e sconsolata rappresentazione  guicciardiniana: “Non c’è spettacolo più miserevole di tanta impotenza e fiacchezza in tanta saviezza. La razza italiana non è ancora sanata da questo marchio che ne impedisce la storia. L’uomo del Guicciardini lo incontri ancora a ogni passo; ci impedisce la via se non avremo la forza di ucciderlo nella nostra coscienza”. Parole dure ma sempre attuali – a parte l’espressione “razza italiana” al posto di “popolo italiano”, che ci fa sobbalzare, ma all’epoca (1870) la parola “razza” non aveva ancora  assunto il senso negativo che ha oggi, a causa dell’uso pseudoscientifico, biopolitico e criminale che ne hanno fatto i nazifascisti e i loro emuli; anzi, l’uomo – e la donna – ­ guicciardiniano non solo è ben vivo e vegeto tra noi, ma si è anche moltiplicato e organizzato (penso ai no vax e ai putiniani di casa nostra) tanto che  è salito agli onori (si fa per dire) della cronaca politica: “Si stancano subito del giocattolo nuovo, gli italiani. Creduloni e cinici, sentimentali e scettici.

Pronti a dire non ce la contate giusta, ah ah, ci state gabbando in favore delle multinazionali e poi incapaci di ricordare che cos’è successo ieri…Berlusconi, che tra gli illusionisti è stato il campione olimpico, lo diceva nei suoi anni d’oro, vent’anni e rotti fa: bisogna trattare gli italiani come se fossero tutti in quinta elementare. Come se avessero dieci anni. E’ desolante, ma aveva ragione…Ora lo scenario possibile di un governo neofascista e di un’opposizione populista racconta la fine della politica del Novecento, la fine delle radici ideali della politica. Si potrebbe dire, in sintesi, la fine della politica. Il popolo bambino è disilluso, capriccioso, irresponsabile. Vuole un’emozione nuova, un capopopolo diverso. Vuole qualcuno che risolva i suoi problemi al posto suo, e se non funziona poi lo mandiamo a casa presto come abbiamo sempre fatto…” (Concita De Gregorio, su la Repubblica  del 25 /09 / 2922). Fine della politica? Ma non era già morta e sepolta da almeno vent’anni? Certo è che, di emergenza in emergenza, naturale o sociale, economica o sanitaria e ora anche bellica: inviare ancora  o non inviare più armi in Ucraina? Continuare o non continuare con  le sanzioni contro la Russia di Putin? E chi ci salverà dall’inflazione galoppante e dall’ emergenza energetica prossima ventura? Le nostre care (?) istituzioni democratiche, i partiti politici, le grandi organizzazioni sindacali, la magistratura, la stessa Chiesa cattolica, hanno via via perso il loro potere e la loro autorevolezza, tanto che nelle recenti tornate elettorali l’astensionismo è cresciuto a dismisura, e, con l’astensionismo, il disimpegno politico cioè il qualunquismo: chi me lo fa fare a scomodarmi per andare a votare? tanto sono tutti uguali!

Così è successo che la gran parte dei votanti nelle ultime elezioni politiche, più che per convinzione, hanno votato per protesta, cioè contro i partiti dell’odiato establishment regalando la vittoria a Giorgia Meloni. Chi è causa del suo mal, verrebbe da dire, pianga se stesso. Così l’uomo del Guicciardini si è ripreso la scena, che, in realtà, non aveva mai abbandonato. Questo, non altro, significa “l’evaporazione della politica” di cui ha parlato lo psicoanalista Massimo Recalcati; chi si ricorda più del mitico Sessantotto? Dov’è finita quella visione alta e nobile della politica che riusciva a mobilitare tanti giovani, convinti di lottare per un mondo migliore? “La campagna elettorale del 2022 sarà ricordata per la povertà dei messaggi. Una campagna elettorale disabitata di pensieri, leadership, capacità di mobilitazione del Paese” (Marco Damilano). Oggi ha vinto il disimpegno, l’egocentrismo, il disincanto, il “particulare” di ciascuno, cioè l’infanzia rispetto alla maturità, in questi tempi bui. Speriamo in  bene.

Fulvio Sguerso

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